Mese: aprile 2017

Delitto alla Scala

 

Franco Pulcini, Delitto alla Scala

2016 Ponte alle Grazie, 419 pagine

La fiction italiana si arricchisce di un nuovo investigatore: dopo il Salvo Montalbano di Andrea Camilleri, il più recente Bruno Jordan di Massimo Polidoro e molti altri – per non parlare dei pensionati del Bar Lume di Marco Malvaldi – arriva in libreria l’inchiesta dell’ispettore Abdul Calì, un siculo-tunisino che deve risolvere l’enigma con morto che pregiudica la prima della Scala di un futuro 7 dicembre.

Franco Pulcini (1952, Torino), dopo la laurea conseguita con Massimo Mila e Giorgio Pestelli, è stato critico musicale dell’Unità, ha collaborato alla RAI e a varie riviste musicali ed è insegnante di Storia della Musica al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Autore tra gli altri di importanti saggi su Janáček, di cui è stato il primo esegeta italiano, e Šostakovič (entrambi pubblicati dalla EDT) Pulcini non è nuovo al genere narrativo anche se i suoi due precedenti romanzi, Lei è una grande e Il maltempo dell’amore, sono usciti come eBook. Delitto alla Scala non è solo il suo primo romanzo a essere pubblicato in formato cartaceo presso una grande casa editrice, ma è anche il primo a essere ambientato in quel mondo dell’opera che l’autore conosce bene, essendo Direttore Editoriale del Teatro alla Scala.

Il delitto del titolo è quello del direttore d’orchestra Oscar Marni, un’eminenza della musica antica malgrado la giovane età, che deve concertare un titolo mitico della storia della musica, quella Arianna di Claudio Monteverdi il cui manoscritto ritenuto da sempre perduto sembra essere stato ritrovato. Dell’opera è conosciuta solo una pagina, quello struggente “Lasciatemi morire” in cui Arianna, nella scena VI della tragedia del Rinuccini, lamenta l’abbandono del suo Teseo, unico frammento di un’opera andata in scena il 28 maggio 1608 al Palazzo del Duca di Mantova, il committente dell’opera, ma che era andata perduta. Grande scalpore desta quindi la notizia del ritrovamento, a poca distanza dal teatro, nel caveau di una casa dell’aristocrazia milanese, della partitura manoscritta e completa dell’opera. Per il teatro è dunque una ghiotta occasione per allestire, all’inaugurazione della sua nuova stagione lirica, questo lavoro che tutti consideravano perso e che per oltre quattrocento anni non aveva avuto voce.

I capitoli del romanzo di Pulcini hanno la scansione giornaliera di un diario che va da domenica 2 novembre, “Il giorno dei morti”, in cui viene rinvenuto il cadavere di Marni sul tetto del teatro vicino a quella balaustra all’altezza del timpano col carro d’Apollo che si vede dalla piazza, fino al 7 dicembre, “Il giorno dei lupi”, in cui è attesa la mitica e mondana prima ambrosiana.

Il “lombardo molto d’adozione” Abdul Calì, si trova a doversi destreggiare tra un direttore artistico reticente, un sovrintendente ossessionato dalla scadenza, un arrogante ispettore ministeriale, un inconcludente direttore sostituto e una schiera di personaggi femminili che si allarga di giorno in giorno: la vedova inconsolabile ma livorosa, l’amante principale che è anche la prima donna che deve interpretare Arianna, l’amante numero due che è il secondo soprano, l’amante numero tre, una commessa di un negozio di lusso, e chissà quante altre. Le attività amatorie del defunto fanno propendere per un delitto passionale che ha avuto come movente le gelosie femminili, ma presto una seconda pista si affianca a questa: la pista della rivalità professionale e della cupidigia attorno alla presenza di questo preziosissimo manoscritto.

