Immanuil Velikovskij

Akhnaten

Philip Glass, Akhnaten

★★★★☆

Nizza, Opéra, 1 novembre 2020

(live streaming)

Il Sole di Akhnaten splende sulla Costa Azzurra

Non siamo al Metropolitan e soprattutto siamo in tempo di Covid-19, ma l’Opera di Nizza riesce lo stesso a mettere in scena una produzione impegnativa come quella di Akhnaten di Glass sfruttando i mezzi a disposizione, che non sono quelli del teatro newyorchese. Lo spettacolo che risulta è comunque convincente e a suo modo grandioso pur con un impianto semplice ma efficace.

Lucinda Childs, che aveva partecipato alla realizzazione di Einstein on the Beach, la prima della trilogia delle opere “politiche” del compositore americano di cui Akhnaten è la terza, riesce a montare a distanza una messa in scena coinvolgente e vi assume la parte recitante. Le coreografie sono estremamente semplificate e coristi e interpreti solisti si muovono e assumono posizioni da bassorilievo egizio, spesso di profilo. Gli eleganti costumi sono di Bruno de Lavenère che firma anche l’essenziale scenografia costituita da una piattaforma rotante e basculante che richiama il disco del Sole, la deità della religione di Akhnaten. Su un sipario trasparente vengono proiettate le figure dei corpi dei ballerini o altre immagini evocative. E i primi piani di Lucinda Childs che recita i testi in inglese. Già, altrimenti l’opera è cantata in egiziano antico ed è uno degli elementi particolari di questo lavoro di Glass: «è una delle magie dell’opera lirica poter usare lingue morte e portarle in vita nella nostra immaginazione in modo sensibile. Il compositore evoca abilmente l’idea delle lacune testuali con la sillaba “ha” che serve tanto come evocazione dell’emozione, quanto come efficace supporto alla realizzazione della grande battaglia teologica tra le rappresentazioni zoomorfe di Amon e la difesa del monoteismo di Aten, che deve essere rappresentata teatralmente ma di cui non ci resta alcuna traccia testuale. Allora cosa c’è di meglio che ripetere questa sillaba su ritmi incessanti? Il suono “ha”, che evoca il respiro della vita secondo gli egizi, ritorna nella sua forma emozionale nel duetto tra Akhnaten e Nefertiti. E man mano che prende sempre più spazio, a partire dall’evocazione delle sei figlie, diventa di nuovo il discorso che colma le lacune dei testi e finisce per evocare le rovine della città e la sepoltura nella sabbia dell’opera di Akhnaten». (Premiereloge-opera)

Altro che noia: la musica di Glass ha una tensione che è tutta giocata sull’attesa e la previsione delle minime variazioni che verranno e qui è realizzata dall’orchestra del teatro sotto la direzione attenta di Léo Warynski che dipana con convinzione le complesse polifonie e le sempre cangianti dinamiche, tutt’altro che minimaliste. All’orchestra e al coro è richiesto un non facile compito, ma la concentrazione ha garantito un risultato di grande precisione.

Quando si parla di controtenori si pensa a dei cantanti di non grande volume sonoro, ma qui Fabrice di Falco dimostra una grande proiezione della voce. La sua ieratica presenza scenica incarna il faraone ribelle e sfortunato con solenne serenità. Al suo fianco ha due eccellenti comprimarie: un soprano abituato a un repertorio belcantistico ben diverso quale Patrizia Ciofi, qui la madre Tye, e una cantante dal timbro più caldo e profondo, Julie Robard-Gendre, adatto a rappresentare la sensualità della moglie Nefertiti. Vincent Le Texier (Aye), Joan Martín-Royo (Horemhab) e Frédéric Diquero (Amon) completano il cast.

La recita del 1 novembre, l’unica sopravvissuta, è a porte chiuse e trasmessa in video con una ripresa televisiva che indugia molto sugli strumentisti dell’orchestra. Il pubblico che non ha potuto partecipare di persona ha motivo di consolazione nel fatto che Akhnaten sarà lo spettacolo inaugurale della stagione 2021-22 dell’Opéra Nice Côte d’Azur. Magari allora sarà ripristinato l’Epilogo che qui è stato tagliato.

