Mese: aprile 2019

Stagione sinfonica RAI

Ludwig van Beethoven, Sinfonia in Mib op. 55 (Eroica)
Richard Strauss, Ein Heldenleben (Vita d’eroe), poema sinfonico op.40

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 27 aprile 2019

Gli eroi di Petrenko

«Non me la ricordavo così bella!», «Mai sentita così trascinante!», «È come se l’avessi ascoltata per la prima volta!». Questi i commenti del pubblico dell’Auditorium RAI nell’intervallo del concerto dopo l’esecuzione dell’Eroica.

Ogni volta quella di Kirill Petrenko è una epifania, una rivelazione: il suo Beethoven ha l’entusiasmo giovanile di un trentenne folgorato dalla figura di un condottiero, Napoleone, che stava trasformando la società secondo un destino superiore. Poi verrà il disinganno, ma la musica continua a celebrare un’astratta idea di virtù eroica. Sinfonia rivoluzionaria in tutti i sensi, sotto la direzione di Petrenko la composizione rifulge dei colori e dei ritmi che avevano scandalizzato i suoi contemporanei. È un’esaltazione della trasparenza di un’orchestra che trascina con sé anche la dotta polifonia con cui sono scritte alcune sue pagine.

Meno di cento anni separano l’Eroica da Vita d’eroe, ma sembrano molti di più: anche se il poema di Strauss è del 1898, sembra appartenere già al nuovo secolo, il secolo più brutale. Ce lo dicono il rullo minaccioso dei tamburi, i lampi lancinanti degli ottoni, le strazianti trombe fuori scena. Se con Beethoven la forma era stata messa a dura prova, ma resisteva, qui la forma si frantuma nei sette pezzi di cui è composto il Tondichtung, diventando anche un movimento di concerto per violino, pagina affidata alla maestria di Roberto Ranfaldi, primo violino dell’orchestra. La stupefacente scrittura, che sembra esaltare l’arte compositiva dell’autore, viene resa dal direttore russo con una padronanza orchestrale che muove giustamente all’entusiasmo il pubblico torinese.

 

Katiuska

Pablo Sorozábal, Katiuska

★★★★☆

Madrid, Teatro de la Zarzuela, 4 ottobre 2018

(live streaming)

L’operetta, dove le principesse russe si innamorano di un bolscevico

Più operetta che zarzuela Katiuska, la mujer rusa è la prima opera lirica di Pablo Sorozábal, compositore basco di grande successo in Spagna. Su libretto di Emilio González del Castillo e Manuel Martí Alonso fu rappresentata il 28 gennaio 1931 al Teatro Victoria di Barcellona.

Interno di una locanda in Ucraina. Le donne pregano e i contadini bevono serviti da Boni, il giovane oste. La zia Tatiana e la fidanzata Olga lamentano che il Soviet ha incendiato il palazzo del giovane principe Sergio, che si suppone morto. Si teme anche l’arrivo del commissario del Soviet di Kiev per espopriare la terra. Pedro Stakof, commissario sovietico, arriva alla locanda di Boni senza identificarsi e sostenendo di essere venuto ad arrestare il principe Sergio, miracolosamente salvato e fuggito. I contadini lo disprezzano perché vedono in lui un nemico e Pedro si allontana. Le conversazioni vengono improvvisamente interrotte dall’arrivo del principe Sergio tra gli applausi dei contadini. Con sé c’è Katiuska. Tutti vogliono aiutare il principe, ma egli li avverte del pericolo che corrono perché hanno messo una taglia sulla sua testa. Chiede, tuttavia, che aiutino Katiuska, che ha trovato nella confusione della fuga. Lei racconta che ha perso tutta la sua famiglia e le sue risorse. Il principe fugge, ma prima consegna monete d’oro al locandiere in modo che nulla manchi alla ragazza. I tamburi annunciano l’arrivo di soldati dell’Armata Rossa. Arrivano mezzo ubriachi e molestano Katiuska. Pedro arriva e la difende. Katiuska dimostra la sua gratitudine e racconta di ignorare chi realmente lei sia, anche se ricorda che sua nonna le diceva che lei “era diversa”. I contadini riconoscono in Pedro il commissario e sono pronti a linciarlo, Ma la ragazza lo protegge nascondendolo nella sua stanza. Di notte Pedro appare trascinando prigioniero il Principe. Katiuska comprende i suoi ideali bolscevichi e dichiara il suo amore a Pedro chiedendogli di risparmiare la vita del Principe permettendogli di fuggire, ma Pedro si rifiuta. Bruno e Pich propongono a Olga un viaggio a Parigi. Soldati e contadini arrivano portando uomini e donne nobili rastrellati in città. Ora si scopre che Katiuska è una principessa erede dello zar. Pedro lascia andare i prigionieri, eccetto il principe – che sarà giudicato – e a Katiuska concede l’opzione di lasciare la Russia o di vivere come una donna del villaggio. Lei decide di stare con lui.

