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Luigi Cherubini, Alì Babà e i quaranta ladroni
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Milano, Teatro alla Scala, 1 settembre 2018
L’ultimo Cherubini non aveva convinto ai suoi tempi e non convince neanche oggi
Il tenore è innamorato del soprano, ma il basso, che è padre della bella, si oppone. Dopo innumerevoli peripezie – tra cui rapimenti, assedi, furti, nascondimenti, agguati – gli innamorati possono finalmente coronare il loro sogno d’amore. Originale, vero?
Questo modello convenzionale, su cui si basa la maggior parte delle opere liriche, viene applicato dai librettisti Mélesville (nom de plume del barone Anne-Honoré-Joseph Duveyrier) ed Eugène Scribe alla omonima fiaba persiana, erroneamente inserita nella raccolta de Le mille una notte, mantenendone solo alcuni elementi, quali la grotta del tesoro e la formula per accedervi, e inserendone invece tanti altri.
Alì Babà qui è un ricco negoziante, non il povero taglialegna del racconto originale, e la grotta non viene scoperta da lui, bensì dal giovane Nadir, amante di Delia e figlia di Alì Babà. Del tutto inventato è il personaggio di Aboul Hassan, il capo della dogana, cui il padre vorrebbe destinare la figlia per non correre il rischio che il doganiere scopra i quaranta sacchi di caffè illegalmente acquisiti, mentre il capo dei briganti qui ha un nome, Ours-Kan, e un ruolo determinante nella vicenda dei due giovani. I librettisti introducono cinicamente il tema del contrabbando di caffè – nel racconto si tratta di giare d’olio – in un numero di sacchi che coincide con il numero dei briganti, e sottolineano il tema dell’ingordigia del padre per l’oro, che a un certo punto preferisce infatti morire piuttosto che cedere il suo tesoro. Altrettanto crudele è il finale: nella fiaba una schiava versava olio bollente nelle giare in cui sono nascosti i briganti, qui i sacchi di caffè che li celano vengono dati alle fiamme.
Prologo. Il giovane Nadir ama ricambiato Delia, figlia del ricco mercante Alì Babà, ma questi ha negato il suo consenso alle nozze perché vuole che Delia sposi Aboul-Hassan, il potente capo della dogana. Al ritorno da un lungo viaggio, in un paesaggio selvaggio nei dintorni di Esfahan, Nadir riflette così sulla sua condizione di povertà e di tristezza; soltanto diventando ricco potrebbe sperare di sposare l’amata. A un tratto scopre il nascondiglio della banda di Ours-Kan: una grotta che si apre e si richiude alla formula magica «Apriti Sesamo!”». Se possedesse tutti i tesori riposti nella grotta, Nadir potrebbe senz’altro aspirare alla mano di Delia: per questo egli, una volta che Ours-Kan e la sua banda se ne sono andati, sa’vvicina alla grotta e pronuncia a sua volta la formula magica per entrarvi.
Atto primo. Nella casa di Alì Babà a Esfahan fervono i preparativi delle nozze tra Delia e Aboul-Hassan. Mentre Alì Babà è compiaciuto del matrimonio imminente, la ragazza pensa al suo innamorato lontano. Si presenta quindi, del tutto inatteso, uno straniero; le note di un flauto proveniente dalla strada ne rivelano a Delia l’identità. Si tratta di Nadir: questi offre per la mano di Delia una quantità d’oro dieci volte superiore a quella già concordata tra Alì Babà e Aboul-Hassan e afferma inoltre di possedere infinite altre ricchezze. La schiava Morgiane, confidente di Delia, è incantata alla vista del tesoro di Nadir e a questo punto lo stesso Alì Babà, sebbene tema l’ira di Aboul-Hassan anche per la natura non sempre irreprensibile dei propri affari, avendo egli nascosto quaranta sacchi di caffè non sdoganati, concede il suo assenso alle nozze della figlia con Nadir. Sopraggiunge però Aboul-Hassan a reclamare la sposa e ricatta Alì Babà per i quaranta sacchi di caffè che il mercante tiene nascosti e dei quali egli è a conoscenza. Sentendosi minacciato, Alì Babà ritira il consenso alle nozze tra Delia e Nadir.
Atto secondo. Aiutato dal suo servitore Phaor, Alì Babà trasferisce i sacchi di caffè non sdoganati in un luogo sicuro per sottrarsi all’ira di Aboul-Hassan. La precauzione, tuttavia, si rivela inutile perché nel frattempo Nadir ha convinto il capo della dogana a rinunciare alla mano di Delia offrendogli un’ingente somma di danaro. Siccome il giovane afferma di essere pur sempre ricchissimo, Alì Babà inizia a insospettirsi sull’origine di tanto patrimonio e gliene chiede conto. Nadir non vorrebbe rivelare il suo segreto ma alla fine è costretto a cedere al ricatto del mercante, che minaccia di rifiutare il suo consenso alle nozze con Delia nel caso il giovane non gli riveli l’origine di tante ricchezze. Nadir racconta così ad Alì Babà della scoperta della caverna che custodisce i bottini di Ours-Kan e della formula magica che ne dischiude l’accesso. Frattanto sopraggiunge Phaor, recando la notizia che Delia è stata rapita da una banda di ladroni; Nadir, certo che sia stato Aboul-Hassan a organizzare il rapimento, organizza una spedizione per liberarla.
