Mese: febbraio 2017

Semiramide

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Gioachino Rossini, Semiramide

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 26 febbraio 2017

(video live)

Sangue e potere nel “melodramma tragico” rossiniano

La Semiramide nella lettura di David Alden alla Staatsoper di Monaco di Baviera si situa in un paese del medio oriente di oggi in cui non mancano certo tiranni dalle non limpide storie famigliari. Ma potrebbe anche essere la Corea del Nord o qualunque altro paese caucasico in cui venga imposto il culto della personalità il cui oggetto è quello che è stato fatto fuori, come qui nell’ultima opera italiana di Rossini dove la protagonista titolare ha ucciso il marito Nino, con l’aiuto del suo amante Assur, per usurparne il potere

Verso la fine della fiammeggiante ouverture il sipario lentamente si apre e ci introduce nella scenografia di Paul Steinberg in cui troneggia una gigantesca statua di Nino. Le dimensioni della statua, del lampadario e dei quadri ci fanno intendere che siamo negli imponenti e piuttosto kitsch interni del palazzo del potere, che è al contempo anche santuario religioso – se mai qualcuno avesse ancora dubbi sulla commistione religione-potere. L’ambientazione moderna non rinuncia a ironici richiami del passato, come quando alla fine del primo atto i personaggi sono addobbati in costumi d’epoca e stanno su piedistalli come reperti museali. Alden non rinuncia al suo tocco irriverente nel corteo indiano di Idreno e nelle sue danze in stile Bollywood o quando Mitrane non trova di meglio per nascondersi che scendere nella buca del suggeritore, ma è l’eccellente Personregie che contraddistingue il suo lavoro, qui agevolato da interpreti che sono anche eccelsi attori.

Dal punto di vista vocale nella Semiramide occorrono i quattro migliori interpreti del momento, e qui ci sono. Joyce DiDonato è una Semiramide drammatica, intensa ma dalle  precise agilità, fiati immensi, legato perfetto – ed è debuttante nel ruolo! Emotivamente divisa tra il ruolo di madre e di amante, è una donna ossessionata dal senso di colpa, non una macchinetta che snocciola senza fine fredde colorature.

Qui se la vede con un superlativo Alex Esposito, che scolpisce un Assur stupefacente. Indimenticabili certi momenti: il duetto del terz’atto quando sibila «E chi apprestò il veleno? Di morte il nappo a me chi porse!» o il racconto della notte dell’omicidio o la scena del delirio. Oggi nessun altro cantante sa stare in scena con tali intensità e varietà espressive. Anche lui è debuttante nel ruolo.

Delle doti rossiniane di Daniela Barcellona sappiamo. La non omogeneità della voce nei vari registri è ampiamente compensata da una tecnica formidabile e da una sicurezza nelle agilità che fanno del suo Arsace en travesti un altro personaggio da manuale.

Privato, ahimè, della sua aria «Ah dov’è, dov’è il cimento?», Lawrence Brownlee rifulge però negli altri suoi interventi con un agio che nasconde le difficoltà della parte di Idreno risolta con grande eleganza.

Simone Alberghini completa degnamente come Oroe la parte italiana del cast, mentre Elsa Benoit è un’iconica Azema tutta d’oro. Mitrane modesto invece quello di Galeano Salas.

Sulla direzione musicale di Michele Mariotti si può condividere pienamente quanto scritto da Alberto Mattioli: «Questa Semiramide resterà una tappa fondamentale nella storia interpretativa dell’opera. E, per la prima volta, grazie soprattutto alla direzione, in un titolo che è sempre stato messo in scena (e sempre viene ricordato) per chi l’ha cantato, e dove chi dirigeva era di solito un mero accompagnatore o, nei casi peggiori, una specie di zerbino al servizio della diva di turno. Il merito è di Michele Mariotti, che firma la più importante direzione di Semiramide fra quelle ascoltate dal vivo o documentate dal disco. C’è il grande direttore, certo, e che il Rossini di Mariotti sia eccellente non lo si scopre certo adesso: dinamiche amplissime, eleganza di “rubati”, dominio della forma, ricchezza di colori, senso del teatro (cosa non è l’introduzione alla grande scena di Assur) e un riuscitissimo lavoro sull’orchestra della Staatsoper, che è eccellente ma non certo molto abituata a questo repertorio. Ma stavolta l’esito è forse maggiore come concertatore. Per la prima volta, Semiramide non viene solo cantata, ma interpretata. Basta leggere un po’ di recensioni ottocentesche per sapere che ai cantanti dell’epoca non si chiedeva solo di eseguire con nonchalance i sovrumani virtuosismi escogitati da Rossini, ma anche di dare loro un senso drammatico (i famosi “affetti nascosti” sotto il velo delle fioriture di cui parla Stendhal) e di scolpire i recitativi da quei grandi momenti di teatro che sono. Tutte cose che Mariotti ottiene dai suoi cantanti: e così sembra davvero di scoprire l’opera per la prima volta».