Sorozábal può essere considerato l’ultimo compositore di zarzuela. L’eleganza dell’orchestrazione, le facili melodie, le intense romanze, i ballabili e il colore esotico sono elementi tipici dei suoi lavori. I 7 numeri musicali al primo atto, gli altrettanti al secondo, tutti enormemente diversi in stile e colore, diventarono presto grandi successi: «Calor de nido», «Los Kosakos de Kazán», «La mujer rusa», «Noche hermosa», «Ucraniano de mi amor», «Rusita, rúsa divina», «Somos dos barcas», «A París me voy» sono titoli ancora oggi molto popolari. Originale il taglio di alcune scene, come quella in cui si susseguono quasi senza soluzione di continuità la grande aria «Vivía sola con mi abuelita» di Katiuska, il suo duetto con Sergio «¡Ya anocheció!», il quintetto dove ognuno per conto proprio pensa di risolvere i suoi problemi «esta noche», l’invocazione alla notte di Katiuska interrotta dal minaccioso coro dei soldati e poi dall’intervento di Pedro con quella briosa «La mujer rusa», appunto, intonata su un pimpante ritmo di danza!

Coprodotto dai teatri di Bilbao, Oviedo e Valladolid, giunge ora sulla scena del Teatro de la Zarzuela di Madrid a 162 anni dalla sua apertura, questa felice edizione di Emilio Sagi. Ridotti i due atti a uno solo, sfrondata la vicenda ed eliminati alcuni personaggi, la sua lettura cinematografica offre una nuova dimensione a una vicenda che è sempre stata sviluppata secondo una visione popolare e folclorica. Qui si capisce subito che Katiuska è una principessa dall’abito che porta e non c’è quindi il disvelamento di identità su cui gioca la vicenda, qui molto semplificata, ma l’attento lavoro attoriale e alcune geniali trovate, come il ballo degli stivali rossi o il cabaret parigino, fanno di questa una delle migliori regie di Sagi.

La protagonista ha lo stile di una star del cinema degli anni ’30, abito scintillante di lamé e colli di volpe (i costumi sono di Pepa Ojanguren) in grande contrasto sia con i civili rastrellati sia con i contadini. Semplice ed efficace la scenografia di Daniel Bianco, direttore del Teatro de la Zarzuela: in basso le rovine dell’impero zarista, in alto la cornice dorata, simbolo del passato imperiale. Il tutto è inclinato di 15 gradi così che la struttura comunica una sensazione di instabilità e incertezza, come le vicende dei personaggi in balia della rivoluzione.

Un cast di lusso per un’operetta è quanto rende la produzione inusuale. Sotto la guida sapiente di Guillermo García Calvo, in scena si contendono l’entusiasmo del pubblico Ainhoa Arteta (Katiuska), Carlos Álvarez (Pedro Stakov) e Jorge de León (Sergio). A parte qualche eccesso vocale la Arteta delinea una misteriosa e sensibile principessa russa incognita anche a sé stessa; Álvarez non lesina sui mezzi vocali ma sempre con una certa eleganza, il tenore Jorge de León completa il terzetto con qualche vibrato di troppo nella parte che Alfredo Kraus incise su disco diretto dallo stesso Sorozábal. Al di fuori dei tre interpreti di fama internazionale non sfigurano i locali Milagros Martín (una spiritosa Olga), Emilio Sánchez (Boni) e Antonio Torres (Bruno).

La Dafne

Jakob Auer, Apollo und Daphne, avorio, 1690

Marco da Gagliano, La Dafne

★★★☆☆

Florence, Giardino di Boboli, 25 June 2018

 Qui la versione in italiano

Dafne returns to Florence four centuries later

Today’s operatic life is the uninterrupted continuation of a tradition that, even with countless changes, can be traced back to 1589, when a performance of sung and danced stage actions was set up for the wedding of the Grand Duke of Tuscany Ferdinando I de’ Medici with Cristina of Lorraine.