Alternando un’erudizione mai pedante – l’autore deve tener conto che ha a che fare con un commissario di polizia che non ha mai messo piede in un teatro d’opera – a pagine spassose come quelle della assurda, ma neanche troppo, “messa in scena degli olandesi”, il testo procede con un ritmo narrativo non convulso ma che tiene sempre desto l’interesse del lettore. E anche lo svelamento finale è la logica conclusione di quanto viene scoperto pagina dopo pagina, non un colpo di scena inverosimile.

Gli amanti del giallo, gli appassionati dell’opera o semplicemente quelli che vogliono leggere un libro appassionante e intelligente troveranno di che essere soddisfatti dal libro di Franco Pulcini.

Verdi ritrovato

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Paolo Gallarati, Verdi ritrovato

2016 Il Saggiatore, 592 pagine

Nel novembre 2005 Paolo Gallarati, musicologo, critico e professore ordinario di Istituzioni di Storia della musica e di Drammaturgia musicale a Torino, aveva letto una prolusione all’Università di Bologna per il Nono Colloquio di Musicologia: Il melodramma ri-creato. Verdi e la “trilogia popolare”. Ora quel tema è presentato in un poderoso saggio uscito per Il Saggiatore con un titolo ancora più sorprendente: Verdi ritrovato. Rigoletto, Il trovatore, La traviata. La popolarità e apparente semplicità dei mezzi e dello stile delle tre opere hanno finito per scoraggiare la storiografia per cui mancano adeguate monografie sulle opere della “trilogia popolare”. Questa è la prima e al momento rappresenta la parola definitiva, per lo meno in lingua italiana, sul tema.

Ma come può essere “ritrovato” il compositore più rappresentato nel mondo, di cui La traviata rappresenta in assoluto l’opera più abituale nei cartelloni dei teatri lirici? La risposta viene data dal musicologo torinese nelle quasi seicento pagine del suo saggio formato da due parti. Nella prima – “Il laboratorio” – l’autore parte dall’esame delle opere giovanili per enunciare la tesi secondo la quale le tre opere del 1851-53 hanno i caratteri dell’eccezionalità, sia rispetto alla produzione verdiana precedente, sia al melodramma europeo nel suo complesso. Nella seconda parte un’analisi capillare delle partiture delle tre opere dimostra la tesi enunciata. Che questa seconda parte sia la più estesa (quattro volte la prima in termine di pagine) indica la solerzia di Gallarati nel voler attestare le sue affermazioni sul campo mediante gli strumenti di indagine e di erudizione di cui è provvisto.

Con una copiosa massa di documenti, soprattutto epistolari, Gallarati mostra come Verdi fosse consapevole di star creando qualcosa di completamente diverso con le sue nuove opere. Nella lettera al de Sanctis del 1 gennaio 1853 il compositore scriveva: «io desidero soggetti nuovi, grandi, belli, variati, arditi […] ed arditi all’estremo punto, con forme nuove ecc. ecc., e nello stesso tempo musicabili». E infatti con Rigoletto il melodramma si libera dai modelli consueti e la sua drammaturgia punta a una sintesi, una velocità di sviluppo e a una forza di contrasti ottenuti con il taglio audace delle scene e la loro organizzazione nel tempo. «Sino a Rigoletto, il compositore stava ancora acquisendo quella visione sintetica e totalizzante che gli permetterà di individuare consapevolmente, nel soggetto drammatico, il principio originario da cui derivano il taglio degli atti e l’organizzazione delle scene, la distribuzione e i contenuti dei dialoghi e dei monologhi, la concezione del tempo e dello spazio, le forme dei pezzi e la qualità del materiale musicale. L’opera si sarebbe allora trasformata in un organismo tenuto insieme da una rete di relazioni che imbriglia i vari strati della struttura: ogni elemento, sino al più piccolo particolare melodico, armonico, ritmico, timbrico, dinamico diventa necessario e nulla è più, neppure minimamente, fungibile. Il melodramma italiano sarebbe stato quindi completamente ri-creato nelle partiture di Rigoletto, Trovatore e Traviata, in cui la trasposizione musicale di soggetti originalissimi avrebbe potuto realizzarsi appieno». Tutto deriva direttamente dal contenuto drammatico del soggetto e tra l’argomento e la veste formale si raggiunge una compenetrazione assoluta: libretto, scenografia, recitazione, musica tendono tutti assieme indissolubilmente a creare quella unità dell’opera d’arte che il “rivale” Wagner avrebbe più tardi teorizzato con il suo concetto di Gesamtkunstwerk.