Unico neo, i tagli: nel primo atto la seconda parte della terza scena; l’aria di Idreno, come s’è detto; le scene VII e XII e il coro della XIII; nel secondo atto la scena X e il coro della XII. Oltre che parecchie riprese. La produzione andrà a Londra. Chissà se verranno ripristinate le pagine mancanti.

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King Arthur

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Henry Purcell, King Arthur

★★★★☆

Berlino, Schiller Theater, 21 gennaio 2017

(video streaming)

Medioevo e XX secolo strettamente intrecciati

Arthur compie otto anni: tra i regali che gli vengono offerti ci sono il libro e i burattini della leggenda di King Arthur. Al bambino manca molto il padre caduto in combattimento e quando il nonno inizia a leggere la storia della guerra tra britanni e sassoni il bambino ritrova la figura del padre in quella del leggendario re suo omonimo. King Arthur esce come Saint-Exupéry da un aeroplano precipitato, Philidel scende con un paracadute. Così inizia il King Arthur di Henry Purcell nella drammaturgia di Detlef Giese in questa produzione della Staatsoper di Berlino in cui il testo di Dryden è recitato in una traduzione tedesca mentre i numeri musicali sono cantati in inglese.

Il contrasto fra i due popoli – quello pagano (i sassoni) e quello cristiano (i britanni) – e tra le due epoche storiche è ironicamente evidenziato dai fantasiosi costumi di Kevin Pollard: l’esercito dei Britanni è una commistione di corazze, cimieri piumati, divise Seconda Guerra Mondiale, forconi, archibugi e scolapasta a mo’ di elmi, mentre i Sassoni adoratori di Wotan sono in buffi travestimenti primitivi. Ma ancora non è niente: è nelle scene successive che si sfoga la sbrigliata fantasia del costumista con risultati strepitosi.  Le scene, dello stesso Crouch, sono dipinte come nel teatro barocco o il frutto di una efficace videografica proiettata su teli. Questo, messo in scena allo Schiller Theater da Sven-Eric Bechtolf e Julian Crouch, è un teatro delle origini, rivisto con il gusto e lo spirito di oggi, ma anche con tanta poesia.

Parti cantate e parti recitate sono affidate a personaggi diversi, come previsto da questa semi-opera di Purcell, ad eccezione del personaggio di Grimbald, qui affiancato da un basso quando è il momento di cantare. Affiatata e di eccellente livello la compagnia di attori della Ein Skills Ensemble tra cui il decano Hans-Michael Rehberg come Merlino e il lubrico Osmond di Oliver Stokowski.

La musica dei cinque masque è ricreata con la consueta dedizione e sapienza da René Jacobs alla testa della Akademie für Alte Musik. La varietà di colori e dinamiche sempre perfettamente bilanciate con i solisti in scena ha contraddistinto la resa della partitura in pagine molto caratterizzate come la scena del gelo o la lotta fra gli spiriti.

Nel cast di cantanti si apprezzano le doti di agilità del soprano Anett Fritsch nei ruoli di Philidel, Cupido e Venere, così come il piacevole timbro del controtenore Benno Schachter. Ottimo il coro della Staatsoper.

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Tannhäuser

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Richard Wagner, Tannhäuser

★★★☆☆

Venezia, Teatro La Fenice, 28 gennaio 2017

(video streaming)

L’intenso Wagner di Bieito

Chi ci crede più a Wagner? Certi aspetti del suo teatro sembrano irrimediabilmente datati, altri invece offrono spunti tremendamente attuali e un regista di oggi non può fare a meno di puntare su quanto possa ancora dire alla nostra attualità. Gli scrupoli di Tannhäuser, combattuto tra l’amore sensuale e quello spirituale, e il miracolo del bastone papale che germoglia hanno ben poca presa sulla nostra cinica e disincantata modernità, ma Calixto Bieito riesce a scovare nella vicenda spunti di riflessione ancora attuali a oltre centosettant’anni dalla prima dell’opera. Era successo col suo Parsifal, si ripete ora con questo Tannhäuser. Con il primo atto nella versione di Parigi (1861, riscritto quindi dopo il Tristano) e gli altri due nella prima edizione di Dresda (1845), questa produzione arriva a Venezia dopo Anversa, dove si avvaleva di un cast superiore, diciamolo subito.