But almost ten years before a group of intellectuals – the Camerata de’ Bardi, which had taken it’s name from Giovanni Bardi’s mansion where they met to discuss music, literature, arts and science – formalized this musical form that originates from two elements: one is musical, the victory of monodic singing over polyphony, and the other is literary…

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Alì Baba e i quaranta ladroni

Luigi Cherubini, Alì Babà e i quaranta ladroni

  Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 1 September 2018

A not convincing late Cherubini at La Scala

The tenor is in love with the soprano, but the bass, the girl’s father, stands in their way. After countless vicissitudes (including kidnappings, sieges, thefts, concealment and ambushes) the two lovers finally fulfil their dream. Does this sound familiar?

This conventional model, on which many operas are based, is applied by the librettists Mélesville and Eugène Scribe, to the Persian tale Ali Baba and the Forty Thieves. Only a few elements of the original Arabian Nights plot are retained: the treasure cave and the magic phrase “Open Sesame!” to gain access to it…

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Il trovatore

Giuseppe Verdi, Le trouvère

★★★☆☆

Parma, Teatro Farnese, 29 September 2018

 Qui la versione in italiano

Robert Wilson’s lunar Trouvère

Parma’s Verdi Festival presents less frequented versions of the composer’s output. After opening with Macbeth in its 1847 original edition, it is now the turn of Le trouvère, the Parisian version of Il trovatore, adapted for Paris in 1857.

Obviously, Verdi had to add a ballet in Act 3 that was requested in the French capital, but Azucena’s role underwent some changes too, with 24 extra bars to her tale when she tries to raise the Count’s compassion. Act 4 was also modified: Leonora is deprived of her cabaletta, thus shifting the dramaturgical balance of the opera towards Azucena…

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Il trovatore

Giuseppe Verdi, Il trovatore

★★★☆☆

Turin, Teatro Regio, 10 October 2018

  Qui la versione in italiano

In Turin’s Trovatore, the women carry the day

Time was when it was the least performed work of Verdi’s popular trilogy. Now there is no theatre in Italy that does not put Il trovatore on stage and many opera seasons open with this title, as is the case of Turin’s Teatro Regio.

A rare work by Umberto Giordano, Siberia, was planned for the opening, but the replacement of the theatre manager and resulting resignation of musical director Gianandrea Noseda led to a revolution in the billboard that now displays an utterly autarchical choice: only works by Italian composers are present, only the most popular and in settings of guaranted tradition, like this 2005 production…

 

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Ariadne auf Naxos

Richard Strauss, Ariadne auf Naxos

★★★☆☆

Milan, Teatro alla Scala, 23 April 2019

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Ariadne in Milan, where the director cannot find the thread

Young director Frederic Wake-Walker made an excellent impression on his debut at Glyndebourne in 2014 with La finta giardiniera. The verdict was confirmed last year in its revival here at La Scala. In the Milanese theatre, however, he had previously aroused some dissent for his staging of Le nozze di Figaro in 2016. Now at the same venue, turning his back to Mozart with Strauss’ Ariadne auf Naxos, Wake-Walker has tried to confirm the first of these impressions, but sadly, the second one was confirmed instead…

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010_K65A1930 Pereira e Werba

Ariadne auf Naxos

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Richard Strauss, Ariadne auf Naxos

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 23 aprile 2019

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Nella Arianna a Milano il regista non trova il filo

Il giovane Frederic Wake-Walker aveva fatto un’ottima impressione al suo debutto a Glyndebourne nel 2014 con La finta giardiniera, impressione confermata l’anno scorso nella sua ripresa alla Scala. Nel teatro milanese però il regista londinese aveva suscitato più di una perplessità invece per il suo allestimento de Le nozze di Figaro nel 2016. Ora nello stesso teatro, abbandonato Mozart, con l‘Ariadne auf Naxos Wake-Walker si gioca la partita nel confermare l’una o l’altra impressione. Ahimè, diciamo subito che conferma la seconda.

L’opera di Strauss non è tra le più facili da mettere in scena, essendo per sua natura sperimentale e praticamente senza trama: nata nel 1912 dalle musiche di scena per Il borghese gentiluomo di Molière, Hofmannsthal e Strauss, librettista e compositore, vi mescolarono non solo prosa e musica, ma anche tragico e comico, con grande perplessità del pubblico. Quattro anni dopo la musica veniva riadattata per un atto unico (l’Arianna piantata in Nasso) preceduto da un prologo in cui la parte parlata era affidata al maggiordomo, qui non di monsieur Jourdan, ma di un ricco aristocratico viennese. Ancora una volta veniva utilizzato l’artificio dell’opera nell’opera, ossia la rappresentazione della preparazione di uno spettacolo in cui si sfidano logica e buon senso: non un intermezzo buffo tra gli atti di un’opera seria com’era consuetudine nel Settecento, ma un acrobatico tentavo di inserire l’opera buffa all’interno dell’opera seria.