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Akhnaten

Philip Glass, Akhnaten

★★★★★

New York, Metropolitan Opera House, 23 novembre 2019

(video streaming)

Finalmente un trionfo per Akhnaten al Metropolitan

Trentacinque anni dopo il debutto a Houston, Akhnaten ritorna a New York per la seconda volta, ma se lo spettacolo del 1984 alla New York City Opera fu basico e noioso, ora questo alla Metropolitan Opera House non potrebbe essere più monumentale, diventando uno degli avvenimenti lirici più sorprendenti degli ultimi anni.

Affidato a Phelim McDermott, che nel 2008 aveva qui allestito Satyagraha, l’altro pannello della “trilogia politica” di Philip Glass, questo Akhnaten arriva dalla English National Opera, dopo essere passato a Los Angeles, con qualche minima variante – qui manca il nudo integrale del protagonista nella scena della sua vestizione.

Il regista affronta il problema della mancanza di drammaturgia dell’opera utilizzando dei giocolieri, il che non è una trovata estemporanea: la giocoleria era una pratica diffusa nell’antico Egitto, come dimostrano le pitture parietali della tomba 15 di Beni Hassan (1) dove si vedono figure femminili, una di queste con le braccia incrociate, lanciare in alto e riprendere due o più palle. La presenza di questo gioco secondo gli studiosi si deve alla simbolica forma sferica e alla conseguente correlazione col disco solare o col ciclo della nascita e della morte. Con la sua compagnia di giocolieri, Sean Gandini mima l’astratta geometria della partitura con le sue infinite ripetizioni e variazioni: i giochi di destrezza lasciano con il fiato sospeso tanto quanto la tensione ritmica incessante sprigionata dalla musica di Glass. I movimenti al rallentatore (alla Robert Wilson, si direbbe) dei protagonisti si affiancano alla vivacità delle acrobazie che riempiono gli spazi vuoti di una drammaturgia volutamente assente. Nella scena della costruzione della città di Amarna le palle crescono di numero e vengono lanciate sempre più in alto, mentre nella riforma della religione così come Aten (Aton) rimpiazza il vecchio pantheon egizio così le sfere sono sostituite dalle clave che diventano anche archi e frecce nelle scene di caccia e di guerra.

Quello della giocoleria non è l’unico dettaglio filologico inserito dal regista nello spettacolo: l’opera inizia con la sepoltura di Amenhotep III, il padre di Akhnaten (Amenhotep IV), con i sacerdoti attorno al cadavere del vecchio faraone mentre lo preparano alla mummificazione estraendo gli organi da collocare nei vasi canopi (qui sei invece dei quattro prescritti) mentre il cuore viene pesato su una bilancia identica a quella raffigurata nella pittura egizia. È il rito della psicostasia del Libro dei morti, la “pesatura del cuore” o “pesatura dell’anima”: se il cuore è più leggero di una piuma di struzzo, il defunto è degno di entrare nel regno dei morti.

Altri particolari ancora danno valore a un allestimento che risulta profondamente coinvolgente e spettacolare con le scenografie elegantissime di Tom Pye e l’onirico gioco luci di Bruno Poet. Dello stesso Pye sono i costumi, che raggiungono un livello di magnificenza e fantasia difficilmente eguagliabile. Fantasmagorico quello per l’incoronazione del protagonista compreso di crinolina, facce di bambolotti come decorazioni, gioielli, incrostazioni e ricami in una profusione d’oro e turchese. La regina madre Tye è addobbata come Mary of Teck, la regina consorte di Georgio V e imperatrice dell’India. Aye invece incarna il Baron Samedi, la divinità voodoo, con teschio sul cappello a cilindro, mentre il grande sacerdote di Amon ha un bucranio sulla mitra vescovile. A questo punto non desta quasi stupore che Nefertiti abbia una parrucca blu, lo scriba/Amenhotep III quattro Rolex d’oro ai polsi e Tutankhamon delle sneaker Louboutin, il modello dorato, ovviamente…