Venere e Elisabetta sono molto simili qui, entrambe in négligé di raso nero: non è tanto il conflitto tra le due sensualità a interessare il regista spagnolo, quanto quello tra natura e cultura, il desiderio erotico e il suo controllo sociale, l’istinto e il rigido mondo civile con le sue ferree regole.

Ambienti ben distinti quindi sono quelli ideati dalla scenografa Rebecca Ringst: il Venusberg è una foresta rotante in cui domina l’oscurità e gli alberi crescono al contrario, dall’alto verso il basso. La Wartburg è invece una struttura rigidamente geometrica illuminata dai fasci radenti del bel gioco di luci di Michael Bauer. Nel quadro finale riprende il sopravvento la natura, o meglio il degrado, soffocando i bianchi piloni dell’edificio mentre Elisabetta impazzisce riducendosi a uno stato quasi ferino.

Né Medioevo, né Ottocento nella messa in scena di Bieito, bensì una spietata contemporaneità, in cui le battute dei protagonisti acquistano spesso una dimensione inquietante. Chiaramente oggetto di condanna da parte del regista è l’ipocrisia, quella dei cantori che abusano sessualmente di Elisabetta, ma poi fustigano sadicamente il cantore dell’amore sensuale con i rami della foresta del primo atto.

La dimensione romantica e quella religiosa sono assenti, non appaiono in questa lettura: il coro dei pellegrini è sempre lontano, invisibile. Solo alla fine si presenta in scena, ma più che penitenti sembrano una schiera di anime dannate venute a implorare – da chi? – una impossibile grazia. Lo spettacolo ha una sua grande coerenza e anche se non tutto è condivisibile, ha però un’innegabile forza teatrale, che d’altronde raramente difetta negli allestimenti del regista di Burgos.

Omer Meir Wellber dirige un’orchestra che da vent’anni non suonava quest’opera. Dinamiche e colori sono esatti, gli slanci lirici razionali, meditati. Il tenore americano Paul McNamara ha sostituito, sembra senza farlo rimpiangere, il Tannhäuser titolare  riuscendo a delineare efficacemente il personaggio. Aušrinė Stundytė è una sensuale e appassionata Venere dalla dizione a tratti indecifrabile. Elisabetta è anche lei molto terrena nella lettura di Bieito e trova in Liene Kinča un’interprete duttile e intensa. Culmine della serata è però Christoph Pohl (Wolfram von Eschenbach). Con lui si raggiunge un momento di straniante lirismo quando, in un’atmosfera da The day after, porge «O du, mein holder Abendstern» in maniera indicibilmente toccante. Ma il baritono tedesco si era già fatto notare prima per eleganza e nobiltà. Di livello inferiore il Langravio di Pavlo Balakin, debole nel registro basso e dall’intonazione incerta. Neppure il coro è risultato esente da qualche sbandamento, ma si è riscattato col suo intervento nell’ultima scena.

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TEATRO GEROLAMO

immagini-quotidiano-netTeatro Gerolamo

Milano (1868)

209 posti

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D’accordo, non è un teatro d’opera, ma come poteva mancare la “piccola Scala” soprattutto ora che ha riaperto dopo 33 anni di inattività? Costruito nel 1868, il Gerolamo si trova in piazza Beccaria, a metà strada tra il Duomo e piazza San Babila: con il suo loggione a ferro di cavallo e il doppio ordine di palchi, ricorda effettivamente una versione in miniatura della Scala e rappresenta un pezzo di storia di Milano. La leggenda vuole che a progettarlo sia stato Giuseppe Mengoni, l’autore della Galleria Vittorio Emanuele. In realtà i documenti dell’epoca attribuiscono il disegno del teatro all’ingegner Paolo Ambrosini, ma è vero che nel teatro c’è un pezzo di Galleria: le due opere sono state realizzate dalla stessa ditta, che avrebbe ceduto ai cantieri del Gerolamo dei materiali di recupero della Galleria.