Ciò detto, ci sono state recentemente delle produzioni di Ariadne auf Naxos magari discutibili, ma che hanno affrontato questa sfida intellettuale con intelligenza e hanno analizzato la profondità del messaggio – pensiamo a quelle di Claus Guth o di Katie Mitchell, ad esempio. Qui invece Wake-Walker si è accontentato di una banale parodia pop che svilisce il messaggio intellettualistico dell’opera. Assieme allo scenografo Jamie Vartan, il regista ha creato due scenari nettamente differenti per le due parti dell’opera. Nel prologo inserisce a forza Pagliacci in un ambiente da Cavaliere della rosa: roulotte e furgone del bibitaro sono parcheggiati in un grandioso salone rococò dove si muovono personaggi felliniani – il clown col naso rosso, il tenore centurione romano pronto per i selfie davanti al Colosseo, cappelli a cilindro scintillanti e paillettes sui gilet degli uomini. Per l’opera vera e propria siamo invece nella camera anecoica immersa in luce blu di uno studio di registrazione che isola ancor più il lamento dell’abbandonata Arianna. Anche qui i riferimenti pop non mancano: la prima donna sembra la Caballé, Zerbinetta da Liza Minnelli si è trasformata in Whitney Houston, le tre naiadi sono vocalist in lamé, Bacco il John Travolta de La febbre del sabato sera e le quattro maschere hanno smoking in tinte pastello. Sullo sfondo una scalinata bianca completa il look da varietà televisivo e su questa “stairway to heaven” si incammineranno Arianna e Bacco nel finale, mentre le lucine da discoteca anni ’80 ora sembrano le proiezioni luminose di un planetario.

Alla guida dell’orchestra del teatro (quasi ridotta a dimensioni cameristiche con 11 strumenti a fiato, poche percussioni, harmonium, celesta, glockenspiel, arpe e archi), Franz Welser-Möst è corretto ma di certo non trascinante, conservando comunque la trasparenza dell’orchestrazione. Data però la configurazione della scena, spesso l’orchestra copre la voce di alcuni cantanti.

Certo non la voce di Krassimira Stoyanova, prima donna e Arianna dalla vocalità sontuosissima. Peccato che le indicazioni registiche non riescano a far uscire il personaggio da un cliché convenzionale, con una gesticolazione manierata. Sabine Devieilhe ritorna a vestire i panni di Zerbinetta e conferma l’agile coloratura e la purezza di emissione di cui ha dato prova, ma anche una certa esilità della voce che la fa arrivare quasi stremata alla fine della sua pirotecnica performance. Più eroico che affascinante il Bacco di Michael König, e poco convincente il Compositore affidato alla voce di Daniela Sindram, talora coperta dagli strumenti. Markus Werba, Arlecchino nell’edizione 2006 in questo stesso teatro, qui è un efficace Maestro di Musica. Thomas Tatzl, Krešimir Špicer, Tobias Kehrer e Pavel Kolgatin sono le quattro maschere (rispettivamente Arlecchino, Scaramuccio, Truffaldino e Brighella), mentre Christina Gansch, Anna-Doris Capitelli e Regula Mühlemann sono l’affascinante corteggio di Arianna. L’attuale sovrintendente del teatro milanese Alexander Pereira ha interpretato il ruolo del Maggiordomo molte volte (tra cui a Zurigo, Londra, Dresda e Vienna) e l’ha fatto anche qui con il suo ironico accento viennese.

Caldi applausi per le due protagoniste femminili e sonori dissensi per il regista hanno concluso la serata. Era la sesta volta che Ariadne auf Naxos veniva data sul palcoscenico della Scala.

010_K65A1930 Pereira e Werba

La corte de Faraón

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Vicente Lleó, La corte de Faraón

«Ay, Ba… Ay, Ba… Ay, Babilonio que marea.
Ay, va… Ay, va… Ay, vámonos pronto a Judea»

Inizia come una parodia di Aida, continua come un pastiche biblico, prosegue come una rivista maliziosa. È La corte de Faraón, una delle cento zarzuelas di Vicente Lleó.

