Un ballo in maschera

 

foto ©  Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

Torino, Teatro Regio, 21 febbraio 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

L’ossessione della maschera

Un ballo in maschera è presente fin dall’inizio in questa produzione: la corte del governatore di Boston, il Conte Riccardo – ex Signore capo della fazione Guelfa in Adelia degli Adimari, ex Duca di Pomerania in Una vendetta in domino, ex Re di Svezia in Gustavo III… tante sono le versioni di questo lavoro così avversato dalla censura – non è dissimile da quella del dissoluto Duca nel Rigoletto, anche qui orge e donnine allegre al riparo di una maschera. Avendo la possibilità di ambientare la vicenda a seconda delle versioni di Un ballo in maschera nel XVII secolo o nel XIV o nel XVI e in Pomerania o a Firenze o a Stoccolma o in America, il regista Andrea de Rosa sceglie il Seicento napoletano…

Così infatti ci appare ad apertura di sipario la scena ideata da Nicolas Bovey: l’interno di un palazzo di Napoli rigorosamente simmetrico, con una scala a sinistra e una identica a destra che portano al piano superiore. L’ambiente si divide a metà scorrendo vero l’esterno per creare «l’antro abbietto» di Ulrica, uno spazio buio in cui la donna «dell’immondo sangue dei negri» – sì, proprio così dice il libretto e bene è stato fatto a non censurare e modificare, come sembra invece sia prassi corrente oltre oceano nella patria della cancel culture e del politically correct, le parole del Somma pronunciate dal Giudice – è una sacerdotessa issata su un podio gradinato e accudita da sei assistenti. Un po’ troppo per il personaggio dell’indovina su cui pende un bando e qui trasformata in ieratica profetessa. Nel secondo atto «l’orrido campo» è una distesa disseminata di cadaveri con al centro lo stesso podio, mentre nel terzo atto la stanza di Renato e il sontuoso gabinetto di Riccardo sono uno spazio chiuso ricavato all’interno di un grande ambiente con altra scalinata, questa volta unica e centrale, che porta a una loggia al primo piano. Spazio che funge da «vasta e ricca sala di ballo splendidamente illuminata e parata a festa» per il ballo in maschera fatale. I ricchi costumi di Ilaria Ariemme ricreano con qualche libertà il periodo storico e le luci di Pasquale Mari, che si avvalgono anche di quelle delle candele, distinguono i vari ambienti. Troppo sovente movimenti coreografici di imbarazzante banalità riempiono una scena che non si distingue per un particolare lavoro sulle masse corali o sulla gestualità dei personaggi che rimane piuttosto convenzionale.

A parte alcune trovate poco convincenti – Renato che si pulisce la mano dopo averla stretta a Riccardo, l’uso ossessivo delle maschere che tutti si mettono e si tolgono in continuazione e che limitano l’espressività dei cantanti – l’allestimento di Andrea de Rosa rimane su un livello neutro che probabilmente è quanto richiesto da Riccardo Muti che per il suo terzo ritorno al Teatro Regio di Torino non ha voluto completare la trilogia dapontiana iniziata con il Così fan tutte nel 2021 e proseguita nel 2022 con il Don Giovanni. La sua scelta è caduta invece su questo titolo verdiano che ha diretto più volte, la prima cinquant’anni fa al Maggio Musicale Fiorentino con il mitico Richard Tucker (che sarebbe mancato dopo poco) e Renato Bruson come protagonisti maschili principali.

Si direbbe quindi un titolo di elezione questo per il Maestro napoletano e la sua concertazione sembra infatti dimostrare l’attenta cura e la predilezione per questo lavoro di Verdi. Superata la prima fase delle interpretazioni infuocate e frementi, ora la sua lettura è più analitica, l’approccio più approfondito. Nel maggio 2001 Riccardo Muti aveva diretto Un ballo in maschera alla Scala passato alla storia per le intemperanze del pubblico nei confronti dei cantanti e in parte anche del direttore al quale non si perdonava di voler correggere gli arbitrii di una pessima tradizione per proporre invece «un Verdi di riferimento, risultato di un affinamento interpretativo e di una riflessione di altissimo profilo artistico e culturale (serietà, affidabilità, equilibrio, consapevolezza stilistica)», come scriveva allora Sergio Sablich.