Teatro: dopo 30 anni riapre il Gerolamo, ribalta marionette Uff.Stampa teatro Gerolamo

Il teatro è legato al nome dei Colla, celebre famiglia di artisti della marionetta: la funzione originaria del Gerolamo era proprio quella di ospitare spettacoli di burattini. La direzione fu affidata inizialmente a Giuseppe Fiando, che diede ampio risalto anche alle opere in dialetto, grazie al contributo dell’Accademia del Teatro Nuovo e della Compagnia Dialettale Milanese Francesco Parenti. Nel 1911 il teatro era passato sotto la direzione di Carlo Colla & Figli, che vi organizzarono spettacoli ogni sera fino al 1957, anno in cui la sala venne chiusa una prima volta per le condizioni di degrado in cui versava.

teatro-gerolamo-10_orig.jpgRiaperto da Paolo Grassi nel 1958 con una recita straordinaria di Eduardo De Filippo, ha ospitato per alcuni anni recital, cabaret e monologhi interpretati, tra gli altri, da Franca Valeri, Enzo Jannacci, Juliette Gréco, Dario Fo e Franca Rame. Nel ’74 il teatro, passato sotto il controllo del Comune di Milano, era diventato ente autonomo, per poi chiudere definitivamente il sipario nel 1983, anche questa volta per problemi di sicurezza.

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Il lungo restauro ha sacrificato una parte della capienza del teatro, ridotta a 209 posti dai 600 originari, ma ha valorizzato tre sale che serviranno a trasformare il Gerolamo in uno spazio polivalente, con mostre, conferenze e una piccola biblioteca. Con la direzione artistica di Roberto Bianchin, già consulente artistico della Fenice di Venezia, il teatro apre una stagione ricca di musica classica e spettacoli in prosa. Per il suo “scrigno di sogni”, Bianchin ha in serbo anche serate jazz, incursioni nella danza contemporanea e i tradizionali spettacoli delle marionette.

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Il teatro negli anni ’50 con il suo pubblico di bambini e adulti che assistono a una rappresentazione per burattini della fiaba di Cenerentola con la musica dal vivo…

Belshazzar

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★★★★★

Lo Händel più maturo risplende in questo oratorio

Nel 1745 Händel ha da tempo abbandonato la composizione di opere italiane – l’ultima è stata Deidamia nel 1741 – per scrivere oratorii in lingua inglese. Cambia la lingua, ma lo stile musicale è quello dell’opera ed ecco perché sempre più spesso i suoi oratorii vengono eseguiti in forma scenica.

Presentato al King’s Theatre di Londra il 27 marzo di quell’anno su testo di Charles Jennes, lo stesso librettista del Messiah, Belshazzar si basa sul racconto biblico (Daniele I 5-6) della caduta di Babilonia per mano di Ciro il Grande e della conseguente liberazione del popolo ebraico.

La storia si situa nel 539 a.C. nella Babilonia governata dal re Baldassarre. La città è assediata da Ciro, principe dei Medi e dei Persiani. Atto primo. Nitocri, madre di Baldassarre, medita sulla vanità dei valori umani e intuisce la caduta imminente del regno di suo figlio. Il profeta Daniele conferma i suoi timori e la incoraggia nella sua fede nel dio degli ebrei. Nella scena seguente i babilonesi dall’alto delle mura della città irridono gli assedianti. Ciro, ispirato da un sogno che racconta al suo aiutante di campo Gobria, si propone di deviare il corso dell’Eufrate per penetrare nella città attraverso il letto prosciugato liberando così anche gli ebrei tenuti in schiavitù dopo la deportazione voluta da Nabuccodonosor, il padre di Baldassarre. L’invasione è prevista per la notte del festino dato in onore del dio del vino Sesach nel corso della quale i babilonesi tradizionalmente si ubriacano. Daniele rilegge le profezie di Isaia e Geremia che annunciano la caduta di Babilonia e il ritorno degli ebrei a Gerusalemme. L’ultima scena è nel palazzo reale dove avviene il festino in cui Baldassarre decide di bere nei vasi sacri rubati a Gerusalemme. Nitocri e gli ebrei sono inorriditi e tentano invano di riportare il re alla ragione. Atto secondo. I persiani riescono a entrare nella città nel momento in cui il festino è al suo culmine e Baldassarre sfida apertamente il dio degli ebrei. È allora che si vede apparire una mano che scrive sul muro della reggia queste tre parole: «Mene, Tekel, Phares». Davanti all’incapacità dei maghi di Baldassarre a interpretare questi segni egli fa venire Daniele, che vi legge la fine imminente del re così come il passaggio del suo regno ai Medi e ai Persian. Nitocri invita il figlio al pentimento. Ciro ringrazia Dio per il successo della sua invasione e ingiunge alle sue truppe di evitare ogni massacro. I persiani rendono omaggio al loro sovrano illuminato. Atto terzo. Nitocri in alternanza i suoi timori e le sue speranze di vedere il figlio pentito. L’annuncio dell’arrivo di Ciro rende euforici gli ebrei che celebrano la vittoria. Nel frattempo Baldassarre continua il suo festino blasfemo. Nella scena finale si viene a sapere che Baldassarre e i suoi uomini sono stati uccisi. Ciro dichiara la fine dei combattimenti e offre la sua protezione al popolo babilonese. Daniele mostra a Ciro la profezia di Isaia e gli chiede di completarne la realizzazione. Ciro giura di ricostruire la città e il tempio di Gerusalemme e di lasciar partire gli ebrei per la loro terra natale. L’oratorio termina con un coro di lode.