Gallarati affronta parimenti il tema del “Verdi tradito”: fin dall’inizio le sue opere furono sottoposte a un «logorio esecutivo che ne alterò e deformò i contorni». Come lamentava lo stesso compositore con il suo editore Ricordi: «Per parte mia dichiaro che mai, mai, mai, nissuno ha mai potuto trarre tutti gli effetti da me ideati… nissuno!! Mai, mai… né Cantanti né Maestri. […] Io voglio un solo creatore, e m’accontento che si eseguisca quello che è scritto: il male sta, che non si eseguisce mai quello che è scritto. […] Conviene inoltre che gli artisti cantino non a loro modo, ma al mio». L’autentico Verdi era andato perduto, o forse mai scoperto. A ritrovare il vero Verdi sarà il secolo successivo con interpreti quali Toscanini o Maria Callas. E si può dire che mai come oggi si ascolti il Verdi autentico, con interpreti sempre più fedeli al suo dettato. Una nuova Verdi-renaissance è fortunatamente in atto nei teatri moderni, soprattutto in quelli italiani, dove «di un riscatto culturale e morale il nostro paese ha quanto mai bisogno»: le opere di Verdi costituiscono la nostra vera identità.

Divine parole


Ramón María del Valle-Inclán, Divine parole

Regia di Damiano Michieletto

Milano, Piccolo Teatro, 26 aprile 2015

Sangue e fango

Nella scena di Paolo Fantin lo Studio Melato del Piccolo di Milano si trasforma in una palude di fango. Qualche schizzo arriva anche agli spettatori della prima fila. Inutilmente il prete sistema passerelle per arrivare mondo all’altare bianco abbagliante.

Divinas palabras di Ramón María del Valle-Inclán è la storia di un branco di emarginati che lottano gli uni contro gli altri per sopravvivere al di fuori di ogni valore umano. Quasi una parabola pasoliniana dalla visionarietà goyesca, essendo pasoliniana l’atmosfera religiosa che pervade la pièce – anche se qui è una religiosità furibonda, folcloristica, ossessionata dalla morte ma nello stesso tempo piena dell’orrore cattolico per la vita.

Il personaggio sempre presente in scena è il bambino nano e idrocefalo che la madre porta in giro per spillare qualche elemosina ai passanti. Morta lei, fratello e sorella si contendono il carrozzino, fonte di guadagno. Rapito dalla donna e fatto ubriacare il bambino muore sbranato dai maiali. Le parole del titolo sono quelle pronunciate per fermare il tempo della lapidazione della donna nel finale: «qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat».

La prima regia di Michieletto per il Piccolo non è passata inosservata.

Artaserse

★★★☆☆

«Povera Persia!»

È innegabile il fascino suscitato dagli intrighi dinastici dell’impero persiano dei secoli VI e V a.C. sui librettisti del Settecento: innumerevoli sono le opere che hanno avuto come soggetto Ciro, Dario, Serse e Artaserse. Solo a quest’ultimo è legato un numero impressionante di intonazioni. A poche settimane dalla pubblicazione del libretto di Metastasio, il 4 febbraio 1730 debuttava a Roma l’Artaserse di Leonardo Vinci mentre sei giorni dopo al Teatro di San Giovanni Grisostomo di Venezia veniva presentato quello di Johann Adolf Hasse, secondo del centinaio di lavori con lo stesso titolo.

