Mese: novembre 2020

Akhnaten

Philip Glass, Akhnaten

★★★★☆

Nizza, Opéra, 1 novembre 2020

(live streaming)

Il Sole di Akhnaten splende sulla Costa Azzurra

Non siamo al Metropolitan e soprattutto siamo in tempo di Covid-19, ma l’Opera di Nizza riesce lo stesso a mettere in scena una produzione impegnativa come quella di Akhnaten di Glass sfruttando i mezzi a disposizione, che non sono quelli del teatro newyorchese. Lo spettacolo che risulta è comunque convincente e a suo modo grandioso pur con un impianto semplice ma efficace.

Lucinda Childs, che aveva partecipato alla realizzazione di Einstein on the Beach, la prima della trilogia delle opere “politiche” del compositore americano di cui Akhnaten è la terza, riesce a montare a distanza una messa in scena coinvolgente e vi assume la parte recitante. Le coreografie sono estremamente semplificate e coristi e interpreti solisti si muovono e assumono posizioni da bassorilievo egizio, spesso di profilo. Gli eleganti costumi sono di Bruno de Lavenère che firma anche l’essenziale scenografia costituita da una piattaforma rotante e basculante che richiama il disco del Sole, la deità della religione di Akhnaten. Su un sipario trasparente vengono proiettate le figure dei corpi dei ballerini o altre immagini evocative. E i primi piani di Lucinda Childs che recita i testi in inglese. Già, altrimenti l’opera è cantata in egiziano antico ed è uno degli elementi particolari di questo lavoro di Glass: «è una delle magie dell’opera lirica poter usare lingue morte e portarle in vita nella nostra immaginazione in modo sensibile. Il compositore evoca abilmente l’idea delle lacune testuali con la sillaba “ha” che serve tanto come evocazione dell’emozione, quanto come efficace supporto alla realizzazione della grande battaglia teologica tra le rappresentazioni zoomorfe di Amon e la difesa del monoteismo di Aten, che deve essere rappresentata teatralmente ma di cui non ci resta alcuna traccia testuale. Allora cosa c’è di meglio che ripetere questa sillaba su ritmi incessanti? Il suono “ha”, che evoca il respiro della vita secondo gli egizi, ritorna nella sua forma emozionale nel duetto tra Akhnaten e Nefertiti. E man mano che prende sempre più spazio, a partire dall’evocazione delle sei figlie, diventa di nuovo il discorso che colma le lacune dei testi e finisce per evocare le rovine della città e la sepoltura nella sabbia dell’opera di Akhnaten». (Premiereloge-opera)

Altro che noia: la musica di Glass ha una tensione che è tutta giocata sull’attesa e la previsione delle minime variazioni che verranno e qui è realizzata dall’orchestra del teatro sotto la direzione attenta di Léo Warynski che dipana con convinzione le complesse polifonie e le sempre cangianti dinamiche, tutt’altro che minimaliste. All’orchestra e al coro è richiesto un non facile compito, ma la concentrazione ha garantito un risultato di grande precisione.

Quando si parla di controtenori si pensa a dei cantanti di non grande volume sonoro, ma qui Fabrice di Falco dimostra una grande proiezione della voce. La sua ieratica presenza scenica incarna il faraone ribelle e sfortunato con solenne serenità. Al suo fianco ha due eccellenti comprimarie: un soprano abituato a un repertorio belcantistico ben diverso quale Patrizia Ciofi, qui la madre Tye, e una cantante dal timbro più caldo e profondo, Julie Robard-Gendre, adatto a rappresentare la sensualità della moglie Nefertiti. Vincent Le Texier (Aye), Joan Martín-Royo (Horemhab) e Frédéric Diquero (Amon) completano il cast.

La recita del 1 novembre, l’unica sopravvissuta, è a porte chiuse e trasmessa in video con una ripresa televisiva che indugia molto sugli strumentisti dell’orchestra. Il pubblico che non ha potuto partecipare di persona ha motivo di consolazione nel fatto che Akhnaten sarà lo spettacolo inaugurale della stagione 2021-22 dell’Opéra Nice Côte d’Azur. Magari allora sarà ripristinato l’Epilogo che qui è stato tagliato.

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Le nozze in villa

Gaetano Donizetti, Le nozze in villa

★★★★☆

Bergame, Teatro Donizetti, 22 novembre 2020

(live streaming)

 Qui la versione italiana

Mariage sur gazon à Bergame

Après les deux opéras de la maturité qui encadrent Lucia di Lammermoor (Marino Faliero qui la précède et Belisario qui la suit), le Festival Donizetti présente le « drama  buffo » en deux actes Le nozze in villa, troisième titre du copieux catalogue du compositeur, deux cents ans après sa première lors du premier carnaval de Mantoue en 1819.

Nous ne savons rien de plus sur cet ouvrage : il n’existe pas de partition autographe, le livret de la première a disparu, les journaux de l’époque n’en rendent pas compte et il n’en est fait mention dans aucune lettre. L’œuvre ne semble pas avoir rencontré le succès, bien qu’elle ait été reprise à Trévise et à Gênes avant de disparaître de l’affiche…

la suite sur premiereloge-opera.com

Hamlet

 

Ambroise Thomas, Hamlet

★★★★★

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 17 dicembre 2013

(video streaming)

Amleto ritorna a Shakespeare

Una volta assodato che l’Hamlet di Thomas ha poco a che vedere con quello di Shakespeare, nessuno vieta di leggere il grand opéra del compositore francese come se fosse la tragedia del Bardo ripristinando il finale con la morte del protagonista (versione londinese del 1869) e rimuovendo i ballabili. Ed è quello che fanno Marc Minkowski e Olivier Py in questo intrigante spettacolo nato al Theater an der Wien e ora alla Monnaie.

