∙
Richard Wagner, Tannhäuser
Venezia, Teatro La Fenice, 28 gennaio 2017
(video streaming)
L’intenso Wagner di Bieito
Chi ci crede più a Wagner? Certi aspetti del suo teatro sembrano irrimediabilmente datati, altri invece offrono spunti tremendamente attuali e un regista di oggi non può fare a meno di puntare su quanto possa ancora dire alla nostra attualità. Gli scrupoli di Tannhäuser, combattuto tra l’amore sensuale e quello spirituale, e il miracolo del bastone papale che germoglia hanno ben poca presa sulla nostra cinica e disincantata modernità, ma Calixto Bieito riesce a scovare nella vicenda spunti di riflessione ancora attuali a oltre centosettant’anni dalla prima dell’opera. Era successo col suo Parsifal, si ripete ora con questo Tannhäuser. Con il primo atto nella versione di Parigi (1861, riscritto quindi dopo il Tristano) e gli altri due nella prima edizione di Dresda (1845), questa produzione arriva a Venezia dopo Anversa, dove si avvaleva di un cast superiore, diciamolo subito.
Venere e Elisabetta sono molto simili qui, entrambe in négligé di raso nero: non è tanto il conflitto tra le due sensualità a interessare il regista spagnolo, quanto quello tra natura e cultura, il desiderio erotico e il suo controllo sociale, l’istinto e il rigido mondo civile con le sue ferree regole.
Ambienti ben distinti quindi sono quelli ideati dalla scenografa Rebecca Ringst: il Venusberg è una foresta rotante in cui domina l’oscurità e gli alberi crescono al contrario, dall’alto verso il basso. La Wartburg è invece una struttura rigidamente geometrica illuminata dai fasci radenti del bel gioco di luci di Michael Bauer. Nel quadro finale riprende il sopravvento la natura, o meglio il degrado, soffocando i bianchi piloni dell’edificio mentre Elisabetta impazzisce riducendosi a uno stato quasi ferino.
Né Medioevo, né Ottocento nella messa in scena di Bieito, bensì una spietata contemporaneità, in cui le battute dei protagonisti acquistano spesso una dimensione inquietante. Chiaramente oggetto di condanna da parte del regista è l’ipocrisia, quella dei cantori che abusano sessualmente di Elisabetta, ma poi fustigano sadicamente il cantore dell’amore sensuale con i rami della foresta del primo atto.
La dimensione romantica e quella religiosa sono assenti, non appaiono in questa lettura: il coro dei pellegrini è sempre lontano, invisibile. Solo alla fine si presenta in scena, ma più che penitenti sembrano una schiera di anime dannate venute a implorare – da chi? – una impossibile grazia. Lo spettacolo ha una sua grande coerenza e anche se non tutto è condivisibile, ha però un’innegabile forza teatrale, che d’altronde raramente difetta negli allestimenti del regista di Burgos.
Omer Meir Wellber dirige un’orchestra che da vent’anni non suonava quest’opera. Dinamiche e colori sono esatti, gli slanci lirici razionali, meditati. Il tenore americano Paul McNamara ha sostituito, sembra senza farlo rimpiangere, il Tannhäuser titolare riuscendo a delineare efficacemente il personaggio. Aušrinė Stundytė è una sensuale e appassionata Venere dalla dizione a tratti indecifrabile. Elisabetta è anche lei molto terrena nella lettura di Bieito e trova in Liene Kinča un’interprete duttile e intensa. Culmine della serata è però Christoph Pohl (Wolfram von Eschenbach). Con lui si raggiunge un momento di straniante lirismo quando, in un’atmosfera da The day after, porge «O du, mein holder Abendstern» in maniera indicibilmente toccante. Ma il baritono tedesco si era già fatto notare prima per eleganza e nobiltà. Di livello inferiore il Langravio di Pavlo Balakin, debole nel registro basso e dall’intonazione incerta. Neppure il coro è risultato esente da qualche sbandamento, ma si è riscattato col suo intervento nell’ultima scena.
⸪