Al libretto del Metastasio ancora fresco di inchiostro, Hasse aveva apportato qualche modifica con l’aiuto del poeta Giovanni Boldini: alcune arie furono tagliate o sostituite e i recitativi riscritti. La trama era rimasta comunque immutata.

Atto primo. Artabano, appena reduce dall’assassinio del re Serse, scambia la spada insanguinata con quella del proprio figlio Arbace (innamorato ricambiato della figlia di Serse, Mandane). Riesce poi a convincere il principe Artaserse che sia stato Dario, altro figlio di Serse, l’autore del crimine e, approfittando dell’indignazione del fratello, ordina l’immediata esecuzione del colpevole. Intanto, trovato in possesso dell’arma del delitto, Arbace viene arrestato: Artaserse esita tuttavia a emettere la condanna contro l’amico.
Atto secondo. Incerto tra le richieste di grazia da parte di Semira, sua amante e sorella di Arbace, e i propositi di vendetta di Mandane, Artaserse rimette la sorte di Arbace ad Artabano. Questi, nello stupore generale, condanna il figlio a morte, ma nascostamente progetta un colpo di stato che lo porti sul trono di Artaserse.
Atto terzo. Artaserse fa fuggire Arbace dal carcere; quando Artabano vi giunge con la stessa intenzione, crede che il figlio sia stato giustiziato e decide di vendicarsi. Infatti, mentre Artaserse sta per bere il veleno al banchetto d’incoronazione, scoppia una rivolta che viene prontamente sedata da Arbace. Vedendo che Artaserse propone a quest’ultimo di brindare con lo stesso calice avvelenato, Artabano confessa il piano regicida e viene condannato all’esilio, mentre le due giovani coppie possono festeggiare la loro unione.

Diversamente da Roma, a Venezia non vigeva il divieto alle donne di calcare le scene e qui le due interpreti femminili furono regolarmente interpretate da donne, la Cuzzoni come Mandane e la Pieri come Semira. Il grande successo dell’opera si deve attribuire in buona parte al cast eccezionale per il tempo che vedeva due famosi evirati cantori come il Farinelli e il Nicolino nei ruoli di Arbace di Artabano. Le successive riprese in varie piazze europee indussero il compositore a preparare versioni diverse, come era d’uso al tempo: quella di Londra del 1734, quella di Dresda del 1740 e quella di Napoli negli ultimi anni della sua carriera le più importanti.

Nello stesso anno dell’Artaserse di Vinci a Nancy, al Festival di Martina Franca viene presentato l’Artaserse di Hasse nella versione del 1730, ma con la conclusione del primo atto con l’aria di Mandane – una “gentile richiesta” della Faustina Bordoni, allora moglie del compositore e interprete del ruolo a Dresda.

La maggior differenza fra i due spettacoli è la massa in scena: la surreale e ironica lettura camp di Purcărete qui diventa la tradizionale e statica regia di Gabriele Lavia che dimostra la sua totale incomprensione del teatro barocco (come confessa candidamente nell’intervista compresa nel lungo extra su disco) e, come se non avesse mai diretto degli attori nei lavori di prosa che ha curato, non sembra aver dato indicazione agli interpreti, che in scena agiscono in maniera estremamente convenzionale, gesticolando o buttandosi a terra a seconda dei diversi affetti: sconforto, disperazione, disprezzo. Eppure i lunghi recitativi avrebbero offerto non poche opportunità al regista. Invece, le poche trovate teatrali sono inutili o banali, come ad esempio il “gioco” delle lance durante l’aria di Arbace nel primo atto.

