
photo © Mirella Verile
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Giuseppe Verdi, Il corsaro
★★★☆☆
Piacenza, Teatro Municipale, 6 maggio 2018
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Verdi si rivolge a Byron per la sua opera romantica
Chi è stanco di rivisitazioni e attualizzazioni può trovare nei teatri di provincia italiani confortanti allestimenti di tradizione, come questo de Il corsaro, l’opera di Verdi che neanche due mesi fa a Valencia era stata ambientata dalla regista Nicola Raab con Lord Byron in scena e la vicenda partorita dalla sua mente febbrile stimolata da alcol e droghe.
Più lineare la produzione del 2004 del regista Lamberto Puggelli, scomparso meno di cinque anni fa, che Grazia Pulvirenti Puggelli ha riproposto nel bel Teatro dell’Opera di Piacenza come omaggio alla memoria del marito. L’allestimento è stato proposto più volte nel corso degli anni ed è anche stato oggetto di una registrazione su disco.
Nelle intenzioni del regista è il mare evocato dal libretto a determinare la tensione drammatica di quest’opera romantica: «è un’opera che sa di mare, dove si sente il mare, come il Simon Boccanegra» ha lasciato scritto nei suoi appunti il regista e in scena c’è infatti la tolda di una nave. Le scenografie di Marco Capuana lasciano molto spazio al vuoto e alle luci di Andrea Borelli che assieme ai costumi di Vera Marzot puntano al nero (come le vele dei pirati) e al rosso (il cielo al tramonto, i bagliori dell’incendio, le vele degli ottomani). Qui le vele coincidono col sipario e i cordami con i tiranti del palcoscenico, quasi una metafora del teatro della vita del poeta/Corrado, eroe smanioso e insofferente della calma domestica che lascia la moglie per lottare contro la dominazione ottomana, salva dall’incendio dell’harem le donne, viene fatto prigioniero, fugge e ritorna, troppo tardi, alla fedele Medora dopo aver respinto l’offerta d’amore della bella Gulnara, la prediletta del pascià che lei ha ucciso nel terzo atto.
La tolda della nave fa da risonanza agli «animi illimitati» dei personaggi di Byron che vengono dipinti da una musica ora appassionata ora lirica nei tre atti in cui si sviluppa la vicenda mirabilmente condensata da Verdi in poco più che un’ora e mezza. I quattro personaggi non saranno psicologicamente molto definiti, ma risultano teatralmente efficaci.
Il primo che vediamo in questo allestimento è quello della sfortunata Medora che durante il breve preludio attraversa la scena con una lampada in mano quasi come un fantasma. La ritroveremo poco dopo nella stupefacente aria «Non so le tetre immagini», accompagnata dall’arpa che esalta il carattere inquieto di un canto che sa di rassegnazione, quasi presago del tragico finale in cui la donna, credendo Corrado morto, assume del veleno poco prima che il marito ricompaia così da morire fra le sue braccia. Serena Gamberoni, pur con un eccesso di vibrato, delinea con sensibile partecipazione il personaggio. La linea di canto è fluida nei passaggi di agilità, il fraseggio delicato e musicale, i colori della voce dipingono una malinconia quasi astratta, la presenza scenica è convincente.
In Corrado abbiamo il giovane Iván Ayón Rivas, pupillo di Juan Diego Flórez di cui condivide la nazionalità peruviana. Il carattere da eroe perduto e maledetto sommariamente definito dal librettista Francesco Maria Piave viene reso dal tenore con slancio e generosità di mezzi vocali con acuti spinti al massimo e con un canto molto aperto che trascura talora i momenti di più delicata musicalità della parte. Il sincero entusiasmo e la potenza sonora con cui ha eseguito la sua performance hanno compensato la mancanza di particolari sottigliezze interpretative e una presenza scenica ben lontana dalla figura di eroe romantico o di aitante pirata che ci si potrebbe immaginare, ma hanno soggiogato il pubblico che ha risposto con entusiasmo alla sua prova.
La sensuale Gulnara è resa con temperamento da Roberta Mantegna il cui timbro di voce un po’ metallico all’inizio rende il personaggio esoticamente seducente, ma dopo un po’ stanca e si preferirebbe un’emissione più dolce. Tecnicamente comunque il giovane soprano tiene testa alle complessità della parte dalla scena dell’harem in cui fa conoscere il suo indomito carattere («o vile musulman, tu non conosci […] qual alma io chiuda in petto!»), al risveglio dell’amore per il suo salvatore, al momento in cui lusinga Seid per salvare l’amato mentre negli “a parte” medita vendetta, all’infuocato duetto con Corrado prima di uccidere il pascià, al lancinante terzetto finale cui si unisce Medora morente.
Senza particolari profondità psicologiche è anche il personaggio di Seid, ma Simone Piazzola riesce a dare una certa dignità anche a questo “cattivo” con un canto che ha una sua eleganza e con una bella presenza scenica, anche se la voce non ha una particolare sonorità e la dizione è un po’ impastata.
Ritroviamo il parossismo degli affetti di questo lavoro popolare di Verdi nella direzione energica di Matteo Beltrami. La concertazione del direttore genovese è convincente per la scelta dei tempi, un po’ meno per quella dei volumi di suono: nella riccamente decorata sala ottocentesca del Municipale, tra orchestra, coro e solisti si ingaggia talora una gara di decibel che porta il livello sonoro a limiti quasi insopportabili dalla mia poltrona in terza fila. A parte questo, è comunque evidente l’intesa con i cantanti. La concertazione delle voci è sempre accurata, la resa orchestrale soddisfacente e ottima la performance del coro del teatro con attacchi precisi e buona intonazione.


⸪