Alla testa dell’orchestra del teatro Karen Kamensek, cresciuta con la musica di Glass, dipana con precisione – forse un po’ meccanica – gli arpeggi ripetuti e le minime variazioni della partitura che portano a uno stato di trance l’ascoltatore mentre in scena agisce un cast di eccellenza con la voce asessuata del controtenore Anthony Roth Costanzo che raggiunge l’acme della sua performance nell’ipnotico “Inno al Sole” che conclude il secondo atto con un abile uso delle mezze voci. Il soprano islandese Dísella Lárusdóttir presta il luminoso colore della sua voce per gli interventi nel registro acuto della regina Tye, mentre toni più sensuali sono quelli del mezzosoprano J’Nai Bridges, Nefertiti. Efficace il trio dei ribelli interpretato da Aaron Blake (Grande sacerdote di Amon), Will Liverman (Horemhab) e Richard Bernstein (Aye). Il basso-baritono Zachary James qui ha solo un ruolo parlato, ma la recitazione e la presenza scenica lo rendono memorabile come scriba e spirito di Amenhotep III. Il coro del teatro istruito da Donald Palumbo si dimostra anche questa volta al di sopra delle aspettative dovendo cantare in lingue sconosciute.

(1) Questo e altri dettagli filologici mi sono stati rivelati da Elisabetta Valtz che ancora una volta ha messo a disposizione le sue preziose competenze sull’antico mondo egizio.

Akhnaten

Akhnaten

Philip Glass, Akhnaten

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 13 settembre 2015

(esecuzione in forma di concerto)

L’aspirazione irrealizzata di un faraone

La riapertura dopo il discutibile intervento di rifacimento del “Museo Egizio” (non più “di Torino” perché non faceva abbastanza international) ha risvegliato i sopiti sentimenti egittofili della città: il Teatro Regio a ottobre aprirà la sua stagione con l’Aida – con che cosa se no? – e MiTo Settembre Musica ha presentato Akhnaten di Philip Glass in forma di concerto. Ma già a giugno nel cortile del museo suddetto i bravi neodiplomati della Scuola del Teatro Stabile avevano portato in scena Akhenaton di Agnese Grieco tratto dall’opera omonima (1937) di Agatha Christie. (1)

Trent’anni fa Philip Glass completava la trilogia sui personaggi che furono guidati da una visione – scientifica, politica, religiosa – che trascendeva l’epoca in cui vivevano per cambiare il mondo con la sola forza delle idee. Albert Einstein (Einstein on the Beach, 1976) e il Mahatma Gandhi (Satyagraha, 1980) furono i primi due. L’Akhnaten del titolo è Akhenaten o Akhenaton (Amenhotep IV), figlio di Amenhotep III, della XVIII dinastia egizia. È il faraone che ha regnato per diciassette anni dal 1385 al 1357 (per altri studiosi dal 1350 al 1333 a.C.) ed è passato alla storia come il “faraone eretico” per il tentativo di sostituire, in aperto conflitto con il potente clero tebano, l’affollato pantheon egizio con un nuovo culto monoteista adoratore dell’unico dio Aton, il dio sole.

La figura di Akhnaten è una scoperta relativamente recente: distrutta la città e costretto il suo fondatore alla damnatio memoriæ, solo nel 1917 venne scoperta nella Valle dei Re una tomba le cui iscrizioni funerarie sulle pareti furono volutamente cancellate con lo scalpello. I coevi scavi di Tell-el-Amarna, o Akhetaton “la città dell’orizzonte di Aton”, nei pressi della moderna Amarna misero in luce altri particolari della storia.

L’immediato interesse per il personaggio e la sua epoca lo troviamo in Freud che nel 1939 pubblica Der Mann Moses und die monotheistische Religion (L’uomo Mosè e la religione monoteista), il suo ultimo libro a pochi mesi dalla morte, in cui il padre della psicanalisi discute delle origini di quel monoteismo su cui si innesta il ceppo giudaico-cristiano. Ma prima ancora, nel ’33, la fascinazione per l’arte di Amarna aveva colpito invece Thomas Mann, che nella tetralogia Joseph und seine Brüder (Giuseppe e i suoi fratelli) aveva preso a evidente modello dei suoi personaggi le raffigurazioni del faraone e della sua sposa, la bellissima Nefertiti.

