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Giovanni Paisiello, Zenobia in Palmira
★★☆☆☆
Napoli, Teatrino di Corte di Palazzo Reale, 21 maggio 2016
Per fortuna c’era la mostra
«Zenobia, reina de’ Palmireni, per testimonianza degli antichi scrittori fu di sì eccellente virtù, che per nominanza ella dee essere preposta innanzi alle altre genti» si premura di dirci il Boccaccio nel De claris mulieribus. Ma anche al di fuori d’Italia le sue virtù erano riconosciute, come dimostra Chaucer nel suo Monk’s Tale: «Zenobia, regina di Palmira, declamata tanto dai Persiani per la sua nobiltà, era così prode e valorosa nelle armi, che nessuno la sorpassava sia per coraggio che per stirpe o per altra distinzione». Ancora nel XVIII secolo Caterina la Grande fu soprannominata Zenobia per attitudini di cavallerizza e condottiera e per caratura intellettuale, e la sua capitale San Pietroburgo Palmira Borealis, la Palmira del Nord.
La sua figura (da non confondere con la prima Zenobia, moglie del crudele Radamisto re d’Armenia nel 51 a.C.) ha interessato più volte il mondo dell’opera: dal libretto di Antonio Marchi per Tommaso Albinoni (Zenobia regina de’ Palmireni, 1694) a quello di Apostolo Zeno per Leonardo Leo (Zenobia in Palmira, 1722) a quello di Gaetano Sertor messo in musica da Anfossi (in tre atti) e da Paisiello (in due atti), fino all’Aureliano in Palmira di Felice Romani per Rossini (1813).
Con dovizia di virgole e maiuscole il librettista stesso ci racconta l’“argomento”: «Innalzato al trono de’ Cesari, Aureliano non si credè sicuro dell’Impero prima di aver soggiogata Zenobia Regina de’ Palmireni, Vedova di Odenato, tanto allora potente per le sue conquiste, e temuta pel suo valore. Si mosse egli a tale effetto con poderoso Esercito da Roma, e passato nell’Asia prese Antiochia, donde liberò Publia figlia dell’Imperatore Gallieno, la quale era stata fatta prigioniera insieme col Padre da Sapore Re di Persia, ed a questo da Odenato ritolta. Malgrado il valore degl’Inimici, fecero le armi Cesaree vantaggiosi progressi in questa guerra, giungendo perfino ad assediare la Città di Palmira, dove erasi ritirata Zenobia, la quale in poco tempo fu costretta a rendersi, e fatta prigioniera fu condotta a Roma». La 73esima opera di Paisiello veniva sulla scia del travolgente successo veneziano della Zenobia dell’Anfossi di pochi mesi prima.
A duecento anni dalla morte di Giovanni Paisiello a Napoli viene presentato per la prima volta in tempi moderni questo «dramma per musica in due atti da rappresentarsi nel real Teatro di S. Carlo nel dì 30 maggio 1790 festeggiandosi il glorioso nome di Ferdinando IV nostro amabilissimo sovrano ed alla maestà sua dedicato».
Titolo di drammatica attualità nella quotidiana cronaca delle devastazioni in Medio Oriente e allestito nel teatrino di corte della reggia napoletana, lo spettacolo viene dedicato alla figura dell’archeologo siriano Khaled al-Asaad, direttore per più di quaranta anni del sito archeologico di Palmira e morto nel 2015 nella sua difesa.
Nessun pericolo di attualizzazione nella messa in scena: nelle sue note di regia Riccardo Canessa ci riferisce che il libretto «contiene sorprendentemente indicazioni sceniche precise e accurate, anche con dovizia di particolari molto interessanti, che ho cercato di seguire alla lettera. […] In un periodo di letture registiche da “bollino rosso”, spero di aver fatto la scelta giusta». Con tale premessa eravamo curiosi di vedere la sua realizzazione della scena VI del primo atto che prevede quanto segue: «Compariscono sull’Eufrate diverse barche pomposamente adorne, dalla più ricca delle quali, preceduta dagli Arcieri persiani, ed accompagnata da Oraspe, e da altri grandi Palmireni, scende Zenobia al suono di militari strumenti. La segue un’ordinata schiera de’ suoi soldati, che portano vasi d’oro, ed altri preziosi doni da presentarsi ad Aureliano». O ancora la scena dodicesima del secondo atto in cui «al suono di militari strumenti viene Aureliano sopra magnifico carro trionfale preceduto da’ soldati Romani». Eccetera.
Ma in scena non c’è nulla che lontanamente ricordi quanto sarebbe prescritto: due pietre finte a sinistra e un trono ligneo a destra sono gli unici elementi scenici presenti per tutta la rappresentazione mentre sul fondo vengono proiettati in video-grafica particolari architettonici visti dal basso che poco hanno a che vedere con la vicenda e le luci quasi fisse non cercano di suggerire cambiamenti atmosferici o temporali. Manca anche la minima idea registica e Canessa si limita a far entrare e uscire i personaggi quando devono cantare la loro aria. Non è certo una regia da “bollino rosso” la sua, ma rosso-giallo-verde. Una regia semaforica. «L’uso rigoroso di costumi d’epoca» (quale epoca? Il III secolo d.C. della vicenda o il Settecento della composizione? Non si capisce) si affianca a una gesticolazione altrettanto d’epoca, mai minimamente sfiorata da un tentativo di regia attoriale.
A capo della smilza orchestra del teatro napoletano il giovane Francesco Ommassini dipana con diligenza i numeri musicali tutti monotonamente simili di quest’opera: musica buona, certo, ma manca un ritmo narrativo e drammaturgico che stimoli l’interesse dello spettatore, che non è neppure sollecitato o stupito da fuochi d’artificio vocali. In scena altrettanto giovani sono i cantanti impegnati nei sei ruoli previsti. Di buona presenza e vocalità il vigoroso Aureliano di Leonardo Cortellazzi cui Paisiello dedica tre arie. Altrettante ne ha Arsace, in origine soprano castrato, qui l’inesperta Tonia Langella. Più sicura la prestazione della Zenobia di Rosanna Savoia che nelle sue arie e cavatine riesce a delineare una certa regalità del personaggio. Un altro ruolo di castrato è quello di Oraspe, generale de’ Palmireni, qui un altro soprano in difficoltà nelle agilità. Anche Pubblia e Licinio sono al limite delle loro possibilità vocali.
Lo stesso giorno è stato inaugurata nelle sale al pianterreno di Palazzo Reale una mostra su Paisiello, piacevole e ricca. Quella sì che valeva il viaggio.
⸪