Caduto presto in oblio, il lavoro di Händel è stato ripreso solo un secolo dopo in Inghilterra, mentre ora è sempre più spesso eseguito sia in forma oratoriale che scenica, come avviene con questo Belshazzar prodotto originariamente alla Staatsoper di Berlino e approdato con immenso successo al Festival di Aix-en-Provence nel 2008.

Con la suggestiva scena minimalista di Roland Aeschlimann, il regista Christof Nel costruisce uno spettacolo memorabile in cui ogni particolare ha un significato preciso. L’inesauribile cornucopia di tesori musicali del lavoro è resa al meglio dall’orchestra dell’Akademie für Alte Musik con i suoi strumenti antichi e la direzione attentissima e ispirata di René Jacobs. Il direttore belga si prende alcune libertà con lo spartito händeliano, come quando utilizza solisti per alcune parti del coro, ma gli è concesso tutto vista la sua immensa competenza con questa musica e poi dal punto di visto della rappresentazione è più che giustificato. In scena non si possono immaginare interpreti migliori: il tenore Kenneth Tarver è lo stralunato re blasfemo, Rosemary Joshua dipana con eccelso stile le arie della regina, il magnifico controtenore Bejun Mehta è l’ispirato Ciro, Neal Davies rifulge nella piccola ma preziosa parte di Gobria. Forse per salvare la verità scenica si sarebbe preferito anche per Daniele un controtenore, anche se il mezzosoprano Kristina Hammarström  en travesti è eccellente. Il coro si alterna nelle parti degli ebrei,  dei babilonesi e dell’esercito di Ciro e qui il RIAS Kammerchor non ha eguali per superlativa proprietà vocale e straordinaria presenza scenica. Un altro degli elementi che hanno portato al trionfo della serata.

La regia video di Don Kent coglie al meglio le immagini dello spettacolo.

NEMZETI SZÍNHÁZ

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Nemzeti Színház

Szeget (1883)

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Il Teatro Nazionale di Szeged (Szegedi Nemzeti Színház) fu costruito con i fondi raccolti nel 1878 dall’Associazione Teatrale della città ungherese la cui popolazione era notevolmente aumentata in quel periodo. La disastrosa alluvione che seguì favorì la ricostruzione che proseguì celermente e il teatro fu inaugurato il 14 ottobre 1883 alla presenza dell’Imperatore Franz Joseph I.

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Lo stile era un eclettico neo-barocco e gli scenari arrivarono dal Ring Theater di Vienna che era andato bruciato. Stessa sorte tocca al nuovo teatro che soli 18 mesi dopo è preda di un incendio. La ricostruzione però è rapida e il 2 ottobre 1886 il teatro riapre molto simile all’originale. Cent’anni dopo il Teatro Nazionale sarà di nuovo temporaneamente chiuso per restauri per adeguarlo alle moderne richieste di sicurezza.

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Káťa Kabanová

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Leoš Janáček, Katia Kabanova

★★★★★

 Turin, Teatro Regio, 15 February 2017

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Janáček’s “Russian” opera in Robert Carsen’s imaginative production

This was the first performance in Turin of Janáček’s sublime tragedy of guilt, a musical milestone of the 20th-century music for the stage and one of his most passionate scores. Originally conceived by Robert Carsen for the Vlaamse Opera, this production of Káťa Kabanová now arrives at Teatro Regio, the second chapter of Carsen’s Janáček project including five of the best-known works of the great Moravian composer.