«Il risvolto noir che Thomas riesce a dare al testo shakespeariano viene percepito splendidamente dal regista Olivier Py che avvolge il dramma di nero. Nere sono le magnifiche scene di Pierre-André Weitz che riproducono questo ambiente claustrofobico di una cripta, ma che potrebbe essere anche un castello o un manicomio, con enormi scalinate e volte che si muovono, dando una continua idea di movimento e di scorrere inesorabile del tempo e di labirinti in cui la psiche di Amleto è immersa, oppure una tomba in cui i protagonisti sono sepolti nel loro inesorabile destino. Neri sono i costumi e in questo non colore solo una bandiera rossa portata da Laerte, simbolo di una libertà oppressa, comparirà in scena a rompere il nero dell’oppressore. Py non nasconde la sua intenzione di voler aderire più al dramma di Shakespeare che non all’idea di Thomas e la follia del protagonista viene messa in luce in modo chiaro ed evidente, come l’ossessione per il padre morto, racchiuso in un’urna cineraria che diventa quasi un feticcio per Amleto, oppure nello Spettro onnipresente e che sembra voler guidare e muovere le azioni del figlio succube di una pazzia che pare voluta». (Francesco Rapaccioni)

«Uno spettacolo duro, che non ha più nulla di romanticamente attraente, dove i dubbi e i tormenti interiori dei protagonisti sono portati alle estreme violente conseguenze, con Hamlet che si presenta in scena all’apertura del primo atto come un autolesionista che si sta sfregiando il petto e le braccia con un coltello. […] Hamlet canta nudo nel drammatico confronto con la stessa Gertrude, il momento di verità tra madre e figlio, perché non a caso si dice che la verità è nuda, e il principe di Danimarca nella trasposizione del regista francese sta facendo un bagno in una bella vasca con i piedini, con la regina che lo aiuta a lavarsi, quando la verità tra i due viene a galla». (GB Opera)

Nella parte del titolo il baritono Stéphane Degout esibisce una performance da attore come raramente vediamo sui palcoscenici dell’opera, con un timbro glorioso su tutta la gamma e una dizione superba. Lo stesso si può dire per Sylvie Brunet-Grupposo: una regale Gertrude, con la declamazione di una grande vestale e una voce torrenziale. Vincent Le Texier è un Claudio di gelida autorità. Lenneke Ruiten non può eclissare il ricordo lasciato dalla Ophélie di Natalie Dessay, ma la sua performance è eccezionale, costellata com’è di acuti stratosferici, un fraseggio elegante e sensibile, intenzioni piene di sfumature. Il Laërte di Rémy Mathieu è giovane fresco pur con alcuni limiti nei momenti più drammatici, efficace il Polonius di Till Fechner e con i giusti accenti dall’oltretomba lo Spettro di Jérôme Varnier.

«Marc Minkowski eleva fin dalle prime battute a un livello fenomenale di coesione l’orchestra del teatro, passando dal dramma alla gioia con sempre la stessa energia disinibita, imponendo tensioni che nemmeno per un momento si allenteranno. Come in scena, un vento di follia passa sulla fossa, ma questa follia ha un nome: grande arte». (Emmanuel Dupuy)

Ariadne auf Naxos

Richard Strauss, Ariadne auf Naxos

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 13 settembre 2018

(live streaming)

Primadonna e Zerbinetta salvano un’Ariadne un po’ di routine

C’è un piacere in più quando si può assistere alla rappresentazione di un’opera proprio nel luogo in cui viene ambientata la vicenda o dove il compositore l’ha concepita. È il caso ad esempio di Tosca a Roma, La vie parisienne a Parigi, Jenůfa a Brno, Iolanthe a Londra, La Gran Vía a Madrid ecc. E così è per Ariadne auf Naxos a Nasso… no a Vienna, dove in una lussuosa villa fervono i preparativi per uno spettacolo che concluderà una cena elegante con cui un ricco aristocratico vuole intrattenere i suoi ospiti.  Una rappresentazione del mito di Arianna, una farsa “all’italiana” e fuochi d’artificio in giardino sono l’eterogeneo programma della serata.

Ariadne è tra le opere di Richard Strauss più rappresentate ultimamente: il gioco meta-teatrale piace e molti sono i registi che hanno dato la loro particolare lettura della vicenda che accomuna con umorismo i due piani distinti e lontani della tragedia e della commedia. Alle intenzioni alate del musicista “serio” risponde la pragmaticità di Zerbinetta con la sua troupe di comici, ma c’è un momento in cui i due mondi si toccano, quando Zerbinetta rimane sola col compositore. Ed è un momento di grande emozione.

La produzione di Sven-Eric Bechtolf del 2012 da allora viene proposta quasi ogni anno con cast differenti dall’Opera di Stato, quasi un marchio di fabbrica, una specialità della casa. La messa in scena  è confortantemente tradizionale e adatta al pubblico del maggior teatro viennese, ma con il tocco di modernità dei bellissimi costumi di Marianne Glittenberg (a parte il leopardato del Tenore…) e delle eleganti scene di Rolf Glittenberg, per non dire dei monopattini su cui scivolano le maschere sul palcoscenico. Altri particolari ironici che sfruttano la finzione teatrale alleggeriscono il tono della rappresentazione. Di fronte a noi vediamo la fila dei nobili spettatori che assistono alla tragedia e ne vediamo le reazioni – il sussulto di quello che si era addormentato all’acuto del tenore o i cenni di intesa tra un altro spettatore e Zerbinetta. Il regista sceglie di mantenere anche nella seconda parte i personaggi del compositore e del maestro di danza, dando così maggior continuità alla vicenda.

Nell’edizione attuale, con cui si festeggiano i 150 anni del teatro, la direzione di Peter Schneider risulta piuttosto pesantuccia e il cast non perfettamente omogeneo. A parte l’eccellenza di Lise Davidsen, maestosa e vocalmente sontuosa Primadonna/Ariadne ammirata pochi mesi prima nella stessa parte  a Aix-en-Provence, il punto debole è il Tenore/Bacchus stremato di Stephen Gould. Eccellente è la Zerbinetta di Erin Morley mentre Markus Eiche (Maestro di musica) e Rachel Frenkel (Compositore) sono niente più che efficaci, così che finisce per rimanere nella memoria solo la figura scenica del Maggiordomo dell’ottantunenne attore e doppiatore Peter Matić.