Glass è invece direttamente influenzato dall’Œdipus and Akhnaten dello psicologo e sociologo russo Immanuil Velikovskij e il libretto (del compositore stesso con la consulenza di altri quattro studiosi e uomini di teatro) sviluppa la vicenda del faraone dall’incoronazione fino al suo tragico epilogo con una coda ai nostri giorni tra i turisti che visitano le rovine della città da lui fondata. Le 10 scene, il preludio e l’epilogo sono suddivisi in tre atti secondo la scansione seguente:

Atto I. Primo anno del regno di Akhnaten – Tebe. Preludio. Scena 1. Il funerale di Amenhotep III. Scena 2. L’incoronazione di Akhnaten. Scena 3. La finestra delle apparizioni.

Atto II. Gli anni dal 5° al 15°– Tebe e Akhetaton. Scena 1. Il tempio. Scena 2. Akhnaten e Nefertiti. Scena 3. La città-danza. Scena 4. Inno.

Atto III. L’anno 17° e il presente – Akhetaton. Scena 1. La famiglia. Scena 2. Assalto e caduta. Scena 3. Le rovine. Scena 4. Epilogo.

Nel 1984, quando l’opera viene rappresentata il 24 marzo a Stoccarda, il compositore di Baltimora aveva già alle spalle quasi vent’anni di carriera iniziata a Parigi con gli studi di Nadia Boulanger e proseguita poi con Ravi Shankar. Era nata proprio in quel periodo la fascinazione per la musica indiana con i suoi ritmi ipnotici e l’incessante ripetizione dei motivi melodici sottoposti a minime variazioni a rappresentare il tempo che si riavvolge su sé stesso. È lo stile compositivo minimalista che da questo momento Glass abbraccia rinnegando le sue precedenti composizioni. La scrittura del suo quartetto per archi op. 1 del 1966 rispecchia questa nuova visione.

Il preludio orchestrale con cui inizia Akhnaten è affidato a un moto inarrestabile in 4/4 di terzine negli archi (l’orchestra è priva di violini per dare un particolare colore scuro) su cui entrano prima i legni e poi trionfali gli ottoni ad affermare un tema che, quasi un motivo conduttore, tornerà nel corso dell’opera con la sua luminosità a dipingere il dio Sole della nuova religione. Le percussioni e una musica di grande impeto caratterizzano invece la scena seguente, quella dei funerali del padre Amenhotep III, con il coro che scandisce il testo tratto dal Libro dei morti: «Ankkh ankh, en mitak | Yewk er heh en heh | ahau en heh» (Vivi la vita, tu non morirai. Tu esisterai per milioni e milioni di anni). I testi di Akhnaten sono infatti in egiziano, accadico ed ebraico antico e con la loro ripetitività rispecchiano la solenne e rituale ripetitività tipica delle iscrizioni antiche. In lingua inglese moderna sono soltanto le letture dello scriba, recitate da un attore, e il famoso “Inno al Sole”, seguito immediatamente per analogia di intenti dal Salmo 104 «O Signore, come sono varie le tue opere» cantato in ebraico antico. Ma quello di Akhnaten è un dio di luce, gioia e amore per tutte le forme di vita (2) che contrasta non poco con lo Jahwé di due secoli dopo, il dio geloso e sterminatore del Vecchio Testamento. (3)

Di chiaro colore orientale, con le sue percussioni tintinnanti, è la città-danza del secondo atto mentre la musica del funerale ritornerà ancora una volta ad accompagnare Akhnaten verso la dimora finale. Nella musica di Glass la tensione dell’ascoltatore si sprigiona a causa dell’attesa e riscoperta delle minime ma incessanti variazioni che avvengono quasi ad ogni battuta: la musica di Glass non è “ripetitiva”, per lo meno come non lo è Händel nella quadruplice esposizione della prima strofa nelle sue arie d’opera, ogni esposizione essendo diversa dalle precedenti. Qui le variazioni possono essere ritmiche, melodiche o armoniche, queste ultime soprattutto nei cambiamenti di scena.

