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Giacomo Meyerbeer, Le prophète
★★★☆☆
Tolosa, Théâtre du Capitole, 2 luglio 2017
(live streaming)
Ritorna sulle scene un’opera tanto celebrata quanto misconosciuta
Nel 1839 Meyerbeer aveva iniziato la sua nuova composizione che seguiva Les Huguenots, ma dovranno passare ancora dieci anni perché l’opera venisse presentata trionfalmente alla Salle le Peletier il 16 aprile 1849 davanti a un pubblico tra cui si notavano Verdi, Chopin, Delacroix e Berlioz, per citarne solo alcuni.
Le prophète rappresentava l’apogeo della fama del compositore. Cast stellare quello della prima: la Berthe di Jeanne-Anaïs Castellan, la Fidès di Pauline Viardot, lo Zacharie di Nicolas-Prosper Levasseur. Gustave-Hippolyte Roger copriva il ruolo titolare per il quale si era pensato in un primo momento al Duprez, i cui mezzi vocali erano però all’epoca un po’ affaticati.
Il soggetto era tratto da un fatto realmente accaduto: la presa della città di Münster, nel 1534, da parte di un gruppo di anabattisti provenienti dai Paesi Bassi, guidati dal sarto di Leida Jan Beuckelsz. Saranno sconfitti, dopo un lungo assedio, dalle truppe luterane e cattoliche coalizzate. La vicenda venne ampiamente romanzata nel libretto di Scribe e Déchamps.
Atto primo. Olanda, presso Dordrecht. La giovane orfanella Berthe aspetta felice il ritorno del suo amato Jean de Leyden. Assieme alla madre di lui, Fidès, si reca dal conte d’Oberthal, suo signore, per chiedergli di lasciarla partire per sposarsi con Jean. Arrivano al villaggio tre anabattisti, Zacharie, Jonas e Mathisen: promettendo ai contadini libertà, potere e ricchezza, cercano di incitarli a ribellarsi ai loro feudatari. Inizialmente i contadini sembrano convinti, ma l’arrivo del conte li fa tornare immediatamente sottomessi. Gli anabattisti vengono portati via dai soldati. Berthe e Fidès fanno la loro richiesta al conte, ma questi oppone un rifiuto: la popolazione si indigna a questa dimostrazione di crudeltà gratuita, ma, quando il conte dà ordine di arrestare le due donne, non può far nulla per impedirlo. Si ode di nuovo, sinistro, il canto degli anabattisti.
Atto secondo. In una locanda nei sobborghi di Leida. Jean attende preoccupato il ritorno della madre. Giungono anche i tre anabattisti: costoro, al vederlo, notano subito la sua incredibile somiglianza con l’immagine del re Davide venerata a Münster. Il ragazzo allora racconta loro di un sogno misterioso, interpretato dagli anabattisti come una profezia del suo futuro regno. Improvvisamente arriva Berthe, che è riuscita a fuggire, ma è inseguita dalle truppe del conte. Fidès, invece, è ancora prigioniera. Jean aiuta la fidanzata a nascondersi. Arriva il conte e, messo da questi di fronte alla scelta se salvare lei o la madre, Jean decide di far liberare quest’ultima. Tuttavia, quest’ultimo sopruso del nobile lo spinge a unirsi agli anabattisti nel loro viaggio per la Germania come profeta eletto da Dio.
Atto terzo. Nell’accampamento degli anabattisti, in una foresta della Vestfalia. I soldati, tornati dalla battaglia con un bottino di ricchi prigionieri, raccolgono vettovaglie e festeggiano. Fra i prigionieri c’è il conte, catturato mentre si dirigeva a Münster, ma nessuno conosce la sua identità. Per aver salva la vita, finge di volersi unire agli anabattisti, ma per farlo dovrà giurare di uccidere suo padre, governatore della città. Qualcuno però lo riconosce, e il conte viene condannato a morte. Jean però si oppone, perché il conte gli ha rivelato che Berthe e Fidès si trovano a Münster, e Jean teme che, per ritorsione, possano essere uccise. Decide di graziare il conte e invoca il sostegno di Dio per conquistare la città. Esaltati dalle sue parole, soldati e popolo marciano alla volta di Münster.
Atto quarto. Münster. La città è stata conquistata ed è ormai governata dagli anabattisti. Fidès, che si è ridotta a mendicare e non sa che il profeta-guida degli invasori è suo figlio, incontra Berthe, e le racconta di aver appreso che Jean è morto, proprio a causa del profeta: le due donne giurano di vendicarsi contro quel folle. Nella cattedrale, intanto, Jean viene incoronato re. A questo punto, Fidès lo riconosce, e dichiara di essere sua madre. Per gli anabattisti quella è una bestemmia in quanto il profeta non è stato generato da donna! La madre allora, spaventata, ritratta quanto ha appena detto e teme che Berthe sia ancora intenzionata a uccidere il profeta.