Marnie

 

Nico Muhly, Marnie

★★★☆☆

New York, Metropolitan Opera House , 10 novembre 2018

(live streaming)

Hitchcock senza tensione

La recente scomparsa di Sean Connery getta una luce particolare sulla trasmissione in streaming dell’opera Marnie il cui fortunato antecedente cinematografico vedeva come coprotagonista, accanto alla bellezza frigida di Tippi Hedren, appunto l’attore scozzese. Il film di Hitchcock è del 1964 e la vicenda era tratta dal romanzo di Winston Graham di tre anni prima, ma se là le musiche di Bernard Herrmann (l’ultima sua colonna sonora per Hitchcock) restituivano amplificate le ossessioni della donna, qui vi sono quelle del compositore e produttore discografico Nico Muhly (americano classe 1981) alla sua terza composizione per il teatro dopo Dark Sisters (2010) e Two Boys (2011).

Atto I. Inghilterra, 1959. Nello studio di contabilità della Crombie & Strutt dove lavora come impiegata, Marnie incontra Mark Rutland, un cliente del signor Strutt. Mark è immediatamente attratto da lei. Dopo la chiusura dell’ufficio, Marnie ruba i soldi dalla cassaforte dell’ufficio e mentre scappa pianifica come cambierà la sua identità e il suo aspetto quando si trasferirà nella prossima città, come ha fatto prima. Marnie fa visita alla madre invalida e le dà i soldi per una nuova casa. Nel frattempo, Il signor Strutt scopre il furto di Marnie e giura di consegnare Marnie alla giustizia. Marnie fa domanda per un lavoro alla Halcyon Printing ed è scioccata quando scopre che l’uomo che la intervista è Mark Rutland, lo stesso che ha incontrato nell’ufficio del signor Strutt. Con sollievo di Marnie, sembra non riconoscerla e le offre il lavoro. Incontra anche il fratello di Mark, Terry, il “vice ribelle” di Mark in azienda. Settimane dopo, Terry, un noto donnaiolo, invita Marnie a una partita di poker nel suo appartamento. Quando si unisce ai suoi colleghi in un pub, la esortano ad accettare l’invito di Terry. Appare uno sconosciuto, affermando di aver conosciuto Marnie con un nome diverso, ma lei lo congeda. Marnie si unisce a Terry e ai suoi amici per il gioco. Alla fine della partita, rimasti soli,Terry fa delle avance a Marnie, ma lei lo respinge e fugge. A casa di Mark, sua madre, la signora Rutland, gli dice di mettersi in forma come amministratore delegato. Arriva Marnie, che Mark ha invitato con il pretesto del lavoro. Marnie menziona il suo amato cavallo, Forio, e Mark parla della sua solitudine da quando sua moglie è morta. Si avvicina un temporale, spaventando Marnie. Mark la conforta, le dichiara che ne è innamorato e cerca di baciarla. Marnie lascia immediatamente il lavoro e fugge. Marnie progetta di sfuggire ai due fratelli cambiando identità ancora una volta. Ancora una volta apre la cassaforte, ma Mark la sorprende sul fatto. Minaccia di denunciarla a meno che lei non accetti di sposarlo. Marnie non ha altra scelta che obbedire. La madre di Marnie riceve una lettera da Marnie, che la informa che non sarà in contatto per un po’ di tempo. Ne discute con Lucy, la sua vicina. Durante la loro crociera in luna di miele, Mark rivela a Marnie di averla riconosciuta quando ha fatto domanda per il lavoro e ha sempre saputo che è una ladra. Lei rifiuta di fare sesso e lui cerca di violentarla. Marnie si chiude in bagno e si taglia i polsi.
Atto II. Alcune settimane dopo, Marnie si toglie le bende dai polsi. Le cicatrici stanno svanendo, ma sente che le sue ferite non guariranno mai e giura di resistere a Mark. Marnie e Mark si vestono per una cena di lavoro. Marnie gli fornisce informazioni che lo portano a concludere che Terry stia tramando per rilevare l’azienda di famiglia. Frustrato dal loro matrimonio senza sesso, Mark spinge Marnie a consultare un analista in cambio della promessa di portare Forio nella stalla nella sua proprietà. Marnie vede l’analista per diverse settimane e alla fine ricorda il ricordo di un temporale, un soldato, sua madre e il suo fratellino morto. Marnie e Mark arrivano al country club per la festa di sua madre. Terry minaccia di denunciare Marnie, ma il peggio de ancora avvenire: appare Strutt che la riconosce. Mark accetta di incontrarlo più tardi per risolvere la situazione. Terry critica Mark per aver intrappolato Marnie e i due uomini litigano. La signora Rutland sconvolge Mark quando rivela che è lei che ha pianificato l’acquisizione dell’azienda di famiglia: sarà Malcolm Fleet ora a gestirà l’attività. Marnie e Mark partecipano a una caccia alla volpe, con Marnie in sella a Forio. Il cavallo va nel panico e si imbizzarisce, Marnie viene disarcionata e Mark, cercando di aiutarla, viene ferito. Anche il cavallo è ferito, così gravemente che bisogna sopprimerlo: è Marnie stessa a sparargli. La madre di Mark visita il filgio in ospedale ed esprime sconcerto per il suo matrimonio. Marnie arriva, la tensione tra lei e Mark si è allentata, ma mentre se ne va gli ruba le chiavi dell’ufficio. Decidendo che deve lasciare il paese per evitare i suoi crescenti sentimenti per Mark, Marnie si ritrova davanti alla cassaforte aperta, ma questa volta è incapace di prendere i soldi. Va a trovare sua madre ma arriva e scopre che è morta. Al cimitero Lucy le dice che è stata sua madre, non Marnie, a uccidere il fratellino. Marnie supera i suoi sensi di colpa e il suo bisogno di trasgredire. Appare Mark, accompagnato da Terry e dalla polizia. Mark spera che lui e Marnie possano riconciliarsi, ma Marnie non può promettere nulla. Sa solo che deve affrontare la verità. Si arrende alla polizia con le parole: «Sono libera».

