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Philip Glass, Satyagraha
★★★★☆
New York, Metropolitan Opera House, 19 novembre 2011
(video streaming)
Ritorna al MET lo spettacolo coprodotto con l’ENO
Arduo compito quello di mettere in scena un’opera senza una vera e propria narrazione e cantata in sanscrito!
Queste sono le sfide che Philip Glass lancia a chi vuole affrontare Satyagraha, la parte centrale della sua “trilogia dei ritratti” degli anni 1976-1983. Il Metropolitan Opera House ripropone nel suo cartellone la produzione di Phelim McDermott che era nata nel 2007 all’English National Opera di Londra per festeggiare i 60 anni di indipendenza dell’India e che si era poi vista a New York nel 2008. Con lo scenografo Julian Crouch, il costumista Kevin Pollard e la lighting designer Paula Constable, Phelim McDermot mette in piedi uno spettacolo di grande forza visiva ed emotiva.
La vicenda degli anni passati in Sud Africa da Mohandas K. Gandhi, dal 1893 al 1914, si sviluppa tematicamente piuttosto che cronologicamente nel lavoro di Glass e il regista costruisce dei quadri visivamente imponenti partendo da una scenografia povera, uno sfondo curvo di lamiera ondulata arrugginita che ricorda le shanty town dei neri, in cui si aprono varchi e finestre per le apparizioni degli “spiriti guida” o l’ingresso della masse finalmente dotate di coscienza politica da esprimere con l’opzione della non violenza secondo la filosofia del satyāgraha, “la perseveranza della verità”. Il mezzo principale scelto da McDermott è quello di grandi burattini che raccontano la storia non presente nel libretto, che è un insieme di massime tratte dal Bhagavadgītā (Canto del Divino), il poema al centro dell’epica Mahābhārata e testo fondamentale della religione Hindu.
Musicalmente Glass in Satyagraha perfeziona il suo metodo compositivo in cui piccole unità sonore costruiscono a poco a poco degli schemi identificabili (pattern) che variano in tono e volume mentre si allungano, si accorciano, si ripetono, formano cicli e muoiono. L’idea è semplice: Glass col suono fa ciò che i bambini fanno con i blocchi di legno: inizia con una piccola serie di suoni, da quattro a nove, ma ripetendo quell’unità costruisce un pattern, generalmente di quattro o otto battute. Variandolo leggermente, crea un’unità diversa e ora può usare le due unità per costruire pattern diversi. Le unità si ripetono all’interno dei pattern, che si ripetono in ciò che Glass chiama “cicli”. Non ci vuole molto perché l’originale serie di suoni diventi un’intricata linea musicale. Glass potrebbe cambiare il numero di ripetizioni all’interno di un pattern o il numero di ripetizioni del pattern e questi cambiamenti hanno grandi conseguenze: si increspano, trasformano il pezzo musicale. La piccola serie di note è diventata musica ricca e inaspettata. Le cose diventano ancora più intricate quando viene suonata una seconda linea di musica – basata su un’unità completamente diversa, ripetuta di nuovo in serie contemporaneamente alla prima. Emergono così armonie ricche e ritmi sorprendenti. Di tutto ciò è ben conscio Dante Anzolini, esperto della musica di Glass, a cui è affidata la direzione musicale. Alla guida dell’orchestra del teatro il maestro restituisce la complessa partitura in tutta la sua forza ipnotica.
Lo affiancano in scena interpreti di grande livello come Richard Croft (Gandhi) che col suo timbro luminoso e la sua intensa espressività mette in luce le intenzioni del personaggio nonostante il testo spersonalizzato e incomprensibile. Se gli si può fare un appunto è proprio questa ricerca eccessiva di intenzioni, neanche si trattasse di Lied, che rende un po’ manierata la sua performance. Più freddamente contenuta la parte di Rachelle Durkin (Miss Schlesen) tutta espressa in un registro stratosferico che il soprano coloratura australiano gestisce senza fatica. Kim Josephson (Mr. Kallenbach) e Alfred Walker (Parsi Rustomji) sono gli altri efficaci interpreti principali. È poi al coro, vero protagonista dell’opera e quasi sempre presente in scena, che vanno le lodi per aver cantato in una lingua del tutto sconosciuta una parte estremamente difficile.
⸪