The plot, based on Alexander Ostrovsky’s The Storm, is set in a Russian village, on the banks of the Volga. As in Jenůfa…

continues on bachtrack.com

Káťa Kabanová

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Leoš Janáček, Káťa Kabanová

★★★★★

Torino, Teatro Regio 15 febbraio 2017

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L’opera “russa” di Janáček nell’ispirata messa in scena acquea di Carsen

Prima esecuzione a Torino di questa «sublime tragedia della colpa», pietra miliare dell’opera del Novecento e una delle pagine più intense di Leoš Janáček. Concepito originariamente da Robert Carsen per l’Opera delle Fiandre, questo allestimento di Káťa Kabanová arriva ora al Regio come seconda puntata del progetto di allestimento dei cinque lavori più conosciuti del grande musicista moravo da parte del regista canadese.

La vicenda, tratta dalla pièce teatrale Uragano di Aleksandr Nikolaevič Ostrovskij, è ambientata in un villaggio russo sulle rive del fiume Volga. Come in Jenůfa, anche in questo ristretto ambiente rurale sono tutti più o meno imparentati o comunque si conoscono: Marfa Ignatěvna Kabanová, detta Kabanicha, vedova di un ricco mercante, ha un figlio, Tichon, sposato a Káťa, e una figlia adottiva, Varvara, ragazza spensierata e indipendente che flirta con il maestro Kudrjáš. Kabanicha ha un equivoco rapporto con il mercante Dikój, il quale fa di tutto per vessare il nipote Boris, innamorato corrisposto di Káťa.

L’ambiente opprimente e bigotto del villaggio è l’origine dei drammi delle anime semplici e sensibili come quelle di Káťa, qui sconvolta dal senso di colpa per l’adulterio. Delle tre coppie su cui verte il dramma, una si salva fuggendo lontano (Varvara e Kudriaš si rifugiano a Mosca), una si spezza (Boris è mandato in Siberia dallo zio e Káťa si getta nel fiume), la terza, quella dei vecchi despoti Kabanicha e Dikój, sopravviverà, spassandosela forse ancora meglio di prima.

Il peculiare stile del compositore è perfettamente riconoscibile fin dalle prime battute di questa sua sesta opera con il moderato del preludio e quei sommessi otto fatali colpi di timpano che scandiscono le sillabe del nome (Ka-tě-ri-na Ka-ba-no-vá), motto che ritornerà altre cinquanta volte nel corso dell’opera. Così come nella straordinaria concisione del finale, in cui in pochi minuti avviene tutto quanto: l’addio all’amato di Káťa, il suo gettarsi nel fiume, il grido di aiuto di un passante, l’annegamento, l’arrivo della gente del villaggio, il recupero del cadavere, il riconoscimento, l’accusa di Tichon alla madre («Voi l’avete uccisa! Voi l’avete ammazzata!»), la sua cinica frase («Grazie, brava gente, vi ringrazio per il vostro aiuto!») e il “sospiro del Volga” conclusivo.

Nella stupenda messa in scena di Carsen, ripresa a Torino da Maria Lamont, le acque del fiume sono presenti fin dall’alzarsi del sipario: il palcoscenico è trasformato in uno specchio d’acqua in cui “annegano” le molteplici copie di Káťa nel loro vestito bianco. Le stesse figuranti sposteranno le passerelle di legno per creare di volta in volta i diversi ambienti: la riva da cui Kudriaš pesca nel primo quadro; la camera dei Kabanov; il giardino e la sponda del fiume in cui si consuma il sofferto adulterio nel secondo quadro; le passerelle parallele in cui i disperati amanti si danno l’ultimo addio senza neanche potersi avvicinare nel terzo.