Altrettanto statica, ma efficace, si è rivelata la monumentale scenografia di Alessandro Camera dalla patina d’oro antico. La location – il cortile all’aperto di Palazzo Ducale – non offriva tante altre possibilità. Poco lavoro anche per il costumista Andrea Viotti: tutti i personaggi maschili portano la stessa divisa da carabiniere (cambia solo il numero di medaglie) e le donne indossano lo stesso vestito (orrore!) e pure in colori simili. Con la medesima acconciatura, Mandane e Semira diventano due incongrue sorelle gemelle. Neanche il gioco di luci aiuta rendendo l’immagine nel DVD scura e morchiosa.

Diretta al clavicembalo dall’esperto Corrado Rovaris, l’Ensemble Barocco dell’Orchestra Internazionale d’Italia fa del suo meglio, ma non si dimostra all’altezza di altre compagini specializzate in questo repertorio: le dinamiche sono piatte e i colori spenti. Il fatto di stare all’aperto poi non è certo d’aiuto. Una curiosità: accanto a Rovaris è seduto un signore occhialuto il cui ruolo rimane un mistero.

Il cast vocale è dominato da due eccellenze: Franco Fagioli e Sonia Prina. Una seconda volta nel ruolo di Arbace, che è il vero protagonista qui come in Vinci, il controtenore argentino ha modo di dispiegare i suoi incredibili virtuosismi vocali, fluidità di emissione nei diversi registri, massimo controllo dell’intonazione, note acute prodigiose. Certo la dizione è quella che è, specie nei recitativi, che sono al limite del comprensibile. Fagioli si può permettere anche un’aria di baule, la stupefacente «Parto qual pastorello» del Brioschi che con le sue agilità e gli acrobatici salti d’ottava manda il pubblico in delirio.

Non è da meno Sonia Prina, che nel ruolo en travesti del perfido Artabano dimostra una padronanza vocale e un’intensità di espressione sorprendenti. Anche a lei è concessa un’aria di baule, «S’impugni la spada» scritta da Vivaldi, mentre con «Pallido il sole» (l’aria con cui Farinelli curava lo spleen del re di Spagna Filippo V), conclude il secondo atto. Uno dei momenti più alti della serata.

Maria Grazia Schiavo è una Mandane dalla piacevole vocalità mentre con un altro sopranista, Antonio Giovannini dalla voce estremamente chiara e molto sottile, si esprime Megabise, personaggio d’altronde di poco spessore. Il ruolo del titolo è affidato al tenore Anicio Zorzi Giustiniani, corretto ma un po’ inespressivo. Rosa Bove è l’intensa Semira, qui un contralto.

  • Artaserse, Helyard/Rader-Shieber, Sydney, 7 dicembre 2018

Il Don Giovanni

Filippo Timi, Il Don Giovanni

Diretto e interpretato da Filippo Timi

Torino, Teatro Carignano, 17 marzo 2015

«Vivere è un abuso, mai un diritto»

“Don Giovanni 2.0; Don Giovanni postmoderno; Don Giovanni glam-rock; Don Giovanni all’eccesso”: si sprecano le definizioni per questo spettacolo scritto, diretto e interpretato dal più irriverente e geniale degli artisti del teatro italiano. Ed è anche lo spettacolo più discordemente recensito, pur riconoscendo quasi tutti, come Mariaelena Prinzi, che «è uno spettacolo necessario: anni di produzioni scellerate, troppo spesso radical chic, hanno creato delle opere meravigliose messe in scena in teatri quasi sempre mezzi vuoti. È giunto il momento di ripopolare le sale con dei ragazzi giovani. Il Don Giovanni fa proprio questo. Non è il pubblico che si avvicina al teatro ma è quest’ultimo che strappa lo spettatore dal divano e lo porta in platea».

Delle varie scritture del mito, questa sembra vicina a quella di Da Ponte in cui più che la seduzione erotica è il desiderio di conquista il motore del dramma. E i costumi estremi, eccessivi, ingombranti (di Fabio Zambernardi, già stilista di Miuccia Prada) sono le gabbie di una prigione esistenziale in cui si rinchiudono gli stessi protagonisti.