Atto quinto. L’imperatore Carlo V, alla testa del suo esercito, sta marciando verso Münster per riprendere la città: gli anabattisti decidono di consegnare Jean come capro espiatorio. Jean si reca nella cella dove si trova la madre, che lo perdona. Arriva anche Berthe, che scopre in quel momento che il misterioso profeta è Jean. La giovane non riesce a perdonargli le atrocità di cui si è macchiato e si suicida, trafiggendosi con un pugnale. In un salone del palazzo, gli anabattisti ipocritamente festeggiano il loro re profeta, sapendo benissimo che di lì a poco lo tradiranno. Jean però ha in serbo una vendetta: mentre il conte, alla guida dei suoi soldati, irrompe nella sala, una tremenda esplosione da lui preparata devasta la scena; la morte ricongiunge Fidès e suo figlio.
«La vasta partitura di Meyerbeer sembra mirare verso diverse direzioni della drammaturgia musicale ottocentesca. Eminente è senz’altro la capacità di creare occasioni drammatiche di estrema tensione, paragonabili talvolta a quelle del Don Carlos di Verdi (anch’esso un grand opéra di ispirazione storico-religiosa). Particolarmente imponente è il secondo quadro del quarto atto, dedicato alla cerimonia dell’incoronazione nella cattedrale di Münster. Meyerbeer riesce a collegare armonicamente il dramma personale di Fidès, che sta perdendo il figlio attratto nel vortice del suo delirio mistico di potere, e la grandiosità corale della scena: come dire i due volti del grand opéra, il dramma psicologico-borghese e l’apparato storico-spettacolare. Fidès pronuncia le sue violente maledizioni contro l’ignoto re profeta con inflessioni da contralto drammatico verdiano, interagendo con il coro che canta in latino dietro le quinte e con l’organo che l’accompagna. A seguire, durante la scenografica processione, si odono un coro di voci bianche e uno di donne, con due bambini solisti, che su uno sfondo orchestrale dalle straordinarie sonorità eteree (viene da pensare al Fauré del Requiem), intonano quel tema dell’incoronazione già anticipato nel secondo atto, e ora ripreso dall’orchestra e da tutto il coro per salutare l’Eletto del Signore. Il riconoscimento del figlio da parte di Fidès avviene durante un concertato di grande bellezza, cui segue il dialogo tra Jean e la madre; la tensione emotiva vi è suscitata architettando con cura meticolosa il dettaglio quanto l’effetto complessivo. Jean, mentre interroga Fidès, si esprime con una linea di canto a valori lunghi, simbolo di quella solennità propria del suo titolo; l’orchestra nel contempo si incarica di comunicare la drammaticità della situazione, in cui è in gioco la vita di entrambi i congiunti. Da tanta tensione scaturisce la dichiarazione di Fidès, prima repressa (gesto discendente), quindi sicura (gesto ascendente), che smentisce le sue dichiarazioni imprudenti, provocando l’esplosione della gioia popolare, in un clima da miracolo in cui ricompare l’inno religioso che aveva aperto la scena (rimarchevoli le molte analogie con il secondo quadro del terzo atto di Don Carlos). In termini più esteriori, ma sostenuta dalla grandiosità del progetto scenografico, la spettacolarità dell’opera avrà il suo culmine nella conclusione, con quella distruzione del palazzo tra le fiamme che dovette impegnare non poco gli ingegneri dell’Opéra. La raffinatezza dell’architettura musicale è rilevabile anche nel ricorrere di diversi temi da un capo all’altro dell’opera. Così, all’apparire di Fidès all’inizio del quinto atto, l’orchestra si appropria della frase melodica con cui la donna aveva rinnegato Jean nel quadro precedente; analogamente, il tema del coro di voci bianche era stato anticipato dall’orchestra, quale profezia dell’incoronazione, durante la narrazione del sogno premonitore di Jean nel primo atto. Ma l’esempio più evidente di ricomparsa ciclica di un tema è il corale degli anabattisti ‘Ad nos, ad salutarem undam’, un invito a ritornare all’acqua salvifica del battesimo, che ricorre con impressionante frequenza negli snodi della vicenda, evocazione sinistra di un pericolo incombente, quasi sigillo musicale del fanatismo. Soprattutto, Meyerbeer si rivela qui uno dei massimi maestri nell’orchestrazione, talvolta accostabile a quella di Berlioz o anche di Musorgskij (intermezzo tra quarto e quinto atto), o addirittura arcaicizzante, spingendosi a momenti mozartiani (terzo atto, subito prima del riconoscimento di Oberthal). Lo spiegamento di mezzi non ha nulla