Nella scenografia di Patrick Kinmoth uno specchio riflette quanto avviene sulla superficie dell’acqua, le increspature, gli spruzzi durante lo scatenarsi del temporale. Particolarmente toccante è la realizzazione della scena d’addio dei due amanti. Separati da un immobile specchio d’acqua, Boris è solo un’ombra nera sull’altra sponda. Piano piano la luce aumenta (il gioco luci, di Carsen stesso e di Peter Van Praet, raggiunge in questa produzione l’assoluta perfezione) e si distinguono le fattezze di Boris, sempre irraggiungibile. Káťa tocca la superficie dell’acqua e l’increspatura si allarga come un cerchio fino a raggiungere l’amato. Anche la gente del villaggio che assiste al ritrovamento del corpo è un insieme di nere silhouette che si allontanano poi frettolosamente e in scena rimangono soli Tichon e Kabanicha: il figlio guarda con orrore la madre e se ne va, forse per sempre, chissà. La donna rimane ancora un istante a contemplare con freddezza il cadavere della ragazza, si riaggiusta ancora una volta i capelli con un gesto civettuolo ed esce anche lei con passo deciso dall’altra parte. La personregie si dimostra qui un altro dei punti di forza degli allestimenti di Carsen, ancora più essenziale in questo dramma di Janáček fatto di innumerevoli sottigliezze psicologiche.

Le terse sonorità di questa musica sono affidate alle esperte e sensibili mani del maestro Marco Angius, interprete tra i più qualificati del repertorio novecentesco. I drammatici silenzi, le trasognate e celestiali pagine, gli scoppi della natura ostile sono resi alla perfezione dall’orchestra del teatro mentre in scena c’è una compagnia di cantanti eccellenti, per la maggior parte molto opportunamente di madre lingua ceca per poter rendere al meglio lo stile conversativo del canto janačekiano.

La giovane Andrea Danková è una Káťa intensamente sofferta dalla bella vocalità cui manca poco per rendere il suo personaggio teatralmente ancora più memorabile. Cosa che riesce invece a Rebecca de Pont Davies che delinea una Kabanicha gelida e cinica mentre Lena Belkina è una Varvara di calda vocalità. I tre personaggi maschili declinano efficacemente i diversi caratteri: il sonoro Štefan Margita è l’imbelle Tichon, Misha Didyk è un Boris di bella voce e Oliver Zwarg autorevole e dispotico Dikoj.

Gli insistenti e prolungati applausi finali hanno dimostrato l’apprezzamento del pubblico per il bellissimo spettacolo.

Madama Butterfly

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Giacomo Puccini, Madama Butterfly

★★★☆☆

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 8 febbraio 2017

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Pinkerton e la Madama volante

La compagnia danese Hotel Proforma si definisce “laboratorio internazionale di installazioni performative video musicali”. Nata nel 1987, i suoi progetti hanno avuto come oggetto l’opera lirica solo recentemente: Wagner (Parsifal nel 2013 e Rienzi nel 2014), Rachmaninov (Aleko, Il cavaliere avaro e Francesca da Rimini nel 2015) e ora Puccini.

Madama Butterfly mancava da quarant’anni a Bruxelles e ora ci è ritornata, sdoppiata. Nella regia di Kirsten Dehlholm, infatti, la cantante che interpreta Cio-Cio-San è al lato della scena con i capelli bianchi, che nella tradizione giapponese denotano i fantasmi, mentre al centro del palcoscenico c’è una marionetta a grandezza naturale con lo stesso vestito e manipolata a vista da operatori in nero, come nel teatro bunraku giapponese. All’alzarsi del sipario il “fantasma” di Butterfly entra in scena e veste il suo kimono mettendosi di lato nel proscenio a raccontarci la sua tragica vicenda. Fin da subito appare in scena la sposa vera, quella americana. Giunge poi la sposa giapponese, la marionetta, che nei momenti più lirici si libra in aria come i guerrieri volanti dei fumetti giapponesi, con un effetto che qui però è al limite del ridicolo. Di certo è difficile far sentire la passione tra un essere in carne e ossa e un pupazzo, per quanto ben manipolato, mentre fuori scena una vecchia ne canta la parte rivivendola come in un flashback. La dissociazione tra voce e azione è sempre rischiosa e il pubblico finisce per trovare più interessante guardare la cantante invece della pupazza, cosa che non credo fosse nelle intenzioni originali.

Senza dubbio c’era da aspettarsi che le inedite scelte visive fossero l’aspetto più rilevante di questa produzione. Qui l’idea di partenza della marionetta, reiterata per tutti i tre atti, indebolisce irreparabilmente il pathos della vicenda. Probabilmente era questo l’intendimento della regista, ma al suo posto il konzept non prevede nient’altro che lo sostituisca e il risultato è uno spettacolo che non si scosta dall’immagine tradizionale che abbiamo della celeberrima “tragedia giapponese”.