La parte di Akhnaten è quella di un controtenore (qui Rupert Enticknap) per evidenziarne la giovane età e la diversità. Un basso (Mauro Borgioni), un baritono (Giuseppe Naviglio) e un tenore (Marcello Nardis) sono le voci rispettivamente di Aye, il padre di Nefertiti, di Horemhab, il generale che rovescerà Akhnaten e ne prenderà il posto, e del sommo sacerdote. Ai personaggi femminili di Nefertiti (Gabriella Sborgi) e della regina madre Tye (Valentina Valente) sono affidati spesso ardui vocalizzi.

La forma concertistica, scelta dagli organizzatori di MITO all’auditorium del Lingotto, sia per le opere conosciute come per le meno note, permette di soffermarsi sull’aspetto musicale del lavoro senza essere “distratti” dalla forma scenica. Qui due schermi rimandano le immagini di opere del Museo Egizio (ma non solo) fotografate da Andrea Micheli e montate da Luca Scarzella come acconcio commento alla musica dipanata dall’orchestra del Regio. Così vediamo le sensuali fattezze del giovane faraone («Il suo volto era lungo e alquanto pallido, con labbra piene che in quel pallore erano di un rosso lampone e sorridevano timide», Thomas Mann) – o quelle affascinanti della sposa Nefertiti («I capelli nascosti da una cuffia azzurra, che le allungava l’occipite da farlo apparire rotondo e accanto alla quale si vedevano le orecchie grandi, sottili, finemente disegnate», id.) scolpite nella pietra.

Si potrà poi vedere una ricostruzione digitale della città di Akhetaton mentre alla fine compaiono le rovine della città morta che si è sfaldata in sabbia, come le note dell’opera dopo la triste scena della visita ai pochi resti abitati dai fantasmi dei protagonisti mentre l’immagine della maschera d’oro del faraone Tutankhamen del museo del Cairo prende il posto della statua di Akhnaten che sparisce rimpicciolendosi.

Il maestro Dante Anzolini è un profondo conoscitore della musica di Glass di cui ha diretto diverse prime mondiali e ha debuttato al Metropolitan di New York con il Satyagraha. Egli dipana la cangiante trama del lavoro con convinta partecipazione, ma qualche prova in più avrebbe forse aggiustato l’equilibrio fonico tra orchestra, coro e voci soliste e reso più precisi gli attacchi dei cantanti. Tutti sono comunque caldamente festeggiati dal numerosissimo pubblico. Il programma di sala firmato da Livio Aragona è prodigo di osservazioni e riporta il libretto con le annotazioni di Glass per la messa in scena.

L’assistere al concerto in compagnia di una insigne archeologa mi ha poi permesso di apprezzare particolari che forse mi sarebbero sfuggiti: grazie a Elisabetta Valtz e alle sue illuminanti osservazioni.

(1) L’incertezza della grafia del nome è dovuta al fatto che l’egiziano, come le altre lingue semitiche, non utilizza le vocali nella scrittura e quindi nella lettura c’è sempre un margine di dubbio su quale vocale ancorare le consonanti.

(2) Tutte le bestie sono soddisfatte del loro pascolo | Gli alberi e le piante sono verdeggianti | Gli uccelli volano dai loro nidi, le ali spiegate | Le greggi evitano con i loro zoccoli | Tutto ciò che vola e si posa | Vivi da quando sei sorto. | Quanto è vario ciò che hai creato | Tu unico Dio | Non c’è nessun altro come te | Hai creato la Terra | Secondo la tua volontà | La tua sola volontà, tutto quello che è sulla Terra | Cammina e vola in alto.

(3) «Ognuno di voi si metta la spada al fianco; percorrete l’accampamento da una porta all’altra di esso, e ciascuno uccida il fratello, ciascuno l’amico, ciascuno il vicino […] In quel giorno caddero circa tremila uomini e Dio ne fu compiaciuto» (Esodo, 32:27); «Poiché l’Eterno è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; ei le vota allo sterminio, le dà in balìa alla strage. (Isaia, 34:1-2); «Quando il Signore tuo Dio avrà messe in tuo potere [le nazioni] e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia. […] Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco i loro idoli». (Deuter. 7:2-5); «Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (1 Samuele, 15:7-8) e via cantando.

  • Akhnaten, Kamensek/McDermott, New York, 23 novembre 2019
  • Akhnaten, Warynski/Childs, Nizza, 1 novembre 2020