Le proiezioni di assurdi video di youtube non lasciano dubbi sulla volontà dell’autore di analizzare, nascondendola sotto uno strato di comicità beffarda e demenziale, la realtà attuale di un’umanità in caduta libera e condannata a estinguersi.

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As You Like it

William Shakespeare, As You Like it

regia di Polly Findlays

Londra, National Theatre, 23 febbraio 2016

L’inarrivabile professionalità della scuola attoriale inglese

Ventiquattro personaggi divisi tra la corte di Duke Frederick, quella di Duke Senior, la famiglia di Sir Rowland de Boys e gli abitanti della foresta di Arden. Ventiquattro persone in scena che sanno recitare, cantare, ballare, suonare uno strumento. Questo può capitare solo sul palcoscenico di un teatro di Londra.

La “pastoral comedy” del Bardo nella lettura della regista Polly Findlays e nella scenografia di un’altra donna, Lizzie Clachan, diventa una vicenda di potere e di amori ambientata inizialmente negli uffici di una corporation in cui gli istinti sono più violenti di quelli che possiamo trovare tra le belve di una foresta. Il momento del lunch si trasforma in un rito di team-bonding in cui tutti addentano il tramezzino e lo masticano in unisono.

Il passaggio alla scena della foresta di Arden è impressionante: sedie e scrivanie vengono issati con inquietanti scricchiolii verso l’alto da dove penzolano investiti da un gioco di luci che rende magnificamente il mistero e la minaccia della selva. Un colpo di teatro indimenticabile.

Il divorzio

Vittorio Alfieri, Il divorzio

Regia di Beppe Navello

Roma, Teatro Palladium, 22 aprile 2017

«Se il matrimonio Italico è un Divorzio»

Prendere il testo di uno dei nostri più illustri e meno rappresentati drammaturghi e trasformarlo in un meccanismo teatrale infallibile è il risultato ottenuto da Beppe Navello e dai giovani e talentuosi attori della Fondazione Teatro Piemonte Europa i quali riescono a divertirsi e a farci divertire con gli endecasillabi della sesta e ultima commedia scritta dal grande astigiano intorno al 1801. Commedia “stravagante”, intrisa di caustica ironia, quest’opera così disillusa in cui trionfa l’ipocrisia, trova nella lettura farsesca di Navello la dimensione adatta a sfogare lo sdegno sarcastico dell’Alfieri: «O fetor de’ costumi Italicheschi | che giustamente fanci esser l’obbrobrio | di Europa tutta».

Una scena che più spoglia non si può: una semplice cornice inquadra i vivaci tableaux vivants ravvivati dai colorati costumi settecenteschi di Barbara Tomada, comprensivi di velieri e torte sormontanti le parrucche delle due signore. Uno specchio alla fine riflette il pubblico della platea: i Cherdalosi, i Ciuffini, i Piantaguai, i Benintendi, gli Sparati, i Becchini, gli Stomaconi, i Rodibene ancora oggi li vediamo in giro intorno a noi.

L’ultima notte del Rais

Renzo Sicco, L’ultima notte del Rais

regia di Giovanni Boni

Collegno, Stireria dell’ex Manicomio, 17 settembre 2016

Cronaca di una morte annunciata

Come fare del grande teatro con niente, o meglio con un ingrediente indispensabile: tanta intelligenza.

Tratto dall’omonimo testo di Yashmina Kadra, negli spazi ancora inquietanti dell’ex Manicomio di Collegno si viene investiti dalle crude immagini della cattura di Muammar Gheddafi. Poi inizia l’immaginaria ultima conferenza stampa del Rais libico, la notte tra il 19 e il 20 ottobre 2011.