Quelle stesse parole possono essere riproposte oggi per la sua concertazione sempre attenta alle esigenze dei cantanti, al perfetto equilibrio tra buca e scena, alla gestione mirabile dei diversi registri espressivi, quello tragico e quello da commedia, tipico di questo lavoro dai colori sempre cangianti, dai contrasti di luci e ombre. Un gioco di opposti chiaramente presente nella sua condotta orchestrale illuminata da momenti geniali quali quell’intervento improvviso dei timpani netto come una fucilata nella scena che precede il ballo o quello degli archi nel tema grottesco dei congiurati. Diventa una sua chiave di lettura molto personale anche la scelta di tempi olimpici che illuminano la bellezza dei suoni di un’orchestra in stato di grazia e di un coro in gran forma ma che diluiscono la tensione teatrale.

Note meno trionfali vanno alla compagnia di canto in cui Piero Pretti, come sempre con sicuro squillo negli acuti, esibisce un timbro po’ fibroso e soprattutto denuncia una espressività indeterminata: i vari momenti vissuti dal personaggio mancano di contrasti, di personalità. Come per l’ambientazione registica, anche il personaggio di Riccardo ha la bidimensionalità del Duca di Mantova, tanto che a un certo punto invece di «Sì, rivederti Amelia» ci si aspetta che intoni «Parmi veder le lagrime»! 

Timbro non felice anche quello di Lidia Fridman, altrove eccellente tragédienne (Ecuba, Mina, Sylvia), come Amelia rivela una linea vocale non sempre omogenea e suoni talora metallici che non si addicono agli slanci lirici. Ecco quindi che il duetto del secondo atto, assieme alla voce di Pretti, rimane distante da quel livello estatico che Mila aveva paragonato al duetto del Tristano. Rimane la dimensione drammatica del personaggio realizzata con una presenza scenica che la regia avrebbe comunque potuto rendere più efficace. Con la linea vocale scomposta dell’Ulrica di Alla Pozniak e l’accettabile Oscar di Damiana Mizzi, il Renato di Luca Micheletti sarebbe stato il migliore elemento della serata per bellezza di timbro e carattere se un’indisposizione non avesse inficiato la sua performance: dopo un primo atto terminato con un piccolo incidente sulle ultime note di «Alla vita che t’arride», alla fine del primo intervallo il sovrintendente Mathieu Jouvin ha annunciato che il baritono avrebbe continuato la recita nonostante il precario stato di salute e il pubblico alla fine gli ha dimostrato la sua gratitudine con calorosi applausi.

Applausi copiosi anche per gli altri interpreti e ovazioni per il Maestro Muti. Meno convinti ma senza contestazioni quelli per il regista quando ai saluti finali si è presentato assieme agli altri nove artefici dell’allestimento scenico.

1 comments

  1. Concordo in pieno. Ho assistito all’antigenerale dove il baritono era in salute ed è, a mio parere, risultato il migliore della compagnia di canto, che comunque complessivamente mi ha deluso. Tenore espressivamente anonimo, soprano fuori parte, una virago da abbandonare nell’orrido campo, altro che morire per lei… Ulrica imprecisa. Regia banale, coro disposto a presepio. Muti attento ai particolari ma che non tiene insieme il fluire drammatico con tempi a volte un po’ troppo dilatati (incredibile…). L’opera non “scorre”, non precipita verso il finale. È vero che nel Ballo sono presenti vari registri espressivi dal tragico al comico al colloquiale salottiero, ma un senso di generale unità non guasterebbe. Insomma: un’occasione perduta. E non ne dubitavo.

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