Compositore minore del genere, Vicente Lleó Balbastre è ora ricordato quasi solo per questa “opereta bíblica” in un atto e cinque quadri presentata al Teatro Eslava di Madrid il 21 gennaio 1910 con grande successo (700 rappresentazioni) su un libretto di Guillermo Perrín e Miguel de Palacios considerato talmente licenzioso che la rappresentazione pubblica fu bandita dal regime franchista fino al 1975. Su questa vicenda nel 1985 fu girato un film da José Luis García Sánchez con Ana Belén e Antonio Banderas.

Quadro 1. La grande piazza di Menfi in Egitto. Le celebrazioni sono in pieno svolgimento per il ritorno del generale Putifar, reduce dal suo trionfo in guerra. Lo stesso Faraone, in trono con la sua Regina e il suo coppiere, guida la folla con grida giubilanti. Il Sommo Sacerdote presenta Lota, una bella vergine di Tebe, che è stata scelta dalla Regina stessa per diventare la moglie del generale che «ritorna vincitor».  Putifar entra con una solenne fanfara, ma è evidentemente sconcertato dall’offerta di una sposa – al fatto non è estranea una certa invalidità personale che ha sofferto in seguito a una ferita che gli rende impossibile adempiere ai suoi doveri di marito avendolo una freccia colpito proprio lì… Tutti partono per celebrare il matrimonio all’interno del Tempio. Ismael, un mercante di schiavi, sta portando un giovane al mercato. Questi è José, un israelita venduto dai fratelli. I servi di Putifar Selhá e Setí hanno pietà del ragazzo e lo acquistano per farlo lavorare nelle cucine del loro padrone. Putifar e Lota riappaiono dopo la cerimonia. Putifar loda le virtù di sua moglie, ma la scena viene interrotta dai due servi che presentano il loro nuovo acquisto. Putifar è così impressionato dalle buone maniere e dall’apparenza di José che decide di tenere il ragazzo in veste di cameriere personale.
Quadro 2. La camera nuziale del palazzo di Putifar. Le celebrazioni rituali sono in corso, Raquel canta e un gruppo di schiavi danzano. José e Raquel presentano poi tre vedove di Tebe che danno consigli a Lota sui suoi doveri di moglie. José spoglia il suo padrone e si ritira con discrezione, lasciando soli gli sposi. Putifar, non potendo fare altro, sceglie di intrattenere la moglie con una lunga narrazione sulle sue prodezze militari. Prima che qualcosa di più personale possa accadere, una tromba annuncia il giorno e la chiamata alle armi per Putifar. Avvolgendosi l’armatura con sollievo, ordina a Lota di divertirsi in sua assenza conversando con il casto José. Lota sfrutta appieno il consiglio di Putifar. L’aveva visto nudo e ammirato il suo corpo. José respinge le attenzioni della donna come meglio può, spiegando che è più abituato a stare con le pecore che con le donne, ma alla fine la resistenza è inutile ed è costretto a fuggire lasciando il suo abito nelle mani di Lota. Lei grida e accusa José di aver tentato di violentarla.
Quadro 3. Il palazzo di Faraone. Il faraone è tra le braccia della moglie e dorme ubriaco. Viene intrattenuto da un languido coro di schiavi babilonesi e da un impertinente canto sulle tecniche d’amore delle babilonesi. Lota entra a chiedere giustizia con Selhá e Setí che trascinano José. La Regina ascolta la sua versione degli eventi, ma in qualche modo la dolce natura di José fa sì che Sua Maestà abbia una visione più mite della questione. Il faraone, disturbato nel suo sonno, non vuole avere nulla a che fare con l’affare e si allontana per continuare il suo sonnellino nei giardini sottostanti. La Regina si prende cura del caso e dopo aver inscenato una ricostruzione della presunta violazione decide di prendere José con sé. La moglie di Putifar non è molto contenta di questa decisone e ne deriva una discussione: José, conteso dalle due tigri, non ha modo di salvarsi se non gettandosi da una finestra.
Quadro 4. I giardini reali. José è atterrato sul faraone bruscamente risvegliato da uno strano sogno. Per salvarsi José si offre di interpretare il sogno per lui ed evoca una visione magica di tre belle spagnole che ballano il fandango, una danza del futuro. Incantato, il monarca mostra la sua gratitudine facendo di José il suo viceré e intendendo tenerlo sempre vicino. La stessa intenzione hanno le mogli trascurate.
Quadro 5. L’ingresso al Tempio di Apis. In una scena finale di grande brevità, ma considerevole sfarzo, il casto José si inginocchia davanti al Faraone ed è investito con tutta la dignità del Viceré, tra le grida giubilanti della folla che si prostra davanti alla statua del bue sacro le cui corna probabilmente adorneranno le teste del faraone e del generale Putifar.