da invidiare a Berlioz: tredici legni, dodici ottoni, sei diversi tipi di percussioni, arpa, organo, archi e, sulla scena, due tamburi militari e ventidue ottoni, tra cui diciotto singolari saxhorn (brevettati quattro anni prima). Tra i momenti memorabili, il già citato sogno di Jean, che evoca la sfera del sacro attraverso gli arcani arabeschi dei violini nel registro acuto, coadiuvati dal timbro caldo dei flauti. Tra i personaggi segnaliamo ancora il terzetto degli anabattisti, impiegato in ensembles dalla vivacità talvolta comica; Berthe, incline al virtuosismo sin dall’inizio dell’opera, con tratti che avranno fatto la gioia di Gounod; infine Fidès, senz’altro il personaggio più importante dell’opera, un contralto drammatico dall’enorme peso nella partitura (sue sono molte delle pagine più belle) e che già tende verso Carmen, di cui condivide l’assolutezza irrefrenabile della passione. In questo caso si tratta naturalmente di amore materno, una sorta di contraltare dei molti padri verdiani, amore di fronte al quale Jean è persino disposto a rinunciare all’amata». (Raffaele Mellace)
Oltre 500 furono le rappresentazioni prima della fine del secolo e la popolarità dell’opera è testimoniata dalle quasi 150 tra trascrizioni, variazioni e parafrasi scritte dai più celebri compositori. Uno fra tutti Franz Liszt, la cui monumentale Fantasia e Fuga per organo sul corale del primo atto sarà trascritta per pianoforte da Busoni nel 1897. Grande fu l’influenza di quest’opera tanto celebrata: senza Le prophète chissà se sarebbero state le stesse Don Carlos o Aida. E chissà, forse Wagner non sarebbe stato così antisemita senza il successo del concorrente ebreo…
Dopo la Grande Guerra l’opera venne trascurata per poi rinascere con la voce di Marilyn Horne negli anni ’70. Ora, a pochi mesi da una produzione dell’opera di Essen, a Tolosa viene presentato questo allestimento di Stefano Vizioli che ha fatto storcere un po’ il naso alla critica francese. Il regista costruisce un ambiente scuro e opprimente che contrasta con il sereno primo atto immerso tra i campi di grano. La trasposizione dall’epoca medievale al 1848 è in sintonia con lo spirito del tempo ancora scosso dalle teorie socialisteggianti del Saint-Simon: il conte d’Oberthal sul suo cavallo di cartone è il prototipo del nobile parassita rimesso sul trono dalla Restaurazione e il falso Profeta è il bersaglio polemico per quell’altra classe di “oziosi”, i religiosi. Ma al regista viene imputato di non aver inteso veramente la complessità dell’opera con trovate non sempre convincenti quali l’atmosfera orgiastica del palazzo di Münster. Efficaci comunque le scenografie di Alessandro Ciammarughi realizzate con mezzi limitati come il tripudio di candele che illuminano con suggestione una cattedrale cui manca però la profondità. La stessa profondità spaziale manca nel finale risolto con una linea di fiamme limitata al tavolo dietro cui si immolano madre e figlio.
Nessun disaccordo invece sulla componente musicale. Claus Peter Flor alla testa dell’orchestra del teatro è giustamente teatralmente drammatico, ma non eccede con gli effetti ed è sempre rispettoso delle voci in scena. E quali voci! John Osborn riprende il ruolo lasciato da poco e non esistono passaggi di forza o acuti che lo mettano in difficoltà, pianissimi e colori si succedono con naturalezza ed eleganza nella sua memorabile interpretazione. Con Fidès si inaugurava la serie dei grandi mezzosoprani drammatici verdiani: Azucena, Eboli, Amneris. Qui Kate Aldrich, forse troppo giovane per essere la madre di Jean, sfodera un temperamento notevole e i registri con cui si sviluppa la sua vocalità vengono affrontati con grande facilità. La sua è una prova maiuscola. Anche la Berthe di Sofia Fomina si impone in scena con la purezza e la sicurezza di una voce di cristallo solido e luminoso. Il ruolo semiserio dei tre ipocriti anabattisti, che si ritroverà nei Ping, Pang e Pong della Turandot di Puccini, è affidato a un autorevole Dmitrij Ivaščenko (Zacharie), a Mikeldi Atxalandabaso (Jonas) e a Thomas Dear (Mathisen). Incerto tra il grottesco e il drammatico il Conte d’Oberthal di Leonardo Estévez, per di più con seri problemi di intonazione. Vocalmente pregevoli i cori impegnati incessantemente in questo grand opéra. Deludente la coreografia di Pierluigi Vanelli che risolve in maniera banale i ballabili dei pattinatori.
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