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Umberto Giordano, Andrea Chénier
★★★★☆
Londra, Royal Opera House, 29 gennaio 2015
(live streaming)
Al cinema con Kaufmann
L’opera di Giordano ha quattro personaggi principali: Andrea Chénier, Maddalena di Coigny, Carlo Gérard e… l’orchestra. Drammaticamente enfatica e sempre alla ricerca dell’effetto, più che sottolineare la psicologia dei personaggi illustra l’azione scenica amplificandola in maniera magniloquente, ma che magnificenza di suono quando è nelle mani giuste! E qui al Covent Garden le mani sono quelle di Antonio Pappano che non lesina nell’impatto di una musica reboante (il maestro anglo-italiano usa il termine ‘bombastic’) che ha senso solo se suonata a tutto volume. Ma è un’opera anche di silenzi, come quando l’orchestra tace e fuori scena qualcuno canticchia La Carmagnole o La Marseillaise.
Andrea Chénier si basa sulla generosità vocale del protagonista e solo grandi interpreti si sono cimentati nella parte: da Gigli a Del Monaco, da Corelli a Bergonzi, da Domingo a Pavarotti. Nell’allestimento della Royal Opera House di Londra abbiamo l’idolo del momento, Jonas Kaufmann, debuttante nel ruolo. Diverso da tutti gli altri, con la sua voce scura, la perfetta intonazione, la luminosità degli acuti, la musicalità e la presenza scenica (poeta romantico da manuale di iconografia) non ha fatto rimpiangere lo squillo dei suoi predecessori, quasi tutti tenori italiani.
Olandese è Eva-Maria Westbroek, sensibile e vocalmente generosa, anche lei grande attrice ha saputo tener testa al tenore e nei duetti tra i due è scoccata la scintilla che rende questa musica così appassionata.
Želiko Lučić non parte bene, ma poi il suo Gérard si delinea sempre meglio anche se forse avrei preferito più colori nella voce e meno espressioni nel volto. Il cantante serbo è festeggiato con molto calore dal pubblico londinese.
Tra i comprimari si fa notare l’Incredibile di Carlo Bosi mentre Elena Zilio riesce ancora a farci commuovere, dopo tanto tempo, col suo perfetto cameo di Madelon.
E veniamo alla regia. Il caso di Sir David McVicar dimostra ancora una volta come più che di regie vecchie in contrapposizione a regie moderne si debba parlare di regie belle contro regie brutte. E se è necessario si possono anche cambiare le coordinate spazio-temporali del libretto (come McVicar fa nella sua inquietante Salome “Salò-Sade” o nel geniale Giulio Cesare) o solo quelle temporali (come nel Trovatore o nel Faust) oppure né le une né le altre (ed è il caso di Manon o Adriana Lecouvreur). L’importante è che il Konzept sia coerente e il lavoro sugli attori/cantanti sia di qualità (non a caso McVicar nasce attore), come succede anche stavolta in questo Andrea Chénier. Quasi filologico negli abiti di Jenny Tiramani (tutti perfetti, da manuale di storia del costume quelli delle merveilleuses) e nelle scenografie di Robert Jones che trasformano il dorato padiglione rococo del primo atto nel realistico caffè del secondo, poi nell’austero tribunale del terzo e infine nella squallida prigione dell’ultimo con pochi intelligenti cambiamenti. E poi i particolari: il libro sequestrato a Gérard («Quel Gérard! L’ha rovinato il leggere!», dirà la contessa), le penne per scrivere nei calamai giusti, le tricoteuses del tribunale, il sipario con la bandiera tricolore imbrattata di sangue e la frase con cui Robespierre condanna Chénier: «Anche Platone ha bandito i poeti dalla sua Repubblica». E infine quella meravigliosa luce delle candele, un’infinità di candele vere.
Da dimenticare invece lo stucchevole pas de deux del primo atto. Il coreografo Andrew George in McVicar dovrebbe poi sapere che a fine ‘700 non si ballava ancora sulle punte!
⸪