Atto terzo. All’interno della caverna Ours-Kan e i suoi luogotenenti, Calaf e Thamar, parlano della loro ultima impresa e della cattura di Delia, ora contesa dai tre uomini. Non appena i ladroni si sono allontanati nella caverna arriva Alì Babà, venuto a verificare la veridicità della formula magica e della consistenza del tesoro. Al ritorno dei tre ladroni il mercante, che si è nel frattempo dimenticato la formula magica, viene catturato. Inizialmente Ours-Kan, Calaf e Thamar vorrebbero ucciderlo ma poi, appreso che AR Babà è un ricco mercante, decidono di chiedere un enorme riscatto per la sua liberazione. Alì Babà è così avaro che preferirebbe morire piuttosto che accettare di pagare il riscatto, ma Delia lo persuade infine ad accettare: la somma sarà consegnata a Ours-Kan nel castello di proprietà del mercante a Erzerum.
Atto quarto. Al castello di Erzerum arrivano Ali Babà e Delia, accompagnati da Ours-Kan e Calaf travestiti da mercanti che vogliono riscuotere il riscatto. Delia riesce tuttavia a rivelare a Nadir la vera identità dei due falsi mercanti e le loro reali intenzioni. La minaccia è tanto più grave poiché Morgiane s’è accorta che i ladroni hanno finto di trasportare al castello i quaranta sacchi di caffè, mentre in realtà in ogni sacco si nasconde uno di loro, pronto a balzar fuori al segnale convenuto. Insieme con Nadir e Delia, Morgiane pensa a un piano per reagire alla minaccia ma durante il banchetto irrompono Aboul-Hassan e i suoi uomini, che appiccano il fuoco ai quaranta sacchi di caffè bruciando così i ladroni che vi si sono nascosti dentro. Venuto per punire la frode di AR Babà, il capo della dogana diviene cosi involontariamente il salvatore del ricco mercante.
Presentata a Parigi nel 1833, Ali Baba ou Les quarante voleurs è l’ultima opera per il teatro scritta da Luigi Cherubini, compositore italiano che aveva scelto la capitale francese fin da giovane. Qui aveva avuto i suoi successi, Lodoïska e soprattutto Médée, dopo la quale però i suoi apporti al teatro furono estremamente saltuari e con poco successo. Per l’Ali Baba Cherubini aveva recuperato quattro numeri appartenuti a una partitura scritta nel 1793, ma è nell’insieme che l’opera denuncia una inattualità per la sua epoca che la condannò all’insuccesso: Berlioz e Mendelssohn la criticarono aspramente e solo in Germania il lavoro ebbe un certo seguito, anche se limitato. Lì infatti veniva apprezzata l’indubbia abilità contrappuntistica del maestro italiano, evidente nei concertati che concludono i quattro atti in cui è distribuita l’opera dopo un prologo.
La proposta del Teatro alla Scala avviene a 55 anni dalla ripresa moderna nello stesso teatro e l’occasione è l’opportunità di far esibire l’orchestra, il coro e i solisti dell’Accademia del teatro assieme agli allievi della scuola di ballo. Un progetto che per il terzo anno affida dei giovani nelle mani di un regista e di un direttore rinomati per un lasso di tempo che è del tutto impensabile ottenere con interpreti affermati, per i quali le prove sono necessariamente limitate nel tempo. E questa lunga preparazione è evidente nella spigliatezza con i cui i giovani interpreti calcano la scena del prestigioso teatro milanese, ben 15 solisti di canto. Nominare quelli che hanno partecipato all’esecuzione del 1 settembre farebbe un torto a quelli che si alternano nelle altre recite, visto che tutti quanti in egual misura si sono fortemente impegnati e tutti esibiscono doti canore che verranno sicuramente apprezzate nel prossimo futuro in altri allestimenti. La scelta di un’opera quasi sconosciuta ha permesso loro di evitare raffronti con parti o interpreti conosciuti, anche se la recita del 1963 è stata oggetto di una registrazione su disco – e i cantanti allora furono quanto di meglio si potesse avere, Teresa Stich-Randall e Alfredo Kraus per citarne due – per non parlare degli interpreti del 1833 tra cui il mitico Adolphe Nourrit. Proprio per la presenza di giovani alla loro prima grande esperienza, si è optato per la versione in italiano, già utilizzata allora, piuttosto scadente però, che rende prosaico l’arguto testo dei due librettisti francesi. Sembra che sia stata la regista a imporre l’utilizzo della brutta versione di Vito Frazzi.
Alla testa degli strumentisti e del coro dell’Accademia Paolo Carignani è riuscito nell’impresa di ottenere i suoni e i tempi giusti di un’orchestrazione che dopo la brillante ouverture molto spesso si limita ad accompagnare i cantanti nel loro declamato melodico che non sfocia mai in un tema che entri nella memoria – e nel cuore. Si ammira sì la sapienza della scrittura, ma si rimane indifferenti alle vicende e ai personaggi senza spessore che si agitano in scena. Ali Baba non è un grand-opéra, ma ha i suoi balletti, qui argutamente risolti dalla coreografa Emanuela Tagliavia con i giovani, alcuni giovanissimi, allievi.
Liliana Cavani, che si è occupata della messa in scena, ha manifestao il suo intento di descrivere molto linearmente la vicenda senza optare né per il tono umoristico né pr quello fiabesco. Ne è venuta fuori una lettura senza nerbo che anche se strizza l’occhio alla modernità – la biblioteca in cui i quattro personaggi principali, studenti, leggono la fiaba e hanno le prime schermaglie amorose, la fuga in motoretta del finale – ripiega su una tradizione ampiamente superata e per di più non coglie gli spunti spettacolari della vicenda, come ad esempio il corteo di schiavi con i tesori trafugati da Nadir – che poteva dare un tocco più teatrale alla rappresentazione, mentre ne banalizza altri. Che necessità c’era di far fare il pediluvio a Delia durante la sua unica vera grande aria? E anche della vista dei cadaveri bruciacchiati dei briganti si poteva fare volentieri a meno durante il festoso quanto fulmineo finale.
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