I tre atti dell’opera vengono qui divisi in due tempi dall’aria di Butterfly «Un bel dì vedremo», che viene ripresa all’inizio del secondo tempo. Quindi è cantata due volte: sono passati tre anni, ma la protagonista continua a sperare nel ritorno dell’americano e sul fondo un enorme pendolo scandisce ossessivamente il tempo. Solo per un momento Cio-Cio-San ritorna al centro della scena davanti a uno schermo bianco che poi strappa con il coltello rituale.

Costumi molto fantasiosi: i parenti di Butterfly sembrano marionette di Depero vestite di origami; lo zio bonzo un esploratore antartico mezzo ibernato; Sharpless è un Klingsor con i capelli lunghi, la barba e, chissà perché, monco – forse la sua impotenza nella vicenda? Il bambino di Butterfly è anche lui un pupazzo inquietante che si gonfia a dismisura nel finale. Altro momento surreale è la pioggia di pettirossi morti stecchiti al colpo di cannone della nave di Pinkerton, qui una gigantesca nave da crociera che fa manovra nel porto ed è vista attraverso le lenti di un binocolo durante il coro a bocca chiusa, reso ahimè maluccio con suoni dall’intonazione vagante.

L’interprete titolare Alexia Voulgaridou è giustamente intensa, ma con alcune note afone. Marcelo Puente è un Pinkerton di bell’aspetto ma impacciato e vocalmente deludente mentre Sharpless dall’intonazione incerta è quello di Aris Argiris. La dizione non è il punto di forza degli altri interpreti, soprattutto di Ning Liang, pur notevole Suzuki.

Il pathos latitante in scena non manca invece nella buca orchestrale dove il bravissimo Roberto Rizzi Brignoli dirige con tempi e colori sempre appropriati.

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Vita

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Marco Tutino, Vita

Direzione musicale di Giuseppe Grazioli

regia di Giorgio Gallione

11 maggio 2003, Piccolo Teatro, Milano

Contrariamente al titolo, il soggetto dell’opera di Tutino è la morte. Prima quella studiata da Victoria Bearing, detta Vita, professoressa e studiosa della poesia inglese del XVII secolo e di John Donne in particolare, e poi quella vissuta su sé stessa, quando le diagnosticano un tumore maligno. Non quindi una morte da opera lirica, che è sempre qualcosa di eroico o di patetico, ma una morte ordinaria, cui ci condanna un morbo inguaribile. Tra cicli di chemioterapia e i versi del poeta inglese  («And death shall be no more; death, thou shall die»), assistiamo alle ultime settimane di vita della protagonista con medici, infermiere e la presenza rassicurante del poeta stesso.

Il libretto di Patrizia Valduga è tratto dalla commedia Wit di Margaret Edson. «Soggetto davvero insolito per me. Ancora oggi non so perché mi attrasse così fortemente, pur non presentando nessuno degli aspetti che fino ad allora avevo scelto, tutti con caratteristiche simili, costanti ben definite. Wit non conteneva personaggi iconici, non c’era una storia d’amore o di passione, nessun sentimento forte come l’odio, la gelosia, la vendetta. C’è invece una coltissima, arguta, raffinata studiosa della poesia del Seicento […] che per quanto avesse passato la vita ad analizzare ogni verbo, ogni accento, ogni concetto di quella arguta produzione poetica dedicata alla morte, ebbene, di fronte alla vera morte, la sua, si sentiva improvvisamente incolta e disarmata, incapace come chiunque […] di affrontarla, e soprattutto di comprenderne il senso. Perché non ce l’ha. E quindi le nostre speculazioni intellettuali, il nostro riflettere e analizzare e tentare di giustificare la vita e la morte, servono non a scoprire quale sia la vera ragione che ci conduce nel e ci toglie dal mondo, ma a simulare nel medesimo atto del pensiero questa ragione, ed evocare così quel senso che in effetti manca. […] Questa tematica era perfetta per un’opera barocca» (Marco Tutino, Il mestiere dell’aria che vibra).

E dell’opera barocca il suo lavoro ha la struttura con pezzi chiusi, corali, arie e ariosi, canzoni, quartetti madrigalistici, fugati strumentali. Ma Tutino non rinuncia alla contaminazione introducendo un sarcastico valzer concertato su un testo come questo: «Per diagnosi tardiva | degenza a stadio quattro | Vinplatin, esametil | a trecento emmegi! […] Sospettiamo metastasi | nel perineale, | qui, qui e qui. | Complicanze linfatiche.»!

In rete è disponibile la registrazione di una produzione ungherese del 2009 al teatro dell’opera di Szeged.