Presentata alla English National Opera il 18 novembre 2017, Marnie passa ora al Metropolitan Opera Theater che l’aveva commissionato. Dello stile minimalista la musica di Muhly ha il ritmo, ma le ripetizioni non sono così rigorosamente portate avanti, anzi il tono complessivo ha un qualcosa di hollywoodiano senza però la tensione di una colonna sonora. Ed è questo il punto più debole della musica diretta da Robert Spano, che non coinvolge mai e manca della suspence che ci si aspetterebbe dalla vicenda. Scritta bene, con raffinatezze orchestrali – i personaggi sono presentati ognuno da uno strumento diverso – non c’è però un tema melodico che si leghi a loro e ce li faccia ricordare.

Il regista Michael Mayer ha lavorato molto strettamente col compositore e il suo allestimento ha la fluidità e l’eleganza dei migliori prodotti del MET. Le scenografie di Julian Crouch sono abilmente realizzate con schermi scorrevoli su cui vengono proiettate immagini evocative mentre la costumista Arianne Phillips delizia la vista con gli elegantissimi abiti della protagonista.

Mary, Myriam, Melanie, Muriel, Martine, Maggie, Maxine, Maudie, Myra… le innumerevoli personalità di Marnie sono impersonate in scena da quattro alter ego della donna mentre il coro dà voce al mondo esterno. Come nell’opera settecentesca, il ruolo della protagonista è stato scritto su misura per il mezzosoprano Isabel Leonard che infatti delinea alla perfezione il personaggio, ma che si fa ricordare più per l’avvenente presenza scenica e i completi color pastello che per l’aspetto musicale. Lo stile vocale, suo come degli altri personaggi, è un declamato che rende molto chiaro il testo ma nient’altro. Risulta quindi quasi sprecata come interprete e lo stesso si può dire per Christopher Maltman e Iestyn Davies nei ruoli di Mark e di Terry rispettivamente. Negli altri ruoli femminili si distinguono Janis Kelly come Mrs Rutland, la madre di Mark che prende in mano la situazione dell’azienda comprando la maggioranza delle azioni, e Danyce Graves la madre di Marnie, che è all’origine della nevrosi della figlia.

Le nozze in villa

Gaetano Donizetti, Le nozze in villa

★★★★☆

Bergamo, Teatro Donizetti, 22 novembre 2020

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bandiera francese.jpg Ici la version française

Elio e le nozze tese

Dopo le due opere della piena maturità che incorniciano la Lucia di Lammermoor, il Marino Faliero che la precede e il Belisario che la segue, il Festival Donizetti Opera presenta il “dramma buffo” in due atti Le nozze in villa, il terzo titolo del suo copioso catalogo (1), a duecento anni di distanza dalla prima mantovana del carnevale 1819. Di più non si sa: non c’è la partitura autografa, non ci è pervenuto il libretto della prima, non ci sono recensioni sui giornali dell’epoca né se ne parla in qualche lettera. Non sembra fosse stato un successo, ma l’opera fu ripresa a Treviso e a Genova prima di sparire dai cartelloni.

«La partitura è complessivamente un esercizio di routine per impratichirsi nell’uso delle formule compositive dell’epoca, dal quale esula l’ispirazione» è il severo giudizio dell’Ashbrook su questo lavoro su libretto di Bartolomeo (o Bortolomeo o Bartolommeo o anche Bartolameo…) Merelli tratto dalla commedia Die deutschen Kleinstädter (1801, tradotto in italiano da Tommaso de Lellis come I provinciali) di August von Kotzebue, lo stesso da cui era stato tratto il libretto dell’Enrico di Borgogna sempre del Merelli.

Atto primo. Trifoglio, il maestro del paese, sta impartendo una lezione. Viene a cercarlo Petronio, il podestà. Ha deciso che Trifoglio sposerà sua figlia Sabina. Il maestro è scettico, perché Petronio non ha consultato la figlia. Sabina è triste, guarda il ritratto di Claudio, un giovane conosciuto in città di cui è innamorata, ma malgrado le tante promesse il giovane ancora non si vede. Entra Anastasia, la nonna. Sabina nasconde il ritratto, ma nulla sfugge alla nonna e Sabina si inventa che l’immagine ritrae il re che tutti amano, e Anastasia si impossessa del ritratto. Entrano allora Petronio e Trifoglio: il podestà presenta il maestro alla figlia come il suo futuro sposo, e questi si lancia in una sgangherata dichiarazione. Intanto arriva un messaggio che avverte Petronio dell’arrivo di un signore altolocato, Claudio. Sabina ha un trasalimento: è lui. Anastasia ha un mancamento: il forestiero è quello del ritratto di Sabina, dunque il re si trova nella loro casa. Mentre Sabina e Claudio si giurano fedeltà reciproca, sono interrotti da Petronio che prepara l’accoglienza al presunto sovrano. Claudio chiede lumi e tra la disillusione generale Sabina è costretta a spiegare l’equivoco.
Atto secondo. Petronio è furioso ma non cambia idea: Sabina sposerà Trifoglio. Fervono infatti i preparativi per le nozze. Nel frattempo Claudio è alle prese con Trifoglio: ai dubbi che il primo cerca di instillargli, l’altro risponde che è convinto dell’amore della sua giovane sposa. Ma anche Claudio sta aspettando inutilmente Sabina. Finalmente ella giunge e i due, nascosti dal buio della sera, si promettono di nuovo amore. Si sente una chitarra. È Trifoglio che fa una serenata alla futura sposa. Sopraggiungono tutti gli abitanti della casa, accendono una lanterna e colgono in flagrante i due amanti clandestini. A questo punto Trifoglio vuole un chiarimento. Il contratto non è firmato, la voglia di sposar Sabina gli è passata e in ogni caso chiede della dote. Petronio sciorina un elenco infinito: titoli, carte, cinquantotto parrucche, un pallone aerostatico e sei dozzine di occhiali, ma neanche un soldo. Trifoglio allora rompe il fidanzamento. Sabina riflette su quanto sta accadendo: non avrà né Trifoglio, che non voleva, né Claudio che ama. Ma Claudio non s’è arreso. Petronio s’è incaponito a tener la figlia ai suoi comandi. Però Claudio sa come ammorbidirlo: non pretenderà alcuna dote. E Petronio è vinto: Sabina sposerà Claudio.

