Amleto

© Ennevi Foto

Franco Faccio, Amleto

Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

«Essere o non essere! codesta la tesi ell’è»

Tra un mese il Mefistofele di Arrigo Boito aprirà la stagione lirica romana, ma intanto al Filarmonico di Verona è possibile scoprire un altro lavoro di quegli anni, ispirato questa volta non a Goethe ma a Shakespeare, «la grande attualità del melodramma» come scrive Boito nel 1865 pensando al Macbeth di Verdi andato in scena a Parigi ad aprile e al suo libretto dell’Amleto con musica di Franco Faccio presentato a Genova il 30 maggio. Boito ha 23 anni, Faccio 25, entrambi sono veneti e appartengono al movimento della Scapigliatura, sono giovani, irruenti e si arruoleranno entrambi nel corpo dei volontari di Garibaldi in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza. Il frutto del loro lavoro non ha però il successo sperato e sei anni dopo viene presentato in una versione piuttosto rimaneggiata alla Scala di Milano il 9 febbraio 1871. Ma è un fiasco ancora maggiore e l’indisposizione dell’interprete titolare, il tenore Mario Tiberini, è la scusa per ritirare il lavoro, che non verrà mai più rappresentato. Per Faccio è anche la decisione di abbandonare per sempre la composizione e dedicarsi solo alla direzione d’orchestra. 

L’Amleto è stato ripreso ad Albuquerque nel 2014 nell’edizione critica di Anthony Barrese e poi a Bregenz nel 2016 in una produzione disponibile in video. Ora ritorna nella città natale del compositore come prima esecuzione italiana in tempi moderni preceduta da un’interessante tavola rotonda ospitata a Palazzo Maffei in Piazza delle Erbe, dove esperti hanno discusso delle peculiarità di un lavoro che rappresenta un unicum nella storia dell’opera italiana nella sua traduzione della drammaturgia scespiriana e nella restituzione teatrale delle teorie della Scapigliatura. Non ultima è la sua difficoltà di esecuzione legata alla parte vocale estremamente impegnativa del personaggio principale per di più quasi sempre presente in scena. 

L’Amleto è opera ambiziosa, velleitaria ma piena di un’energia giovanile che cerca ispirazioni ad ampio raggio – Verdi, Wagner, la grandiloquenza del grand-opéra, ma anche il lirismo di Gounod – con risultati inediti e a loro modo personali. Chi ha voluto l’opera ha dovuto affrontare un primo problema: della versione scaligera si è perso il quarto atto, manca dagli archivi Ricordi. Quella qui proposta è una versione spuria: i primi tre atti sono del 1871 e il quarto del 1865. Il secondo problema era quella del reperimento dell’interprete titolare, ma la scelta del tenore Angelo Villari per la prima e per l’ultima recita (si alterna con Samuele Simoncini nelle altre due recite) ha giustificato questa attesa ripresa grazie alle qualità vocali dell’interprete. Il suo ruolo anticipa quelli della Giovane Scuola (soprattutto Giordano) e il cantante, che ha in repertorio Ponchielli, Mascagni, Cilea, Respighi, affronta con agio una tessitura che si può definire sadicamente impervia. Villari esibisce una voce sonora, un timbro squillante e di grande proiezione, uno scavo della parola e un fraseggio efficace, ma diversamente dall’Amleto introverso e straniato di Pavel Černoch dell’edizione di Bregenz, il suo è virile e deciso, anche troppo, la figura quasi mussoliniana e il turbamento del personaggio di Shakespeare, la sua cinica ironia qui sono assenti. Per contrasto, ancora più intensa, trepidante ed emozionante è l’Ofelia di Gilda Fiume che domina perfettamente la lunga scena della pazzia. Anche lei si alterna nelle recite con un altro soprano, Eleonora Bellocci. 

La regina Geltrude nel libretto di Faccio ha un momento di pentimento assente in Shakespeare, «Ah! Che dissi? Io rea, che il padre | spensi al figlio e tolsi il trono, | non son madre, ah non son madre!…», che Marta Torbidoni intona con grande intensità e voce ricca di risonanze gravi. Dei molti altri interpreti alcuni sono più convincenti di altri, ma tutti dipanano con efficacia teatrale la lingua artificiosissima di Boito, qui più scapigliato che nelle successive opere di Verdi. Nel suo Amleto tocca le vette dello sperimentazione e della ricercatezza linguistica: «Con impaziente foja abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell’adre braccia di quel drudo! […] All’arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffïata […] Eccovi tutto grullo e incamuffito!». Fortunatamente il cast è interamente italiano è una sbirciata al vocabolario risolve il problema di comprensione.

L’orchestra della Fondazione Arena di Verona dà ottima prova sotto la guida di Giuseppe Grazioli che ha sostituito il previsto Alessandro Bonato. Senza nulla togliere dell’esuberanza a tratti ingenua della partitura, ne fornisce una lettura antiretorica che ha i momenti migliori nelle pagine puramente strumentali dei preludi e della marcia funebre di Ofelia, un lungo solenne brano che ha preso la strada dei concerti sinfonici ed è la pagina più conosciuta dell’opera. Anche il coro, istruito da Roberto Gabbiani, si è dimostrato all’altezza della prova.

Alla sua prima regia lirica Paolo Valerio non delude ma neanche esalta: il suo è un impianto minimalistico che fonde elementi tradizionali, quinte, tende, frange, con le proiezioni di Ezio Antonelli in modo sobrio. Se i movimenti del coro sono impacciati, meglio vanno i personaggi principali e gli attori della pantomima trasformati in marionette. Efficaci le luci di Claudio Schmidt mentre poco caratterizzati si rivelano i costumi di Silvia Bonetti, che rimandano agli anni tra le due guerre in cui il regista sembra voler ambientare la storia. Ma lo spettro del padre di Amleto si presenta in un’incongrua armatura!

Un pubblico molto partecipe e generoso di applausi a scena aperta ha decretato col suo entusiasmo che l’Amleto di Faccio può entrare nel repertorio. E si sa, il pubblico ha quasi sempre ragione…