Un tavolo, una sedia, una teiera, un paesaggio sonoro definito dalle percussioni di Vito Miccolis e Roberto Leardi. E un attore di enorme personalità come Sax Nicosia che delinea un personaggio di statura scespiriana che nella sua solitudine ripercorre la propria vita dalla “chiamata divina” ai fasti del potere alla fine. «Con la mia morte sarà l’inizio dell’orrore», dice a un certo punto. Tragica profezia.

Festival Vivaldi

Pagina di un manoscritto delle raccolte Foà-Giordano
Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino

Antonio Vivaldi, Magnificat RV 610

Antonio Vivaldi, Gloria RV 589

Johann Sebastian Bach, Magnificat BWV 243

Torino, I concerti della Filarmonica del Teatro Regio

21 aprile 2017

Due Magnificat a confronto

Si sta avviando alla conclusione il lungo festival che Torino ha dedicato ad Antonio Vivaldi, il compositore di cui la città custodisce la ricca raccolta di manoscritti nella sua Biblioteca Nazionale Universitaria.

Ghiotta occasione quella offerta dal maestro Ottavio Dantone, che sta concertando L’incoronazione di Dario, di proporre due lavori sacri dallo stesso titolo che permettono di far luce sulle diverse qualità del prete rosso e del suo primo grande ammiratore, quel Johann Sebastian Bach che aveva pazientemente ricopiato le note dei suoi concerti per ridar loro vita in una nuova forma. Per due secoli il nome di Vivaldi è stato conosciuto solo grazie al lavoro del Thomaskantor di Lipsia più insigne.

Ecco quindi che dopo il fresco linguaggio armonico e la polifonia arcaizzante del Magnificat vivaldiano in sol minore nella versione del 1717 per coro e quattro solisti, si passa al più complesso contrappunto e alla maggior densità di scrittura del Magnificat bachiano nella versione del 1733, per coro a cinque voci e cinque solisti.

Risultato apprezzabile quello ottenuto dall’orchestra del Regio non avvezza a questo repertorio. La cura del maestro Dantone ha fatto superare ogni difficoltà. Un po’ meno efficace il coro ridotto a soli 25 elementi, complice anche l’acustica del teatro che tende a spegnere la brillantezza dei suoni. Ad affiancare il più breve Magnificat vivaldiano nella prima parte il suo Gloria in re maggiore, la stessa tonalità del Magnificat di Bach.

Lucrezia Borgia

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

★★★☆☆

Valencia, Palau de les Arts Reina Sofía, 1 aprile 2017

(live streaming)

La principessa Negroni e il suo cocktail speciale

Invece del solito soggetto romantico, nel 1833 Donizetti si rivolge alla figura della famosa femme fatale dal veleno facile, qui in veste di mamma. Nella Lucrezia Borgia che debutta alla Scala il 26 dicembre di quell’anno non c’è molta somiglianza tra il personaggio del libretto di Felice Romani, tratto dall’omonimo dramma di Victor Hugo (1) uscito nel febbraio dello stesso anno, e la vera Lucrezia Borgia, nata nel 1480 e morta di parto nel 1519. Figlia illegittima di Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, e sorella di Cesare Borgia, ebbe come terzo marito il duca di Ferrara Alfonso d’Este. Si ha notizia di un precedente figlio, Giovanni, frutto incestuoso della violenza subita dal padre o, secondo altre fonti, dal fratello.

Nell’opera Lucrezia è l’unico personaggio femminile in un universo dominato dal testosterone maschile. Gennaro è il figlio da tempo ritenuto scomparso che non sa della madre, che egli venera e pensa sia stata uccisa dalla Borgia stessa. Il duca Alfonso crede che il giovane, cui la moglie prodiga così tante cure, sia un suo amante e progetta di ucciderlo costringendo la donna a versargli del vino avvelenato. Così avviene, ma un antidoto prontamente fornito dalla stessa Lucrezia salva Gennaro dalla morte. Nel frattempo un gruppo di compari, capeggiati dall’amico del cuore Maffio Orsini, stacca per disprezzo dalla facciata del palazzo la lettera B del nome lasciando la parola ORGIA. Offesa, Lucrezia, sotto il falso nome di principessa Negroni, invita il gruppo a far baldoria offrendo il suo cocktail speciale. Troppo tardi si accorge che Gennaro fa parte del gruppo dove il giovane ha bevuto anche lui il veleno, per la seconda volta! Rifiutato l’antidoto, insufficiente per salvare anche gli amici, Gennaro vorrebbe uccidere la donna prima di morire, ma lei gli rivela finalmente di essere la madre. Dimenticandone le nefandezze, Gennaro spira placato fra le sue braccia.