Il linguaggio musicale del «giovin bergamasco» è ancora quello dell’opera napoletana rivisto con lo spirito di Rossini, allora l’operista più conosciuto, anche se l’influenza maggiore non può non essere che quella di Mayr, il maestro di Donizetti. Non un capolavoro, Le nozze in villa è comunque piacevole ed è giusto che un festival come questo lo faccia conoscere al grande pubblico. Il problema della perdita del quintetto del secondo atto è stato risolto in maniera inedita affidandone la scrittura a Elio e Rocco Tanica (sì, quelli del gruppo Elio e le storie tese…) con risultati più che accettabili: si sente che il pezzo non è d’epoca per il gioco di armonie, ma non stona neanche troppo.

A capo dell’orchestra Gli Originali con strumenti d’epoca Stefano Montanari sceglie un diapason a 430 Hz per rispettare la scrittura di una partitura che legge con la vivacità e insieme il rigore filologico che gli vengono riconosciuti. Al fortepiano Montanari provvede a fornire con molto gusto anche qualche nota di complemento ed è evidente la sua cura nel non coprire i cantanti che per di più hanno la difficoltà di avere il maestro concertatore quasi sempre alle spalle – lo spettacolo è a 360 gradi e non c’è la frontalità del palcoscenico, ma questo non sembra un grosso intralcio per degli interpreti scaltriti come quelli presenti.

Elegante e ironico come sempre, il baritono Omar Montanari presta la voce al Podestà Don Petronio. «Ombre degli avi miei» è l’aria con cui emula il rossiniano Don Magnifico de La cenerentola di due anni prima. Fabio Capitanucci è il poeta Trifoglio, qui un wedding planner alla Enzo Miccio in outfit coloratissimi. Anche lui offre una resa vocale convincente del suo pomposo personaggio a cui il librettista fa declamare versi strampalati quali «Oh tu, Cupidine | d’amore artefice […] Auricrinito Apolline | dal bel Castaglio margine […] alla Parrasia cima…». L’eccellente stilista Gaia Petrone è Sabina, in veste di fotografa di matrimoni, a cui il compositore dedica le pagine più virtuosistiche come la cavatina «Sospiri del mio sen» nel primo atto e l’aria con coro del secondo «Non mostrarmi in tale istante». Timbro piacevole e felici agilità sono le caratteristiche del giovane mezzosoprano. Agilità e puntature anche per il Claudio di Giorgio Misseri, che risolve brillantemente gli acuti nei suoi interventi tra quello di «Affetti teneri» accompagnato dal clarinetto. Manuela Custer porta la sua esperienza nell’ironica parte della Nonna. Assieme a Claudia Urru (Rosaura) e Daniele Lettieri (Anselmo) sono a loro volta impegnati nei tanti numeri di assieme, compreso il ricostruito quintetto “Aura gentil che mormori” e lo sbrigativo finale quando, come in un’opera barocca, tutti entrano in scena per cantare la morale «d’amore al dolce incanto | mai contrasto non vi fu | quando unite assiem si vede | grazia, fede, e gioventù», mielosa come i fondali delle foto degli sposi e falsa come l’erba della platea del teatro Donizetti nel divertente spettacolo affidato al regista Davide Marranchelli, che si avvale delle scene di Anna Bonomelli e dei costumi di Linda Riccardi. La platea è diventata un prato di erba sintetica su cui dei ragazzotti giocano a calcio prima di essere richiamati dal maestro Montanari che si fa dare la palla e inizia la sinfonia dell’opera mentre il parterre si riempie di cigni fatti con i palloncini, fotografi e spose sempre più nervose: l’ambiente per la lepida vicenda è infatti una di quelle location che si affittano per i matrimoni. Per rispettare le misure sanitarie tutti si tengono a debita distanza, indossano i guanti e usano la mascherina quando non cantano, ma compensa le limitazioni la scioltezza degli attori-cantanti molto ben istruiti dal regista che attualizza ironicamente gli elementi della farsa.

Con Le nozze in villa termina gloriosamente il Festival Donizetti Opera che è riuscito in tempi calamitosi come quello che stiamo vivendo a rispettare quasi completamente il programma previsto, un risultato sorprendente e che fa onore alla città di Bergamo, che tra l’altro è stata tra le più duramente colpite dalla pandemia. Sono esempi come questi che offrono un po’ di ottimismo per il nostro sventurato paese.

(1) Di Una follia, la farsa che segue l’Enrico di Borgogna, sono andati perduti sia il libretto sia la partitura.

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

★★★★☆

New York, Metropolitan House, 11 gennaio 2020

(live streaming)

Il buon soldato Wozzeck

«Arriverà al MET» scriveva con entusiasmo il New York Times nell’agosto 2017 riguardo alla produzione del Wozzeck salisburghese. L’allestimento di William Kentridge aveva fatto scalpore allora per la sua complessità visiva: il mondo visionario dell’artista sudafricano diventava quello del protagonista in un horror vacui che non trascurava nessun punto della scenografia di Sabine Theunissen, una struttura di piattaforme precarie, che veniva ricoperta e resa irriconoscibile da un flusso di immagini fisse o in movimento.

Lo spettacolo ora al Metropolitan gioca sul dubbio se quello che vediamo sia un incubo frutto della mente sconvolta dell’uomo o sia reale (il ricordo della Grande Guerra). Infatti, dirigibili, biplani, fari della contraerea, maschere antigas, feriti, storpi, crocerossine, stampelle fanno pensare al periodo in cui Berg era al fronte e la scrittura della sua opera subiva un comprensibile rallentamento, ma la disumanizzazione di cui era testimone la riversava nell’intonazione del testo di Büchner. Una terza possibilità ci viene data: quello che vediamo è la visione al tempo della composizione di futuri ancora più tragici avvenimenti.