Nella musica di Lleó non c’è solo la parodia dell’Aida di Verdi: Wagner, Saint Saëns e molti altri compositori seri e serissimi ne fanno le spese. La partitura è tanto maliziosa quanto lo sono i versi di Perrín e Palacios e si capisce come dopo la caduta del franchismo non ci sia teatro spagnolo che non abbia fatto a gara per produrre la propria versione con interpreti che sembrano usciti da una delle prime pellicole di Almodóvar.

L’ambientazione esotica che nell’operetta (vedi Il paese del sorriso di Lehár) o nella zarzuela del género grande (come la Katiuska di Lleó) suggerisce il tono drammatico o malinconico, qui nella revista è motivo invece di parodia e comicità. La corte de Faraón è considerata quindi una “zarzuela arrevistada” perché della rivista ha tutte le caratteristiche e come tale viene messa in scena nel 2004 a Guadalajara diretta da Tulio Gagliardo e con l’irriverente regia e le ironiche coreografie di Carlos Vilán. La registrazione video è disponibile in rete.

Into the Little Hill

George Benjamin, Into the Little Hill

Nel 2006 quando scrive la sua prima opera, George Benjamin era già un compositore affermato. L’allievo favorito di Olivier Messiaen, secondo le parole stesse del maestro francese, aveva avuto l’onore dell’esecuzione di Ringed by the Flat Horizon, un lavoro orchestrale del 1980, ai Proms quello stesso anno mentre era ancora studente al King’s College di Cambridge, facendo di lui il più giovane musicista mai eseguito alla mitica stagione concertistica londinese.

Agli studi di composizione si sono affiancati quelli di direzione orchestrale che sono sfociati nella concertazione del Pelléas et Mélisande alla Monnaie di Bruxelles nel 1999. Dopo aver vinto il premio Arnold Schönberg nel 2001 è diventato Chevalier dans l’ordre des Arts et Lettres, membro della Bayerische Akademie der Schönen Künste, Commander of the Order of the British Empire e dal 2017 si può fregiare del titolo di Sir. Enzo Restagno l’ha scelto come compositore ospite del Festival MiTo-Settembre Musica del 2013 nel centenario della nascita dell’altro caposaldo della musica inglese, Benjamin Britten.

Into the Little Hill, “lyric tale” su testo del commediografo Martin Crimp, ha visto il debutto al Festival d’Automne parigino nel 2006. Una variazione sulla fiaba del Pifferaio di Hamelin, qui arricchita del tema del sordido e amorale mondo della politica, con un suo elemento di visionarietà, visto quello che è poi accaduto negli anni seguenti con vari leader politici.

Pied Piper è il ministro di una piccola città «all’ombra di una piccola collina». Per essere rieletto promette di liberare il paese dai topi. Uno straniero senza volto si offre di farlo con la musica e in cambio di denaro. L’affare è fatto e i topi scompaiono, ma quando il ministro è rieletto non riconosce il contratto e lo straniero porta via tutti i bambini “into the little hill”.

Molte possono essere le interpretazioni del criptico testo di Crimp, non è chiaro infatti se per topi si intendono veri roditori o le vittime di un genocidio politico: a un certo momento la figlia del ministro dice che portano vestiti e hanno bambini.

La partitura di questa fiaba lirica è trasparente, luminosa e inquietante. Le dimensioni sono quelle di un’opera da camera, anche nella durata, quaranta minuti. Sono quindici gli strumenti (solo due in meno di The Rape of Lucretia di Britten) tra cui due viole, flauto basso, corni di bassetto, clarinetto basso, cimbalom e banjio. Le armonie non hanno la freddezza della musica seriale, ma piuttosto il colore fantastico della musica di Messiean.

Due sole le voci, un soprano e un contralto, due personaggi astratti, narratori che, in una spartana economia di mezzi e senza abito di scena si muovono intorno all’ensemble strumentale con cui condividono la narrazione assieme a pochi oggetti di scena. Il soprano ha una tessitura acutissima, il contralto è vocalmente più asciutto.

Il lavoro è stato inciso su CD con la direzione di Benjamin stesso, mentre in rete è disponibile una registrazione video di fortuna dell’esecuzione parigina del novembre 2006 con la direzione di Franck Ollu e le cantanti Anu Komsi e Hilary Summers per le quali Benjamin aveva scritto le parti.