La vicenda, perfetta per una parodia di Paolo Poli, è messa in musica da Donizetti con la solita professionalità, ma anche con guizzi di genio. All’atmosfera notturna annunciata fin dalle prime note della sinfonia con quel minaccioso rullo di timpani, il compositore alterna episodi falsamente festosi come il brindisi di Orsini «Il segreto per esser felici» alternato al lugubre coro fuori scena «La gioia de’ profani è un fumo passegger».

Valencia, la città che ha dato i natali a due papi Borgia (Alessandro VI e Callisto III) mette ora in scena nel suo Palau de les Arts Reina Sofía il dramma tragico in un prologo e due atti di Donizetti con la direzione del suo direttore musicale Fabio Biondi, violinista e massimo esperto di musica antica su strumenti originali. La sua direzione è piuttosto asciutta e tende a rifarsi alla versione originale del 1833 con poche concessioni a una lettura romantica. Il suo ritornare all’antico è realizzato con suoni secchi e metallici e dal pianoforte per i recitativi.

Il cast è dominato dalla presenza nel ruolo titolare di Mariella Devia. Per lei è stata montata questa produzione. Vicino alla settantina, la Devia si rivela ancora maestra di bel canto e senza nessuna concessione all’effetto la sua linea rimane omogenea nei vari registri. Il fraseggio perfetto e le colorature precise scatenano il delirio di parte del pubblico. Subito dopo per qualità di performance viene Silvia Tro Santafé, un Orsini perfetto per eleganza di emissione, agilità e presenza scenica. Presenza ammirata anche nell’Alfonso d’Este del croato Marko Mimica e nel Gubetta del nostro Andrea Pellegrini. Gennaro è il tenore americano William Davenport, un Pavarotti lirico ma ancora più leggero nel timbro e altrettanto intorpidito in scena. I giovani allievi della scuola di perfezionamento di Plácido Domingo coprono efficacemente gli altri ruoli.

La regia di Emilio Sagi, elegante ed essenziale, riprende la produzione del 2001 a Bilbao. Il regista sottolinea l’ambiguo rapporto tra Gennaro e l’amico Maffio Orsini, mezzosoprano en travesti, tanto che qui ci scappa anche un furtivo bacio tra i due. Vero è che il libretto dà adito a facili congetture quando nel duetto questi si scambiano espressioni come «Ah! Non posso abbandonarti! | Ah! Non io lasciarti vo’. […] Mio Gennaro! Caro Orsino! | Teco sempre… | O viva, o mora. | Qual due fiori a un solo stelo, | qual due frondi a un ramo sol’».

Le scenografie nere e lucide di Llorenç Corbella sono costituite da schermi mobili con proiezioni che definiscono gli ambienti claustrofobici della storia. Capigliature e maquillage completano adeguatamente i costumi di Pepa Ojanguren in total black ad eccezione del rosso di Lucrezia nel secondo atto, unica macchia di colore.

(1) Quando l’opera di Donizetti fu data a Parigi nel 1840, Hugo si oppose all’utilizzo del titolo originale ottenendo il blocco delle rappresentazioni successive alla prima. Il testo venne riscritto e la vicenda ambientata tra i turchi. Venne poi rappresentata nel 1845 con il titolo La rinnegata.

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