Il bombardamento di immagini cui è sopposto lo spettatore porta a condividere lo smarrimento del Capitano nella prima scena: «Langsam, Wozzeck, langsam! Eins nach dem Andern! | Er macht mir ganz schwindlich…» (Adagio,Wozzeck, adagio! Una cosa alla volta! Mi fa girar la testa…). Tanta è la solitudine di Wozzeck quanto è invece l’affollamento in scena di immagini, video, burattini. Sì, perché il bambino della coppia è un burattino con la maschera antigas, una figura che potrebbe essere uscita da un cartoon di Tim Burton oppure da una tela di George Grosz: non solo la donna non ha più un rapporto affettivo col padre del figlio, in quel mondo brutale non c’è neanche posto per il calore materno. Nell’angoscioso finale dell’opera il sipario scenderà sul corpo inerte del burattino di legno.

È la terza volta che Kentridge lavora per il MET dopo Il naso di Šostakovič (ottobre 2013) e la Lulu (novembre 2015). Alla Haus für Mozart Matthias Goerne e Asmik Grigorian erano diretti da Vladimir Jurowski, al Metropolitan il podio è per il suo direttore musicale Yannick Nézet-Séguin e nella parte del protagonista c’è un Peter Mattei che è difficile pensare debutti nella parte essendo tale la confidenza che dimostra nell’incarnare il personaggio. Inghiottito dalle immagini di Kentridge, il suo Wozzeck non ha quasi nulla della follia che lo porta a uccidere la moglie, anzi accetta con pazienza le angherie del Capitano – a cui non fa la barba ma mostra delle immagini animate di un proiettore che lui stesso aziona – o le sadiche pratiche che il Dottore gli somministra in un armadio da incubo espressionista e nella sua torpida inedia e ottusità ricorda piuttosto il soldato Šveik di Hašek.  Il baritono svedese delinea un Wozzeck quasi lirico con la sua bella voce che ricorda nel timbro quella di Dietrich Fischer-Dieskau. Forse è fin troppo ben cantato. Così è anche per la Marie di Elza van den Heever che manca della carica sensuale quasi animalesca che dovrebbe avere il personaggio. Gerhard Siegel è efficace nella parte non molto isterica qui del Capitano, mentre Christian Van Horn è un Dottore di sadica lucidità. Un Christopher Ventris talora affaticato dà corpo al Tamburmaggiore, Tamara Mumford è Margret e Andrew Staples Andres.

L’enorme orchestra del Wozzeck (1) ha pochi momenti in cui usa tutta la sua potenza sonora, ma quei singoli lancinanti accordi sono memorabili nella direzione di Yannick Nézet-Séguin. Per il resto la sua è una concertazione di grande trasparenza che tocca l’ineffabile nell’elegia che precede l’epilogo.

(1) Oltre agli archi (almeno cinquanta) l’orchestra comprende 4 flauti, 4 oboi, 4 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 4 trombe, basso tuba e una sterminata percussione che include tra l’altro xilofono, celesta. Sono poi richieste una banda militare (atto primo, scena III), un’orchestrina sul palcoscenico per la taverna (atto secondo, scena IV) e un pianoforte scordato (atto terzo, scena III). I complessi sul palcoscenico possono essere formati da musicisti dell’orchestra: Berg fornisce nella partitura l’indicazione di quando i musicisti debbano lasciare la buca per recarsi sul palcoscenico e quando debbano farne ritorno.

Foto dell’allestimento salisburghese con Matthias Goerne e Jens Larsen

Belisario

Jacques-Louis David, Belisario chiede l’elemosina, 1781

Gaetano Donizetti, Belisario

Bergame, Teatro Donizetti, 21 novembre 2020

(live streaming)

Qui la versione italiana

Un titre digne des plus grands chefs-d’œuvre du compositeur

À l’époque de Donizetti, c’étaient les épidémies de choléra qui sévissaient (l’une d’entre elles emporta sa femme de 28 ans en 1837); aujourd’hui, nous subissons le Covid-19… Ce n’est pas le seul point qui nous rend rapproche du compositeur de Bergame et fait de nous ses contemporains (faut-il rappeler que c’est sa ville qui a le plus souffert en Italie des effets de la pandémie ?) : l’ensemble de son œuvre a, toujours, quelque chose à enseigner aux hommes du XXIe siècle.

Même Belisario, un titre oublié de son immense catalogue, que le Théâtre Donizetti de Bergame propose en cette année très particulière…

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Don Carlos

 

Giuseppe Verdi, Don Carlos

★★★★★

Vienna, Staatsoper, 4 ottobre 2020

(video streaming)

Vienna sfida la pandemia con un Don Carlos integrale

È la versione francese in cinque atti con balletto (ma vedremo quale balletto…) quella del Don Carlos ora proposta a Vienna. Una produzione mastodontica con un cast stellare. Mascherinato e distanziato il pubblico può entrare e rendere più viva la rappresentazione con la sua presenza, cosa attualmente negata in molti altri teatri nel mondo. L’Austria al momento è un’isola felix da questo punto di vista – finché dura.

L’allestimento di Peter Konwitschny interpreta modernamente il grand opéra rendendone attuale il gusto, con il suo divertissement coreografico totalmente avulso dalla vicenda tragica in cui si inseriva, qui trasformandolo con umorismo. Infatti, nella scenografia di Johannes Leiacker i pochi colori dell’atto di Fontainebleau spariscono negli atti successivi lasciando spazio solo al bianco e nero dei costumi in un ambiente spoglio e claustrofobico, di un bianco più lugubre del nero, su cui si aprono mille porte. Ma i colori ritornano nella scena del “sogno di Eboli” sulle musiche del balletto che apre l’atto terzo: una pantomima ironica che mostra la desiderata vita coniugale della donna incinta di Carlos, col marito che rientra dal lavoro in un soggiorno dalle pareti tappezzate a fiori e la tavola apparecchiata. La coppia  si lancia in un goffo pas de deux trascurando l’arrosto in forno. L’arrivo dei suoceri (!) con i regali (un peluche e una culla per il nascituro) e Di Posa con la pizza che sostituisce l’arrosto bruciato completano l’ironico quadretto famigliare: il sogno di potere della principessa si è ridotto a un tinello borghese. L’idea del regista è uno shock per una parte dell’ultraconservatore pubblico dell’Opera di Stato che probabilmente considera i ballabili drammaturgicamente irrinunciabili. Beata ingenuità.

