
∙
Giuseppe Verdi, Il corsaro
★★★☆☆
Valencia, Palau de les Arts Reina Sofía, 29 marzo 2018
(live streaming)
Back to Byron
È frutto della programmazione del dimissionario Davide Livermore da Les Arts di Valencia questo titolo poco frequentato. In terra di Spagna poi ancora meno conosciuto.
Due i punti di interesse sulla carta: la concertazione di Fabio Biondi, che lascia per una volta il suo amato repertorio barocco per affrontare un Verdi che sta raggiungendo la piena maturità artistica, e la regia della bavarese Nicola Raab, che qui al Palau aveva già allestito nel 2012 una Thaïs. Ma è proprio l’aspetto visivo quello meno convincente di questa operazione che coinvolge anche l’Opera di Montecarlo. Nella lettura della regista il protagonista Corrado viene identificato tout court con Lord Byron, l’autore del racconto in versi da cui il Piave aveva tratto il libretto.
La Raab ambienta la vicenda «nella mente del poeta», tutto è quindi frutto del suo mondo interiore: il protagonista è in lotta con l’umanità per liberarne gli oppressi, ma soprattutto con sé medesimo. Come nel Turco in Italia il poeta è onnipresente in scena per creare i suoi personaggi, ma il problema è che crea anche sé stesso e la sua interazione con gli altri personaggi porta a situazioni teatralmente ambigue o inefficaci, come quando essi cercano di interagire con lui, ma Corrado/Byron si rifugia sempre al tavolino, alla bottiglia, alle fumate d’oppio, alle sue carte. Anche se più che scrivere si arrovella in astratti furori, si torce le mani, lancia sguardi disperati, strappa fogli, si macchia il viso e le braccia di inchiostro nero, si getta per terra, brandisce spade, ma senza costrutto.
Il gioco intellettualistico della regista cozza con la drammaturgia semplice e ben definita di questo Verdi ancora immerso negli “anni di galera”. Se poi l’interprete protagonista non ha doti sceniche particolarmente spiccate si arriva a sfiorare il ridicolo. Né aiutano molto le scenografie minimaliste – ma con le odalische di Ingres e altri quadri di orientalisti a dare il colore esotico – di Georges Souglides che disegna anche i ridondanti costumi. Le proiezioni su teli traslucidi che dovrebbero delimitare la realtà del poeta dai prodotti della sua fantasia non aggiungono molto. Un esempio per tutti: la magnifica aria «Non so le tetre immagini» accompagnata dall’arpa è infastidita dai rumori che fa Corrado/Byron al suo tavolino mentre la povera Medora canta seminascosta dietro i suddetti teli semitrasparenti.
Buona invece la resa musicale di Fabio Biondi che imprime alla condensata vicenda un ritmo efficace dopo aver sollevato la buca orchestrale quasi al livello della platea per far risaltare maggiormente gli strumenti.
Cinque soli sono i personaggi dell’opera, uno per ciascuno dei ruoli vocali: soprano lirico (Medora), soprano drammatico (Gulnara), tenore (Corrado), baritono (Seid) e basso (Giovanni). La migliore interprete della serata è Kristina Mkhitarayan, una Medora di grande avvenenza, dalla linea vocale ineccepibile, il timbro di velluto e tecnicamente perfetta. Acida, tutta risolta in un volume sonore eccessivo, a tratti sguaiata è la Gulnara di Oksana Dyka che affronta le agilità del ruolo con una veemenza fuori luogo. Michael Fabiano è un Corrado lirico ma un po’ monocorde. La dizione è accettabile a parte qualche scivolata (rendete/redente), ma la presenza scenica è quasi risibile. Anche il Seid di Vito Priante latita in forza drammatica dimostrando poco carattere. Giusto invece il Giovanni di Evgenij Stavinskij.
⸪