Ma non è finita. Con l’atto dell’auto da fé (parte II del secondo atto) tutti sono in abiti attuali e uno schermo ci fa vedere l’arrivo del corteo dell’imperatore a teatro, salutare il pubblico dal palco di proscenio e salire sul palcoscenico, mentre i condannati al rogo sono trascinati per lo scalone sotto i flash dei fotografi. Il tutto come in un reportage della televisione spagnola, comprese le foto dei massacri di civili che vengono distribuite da Carlos a sostegno della causa delle Fiandre. La voce dal cielo fuori scena è quella di una diva in abito di lamé che canta al microfono.

Col quarto atto si ritorna ai costumi. Filippo canta «Elle ne m’aime pas» tra le braccia di Eboli con la quale ha passato la notte. All’arrivo dell’inquisitore la donna non riesce a recuperare il vestito perché il vecchio cieco ci ha messo un piede sopra ed è costretta a rimanere, tanto quello con vede! Questo è uno dei momenti ironici dello spettacolo, come quello del monaco del secondo atto che alle parole di Carlos «À cette voix, je frissonne! | J’ai cru voir, o terreur! | l’ombre de l’Empereur | sous le froc cachant sa couronne» effettivamente tira fuori dal suo saio una corona e se la mette in testa ammiccando agli spettatori. E sarà lo stesso monaco che nel finale apparirà come spettro di Carlo V a salvare la giovane coppia.

Si diceva del cast stellare. Tra Kaufmann, appassionato e poi ironico Carlos, e Malin Byström (Elizabeth) l’intesa è perfetta e il loro sublime duetto nel finale tutto mezze voci e trepidanti intenzioni vale da solo il prezzo del biglietto. Ma c’è anche Michele Pertusi, un Filippo memorabile per l’immedesimazione con il vecchio perdente monarca. Rodrigo è l’ottimo Igor Golovatenko ed Eboli una splendida Ève-Maud Hubeaux. Roberto Scandiuzzi è un autorevole e inquietante Inquisitore, Dan Paul Dumitrescu il Monaco qui burlone e Virginie Verrez un efficace Thibault. Alla guida dell’orchestra la sicura mano di Bertrand de Billy dipana le quasi cinque ore di musica senza cali di tensione. Non è sempre coeso l’immenso coro in scena.

Belisario

Jacques-Louis David, Belisario chiede l’elemosina, 1781

Gaetano Donizetti, Belisario

Bergamo, Teatro Donizetti, 21 novembre 2020

(live streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Un titolo degno di stare alla pari con i maggiori capolavori di Donizetti

Ai suoi tempi c’erano le epidemie di colera (Donizetti perse la moglie ventottenne in quella del 1837), ora abbiamo il Covid-19. Non è l’unico elemento che ci rende più vicino e contemporaneo il compositore di Bergamo, la città che più di tutte in Italia ha sofferto gli effetti della pandemia: tutto il suo teatro ha sempre qualcosa da dire a noi uomini di oggi. Anche il Belisario, un titolo desueto del suo sterminato catalogo, che il Donizetti Opera propone in quest’anno così particolare.

L’opera doveva inaugurare il festival con la prestigiosa presenza di Plácido Domingo, ma la salute del cantante e l’andamento della pandemia hanno cambiato i programmi e ora l’opera va in scena in forma concertistica due giorni dopo il previsto, senza la presenza del celebre cantante e in video streaming, come le altre produzioni rimaste in cartellone, Marino Faliero e Le nozze in villa.

Con Belisario, scritto subito dopo la Lucia di Lammermoor, Donizetti ritornava dopo 18 anni a Venezia come musicista affermato, qui aveva fatto i suoi giovanili debutti con l’Enrico di Borgogna e Pietro il Grande. Il libretto di Salvadore Cammarano era basato su «una tragedia d’Holbein, che il valente artista drammatico Luigi Marchionni ridusse per le scene italiche», come scrive il librettista. Franz Ignaz Holbein, veneziano di nascita e attivo a Napoli, era attore-autore di drammi di successo all’epoca. «Il Belisario di Holbein, pari a quello della storia, colse ovunque allori copiosi e meritati; reputerò il mio non meno avventuroso, se voi, delle cose teatrali integri e scienti giudici, gli accorderete una sola fronda di quegli allori» si augura il Cammarano. L’opera venne presentata il 4 febbraio 1836 con crescente successo per ventotto repliche prima di arrivare a Bergamo e poi alla Scala, dove di repliche ne ebbe 32 .

La storia del condottiero di Giustiniano che aveva difeso eroicamente l’Impero d’Oriente dagli attacchi dei barbari si legava alla rilettura dell’antico passato, quello della gloriosa opera settecentesca, ma con una storia di per sé semplice e linearmente trattata, che faceva a meno delle vicende amorose: qui le donne non sono appassionate amanti, ma una trepida e fedele figlia Irene e una moglie che lo accusa ingiustamente.

Parte prima. A Bisanzio, il coro annuncia il ritorno di Belisario, trionfatore sui Goti. Intanto la moglie del condottiero, Antonina, narra a Eutropio del figlio Alessi, avuto da Belisario e scomparso appena nato. Lo schiavo Proclo le aveva rivelato essere stato Belisario a ordinargli di uccidere Alessi; ma lui, non avendo cuore di farlo, l’aveva abbandonato su una spiaggia deserta. Antonina non conosce quest’ultimo particolare ed è decisa a vendicarsi ordendo un complotto contro il marito. Giustiniano riceve il suo generale, tra i prigionieri c’è il giovane Alamiro, che Belisario libera. Ma Alamiro vuole restare a fianco di Belisario, cui si sente legato da un vincolo misterioso. Belisario annuncia che lo terrà con sé, come se fosse il figlio perduto. Ma intanto si compie la vendetta di Antonina. Mentre la figlia di Belisario, Irene, abbraccia il padre, giunge Eutropio, che lo accusa pubblicamente di complotto, esibendo come prova documenti falsificati. Belisario chiama a testimone Antonina; lei non solo conferma l’accusa, ma lo costringe a una confessione più infamante: l’uccisione del figlio. Belisario narra di un sogno, che gli aveva fatto apparire Alessi come predestinato alla rovina della patria ed è per questo che l’aveva sacrificato.
Parte seconda. All’ingresso delle prigioni, i veterani raccontano ad Alamiro come Belisario sia stato accecato e condannato all’esilio. Giunge Irene, che ha deciso di accompagnare il padre e i due si commuovono all’incontro.
Parte terza. Belisario e Irene vagano nei dintorni di Bisanzio. All’arrivo dei soldati nemici capeggiati da Ottario si nascondono e, riconosciuta la voce di Alamiro, apprendono che egli si è unito ai barbari per muovere guerra a Bisanzio. Il cieco eroe allora non esita a palesarsi e fermare l’orda guidata da Alamiro. Alla replica di questi, Irene comprende che Alamiro è suo fratello Alessi. Avendo assistito all’agnizione, Ottario scioglie dal vincolo di fedeltà Alessi/Alamiro, mentre Belisario organizza con il figlio ritrovato la difesa di Bisanzio. Antonina, in preda ai rimorsi, svela a Giustiniano le sue colpe. Risuonano grida di vittoria: i greci hanno trionfato sui barbari, ma Alessio racconta che il padre è stato ferito a morte. Condotto al cospetto dell’imperatore, Belisario muore mentre Antonina gli chiede inutilmente perdono.

Opera della piena maturità, Belisario è il lavoro che più anticipa il Verdi che verrà nel conflitto tra amor paterno e amor di patria, sfera privata e sfera politica. Inedito è il rapporto tra padre e figlia, così come il ruolo del baritono, qui protagonista, o quello del soprano il cattivo della vicenda, ma al femminile: Antonina è mossa da un desiderio di vendetta che richiama quello terribile di Elettra. La donna sfrutta la complicità di Eutropio promettendoglisi sposa, ma appena l’uomo menziona il patto («premio all’amor mio | la tua destra…») lo interrompe bruscamente: «Or dimmi: ordita | fu la trama?». L’odio è il motore che muove Antonina, sazia solo quando il marito è bandito in esilio e accecato, salvo poi pentirsi amaramente e implorarne il perdono quando si accorge dell’errore che ha commesso.

Liberato il teatro dal labirinto metallico del Marino Faliero, l’orchestra ha una disposizione più regolare: ora Riccardo Frizza ha davanti a sé tutti gli strumenti e deve voltarsi solo per dare l’attacco ai cantanti schierati in platea. In marsina gli uomini, in elegantissimi abiti da sera le donne, la camminata per arrivare ai leggii è il solo effetto scenico consentito. L’attenzione è tutta puntata sulla musica questa volta e si può apprezzare ancor più la tensione drammatica e la straordinaria ricchezza e densità della partitura in cui gli ottoni donano un tono di solenne tragicità classica. Molti sono i pezzi corali, come l’esaltante ingresso di Giustiniano, in cui si fa apprezzare il coro imbavagliato nelle mascherine e istruito con sapienza da Fabio Tartari. Più che nelle arie solistiche la bellezza del Belisario risiede nei tanti pezzi di insieme:  il tenero duetto tra Belisario e Alamiro («Io tuo figlio! A me tu padre!») nella prima parte, quello straziante tra Belisario e Irene che forma il lungo finale secondo, il drammatico terzetto Irene, Belisario, Alamiro/Alessi nella parte terza dopo l’agnizione («Se il figlio/fratel/padre stringere | mi è dato al seno»).

I solisti qui sono messi a nudo senza costumi e recitazione scenica, ma l’impatto espressivo è comunque forte quando si hanno interpreti come quelli schierati nella platea del Teatro Donizetti. Non c’è momento che Roberto Frontali faccia rimpiangere che si tratta in definitiva di un rimpiazzo: l’autorevolezza vocale e il fraseggio scultoreo definiscono un Belisario di grande e umana nobiltà. Tutta la gamma di sfumature possibili è impiegata dal baritono romano per disegnare la figura eroica di chi dopo i massimi trionfi conosce la disgrazia e la crudeltà, ma riesce a mantenere una grande magnanimità d’animo. Stupefacente per pathos e colori è il suo racconto/confessione «Sognai… fra genti… barbare» che introduce il drammatico finale primo.

Singolare, come s’è detto, il ruolo della moglie Antonina, limitato alla prima parte e al finale della terza. Il timbro e l’emissione, entrambi particolari e personalmente poco apprezzati del temperamentoso soprano Carmela Remigio sono funzionali questa volta al suo ruolo di «donna antipatica» e il personaggio ne esce fuori in maniera del tutto convincente. Più lirico è il ruolo di Irene in cui si cala con commossa partecipazione Annalisa Stroppa col suo bel colore mezzosopranile. La cabaletta «Trema Bisanzio!» con i suoi acuti è la pagina più virtuosistica di Alamiro/Alessi e Celso Albelo, che vocalmente sempre più assomiglia ad Alfredo Kraus (sarà la comune origine canaria…), offre una performance gloriosa per bellezza di suoni, pienezza di accenti ed eleganza. Possente ed autorevole si dimostra il Giustiniano di Simon Lim, vocalmente efficace è il perfido Eutropio di Klodjan Kaçani.

La concertazione di Frizza è lucidamente appassionata, se mi si passa l’ossimoro, e ci convince della giustezza della proposta: anche se l’autore lo metteva «al di sotto di Lucia», non c’è dubbio che il Belisario sia un’opera bellissima in cui non c’è pagina che non sia altamente ispirata e questa esecuzione dimostra come abbia diritto a entrare a pieno titolo nei cartelloni lirici alla pari degli altri capolavori di Donizetti.