Mese: giugno 2021

Resurrexit Cassandra

Jan Fabre, Resurrexit Cassandra

Torino, Teatro Astra, 28 giugno 2021

Nessuno ascolta Cassandra

Living installation, real-time performance: difficile definire lo spettacolo ideato da quel multiforme artista che è il belga Jan Fabre, di cui si ricorda a teatro il suo Mount Olympus. To glorify the cult of tragedy, spettacolo monstre di 24 ore del 2015.

Su un testo di Ruggero Cappuccio, Jan Fabre qui è l’ideatore, regista e scenografo di un assolo di un’attrice, Cassandra: raccolte le membra sparse nelle sabbie del mondo, la profetessa che aveva avuto il dono di conoscere il futuro ma la disgrazia di non essere ascoltata, risorge per mettere in guardia sui pericoli cui sta andando incontro l’umanità ancora una volta, forse l’ultima: se va male non ci saranno più i rossi di Caravaggio, le note di Stravinskij, un rigo di Virgilio, il sogno di Dante.

Scandito in cinque tempi e cinque vestiti di diverso colore, nella sua performance solitaria la sciamana ci grida le ferite che stiamo facendo subire alla natura, che si vendicherà. La sua lasciva danza di morte è scandita dal frastuono delle motoseghe che disboscano le foreste, dal crepitio dei ghiacciai che si sciolgono, della furia degli elementi scatenati dal riscaldamento globale e quasi si sente il fetore del continente galleggiante di rifiuti di plastica nel mezzo dell’Oceano Pacifico che abbiamo creato. Gli interludi musicali sono affidati alle canzoni di Paul McCartney, mentre implacabile è il ticchettio del tempo che passa.

Figura che riempie la scena e interpretazione magistrale per colori e intensità espressiva quella di Sonia Bergamasco che dà voce alla Natura ferita incarnata dalla profetessa troiana.

Dopo Napoli e Pompei, una breve tappa a Torino: solo tre sere. Imperdonabile perdersi lo spettacolo.

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Histoire de l’opéra français – vol. II

Hervé Lacombe ed., Histoire de l’opéra français – Du Consulat aux débuts de la IIIRépublique

1264 pagine, Fayard, 2021

ll secondo volume di questa Storia dell’opera francese affronta il secolo di massimo splendore del teatro musicale in Fancia: «Il XIX secolo in Francia è l’epoca del pianoforte, dei virtuosi, dei concerti sinfonici, della melodia e dei salotti, ma più di tutto è l’epoca dell’opera. A Parigi, in provincia, nelle colonie, nella sua forma spettacolare originale o nei suoi numerosi adattamenti, questo genere già plurisecolare penetra tutta la vita musicale e diventa oggetto di particolari attenzioni  da parte dei poteri che si avvicendano, dal Consolato alla III Repubblica. E continua a evolversi e ramificarsi col grand opéra, l’opéra-comique, l’opérette e l’opéra de salon. Si arricchisce di apporti stranieri, da Rossini a Wagner, si incarna negli edifici che determinano l’identità di una città, così com’è testimoniato da Palais Garnier, e incide sui vari strati della società». Così Hervé Lacombe, che cura la raccolta di saggi che formano questo volume, 22 capitoli suddivisi in un prologo e tre parti: la prima “Créations et répertoire”, la seconda “Production et diffusion”, la terza “Imaginaire et réception”. Un epilogo fa il punto della situazione: “Histoire, discours et culture : perspectives sur le siècle”.

Era ora che fosse a disposizione dei lettori e degli appassionati una storia che esplorasse il continente lirico in tutti i suoi diversi aspetti, descrivendo i meccanismi per ricostruire i valori e le tendenze, seguendone gli attori e scoprendo  istituzioni, sale, pratiche, temi e produzioni.

Il terzo volume sul Novecento è in preparazione.

Histoire de l’opéra français – vol. I

Hervé Lacombe ed., Histoire de l’opéra français – Du Roi Soleil à la Révolution

1260 pagine, Fayard, 2021

I tre volumi che l’editore parigino di Rue du Montparnasse ha iniziato a pubblicare (il primo dedicato a Seicento e Settecento, il secondo all’Ottocento, mentre il terzo sarà destinato al Novecento) colmano una lacuna clamorosa, quella di una storia dell’opera francese esaminata in tutti i suoi aspetti, non solo musicali ma anche sociali ed economici, quello che hanno fatto in Italia i pregevoli volumi della Storia della musica della EDT.

«Sollecitando la vista, l’udito e le emozioni, manipolando idee e immagini, l’opera riflette e concentra la sua epoca. È sia un fenomeno culturale di ampiezza inusitata, sia un oggetto artistico proteiforme, il risultato di un’industria e contemporaneamente il frutto di un’estetica». Così Hervé Lacombe, musicologo specialista dell’opera francese, che cura la raccolta di saggi che formano il volume, 22 capitolo che esauriscono tutto quanto sia necessario sapere  di un periodo, dalla metà del XVII alla fine del XVIII secolo, in cui «nella storia di questo genere totalizzante, il repertorio francese occupa un posto particolare, fortemente determinato dai suoi legami con lo Stato, a partire dalla sua istituzionalizzazione da parte di Luigi XIV, che portò alla consacrazione della tragédie en musique, fino all’inaugurazione nel 1989 dell’Opéra Bastille, voluta da François Mitterand, per il duecentesimo anniversario della Rivoluzione Francese».

Diviso canonicamente in cinque atti – oops parti – inizia con un prologo: “Musique, théâtre e politique au temps de Mazarin”, prosegue nella prima parte con «Naissance et institutionnalisation de l’opéra français sous Louis XIV”, nella seconda con “Transformation et diversification sous Luis XIV”, nella terza “Continuités et ruptures sous Louis XVI et la Première République”, per terminare con considerazioni sull’aspetto sociale dell’opera (quarta parte “Production et diffusion”) e culturale (“Imaginaire et culture”). Un epilogo contenente “Lectures esthétiques et poétiques de l’opéra français” e una immancabile “Coda : l’avenir du passé” concludono la poderosa raccolta di saggi la cui folta lista di contributori comprende il meglio degli studi accademici francesi.

Stagione Sinfonica RAI

 

Ernest Chausson, Poème de l’amour et de la mer, per voce e orchestra, op. 19

Maurice Ravel, Valses nobles et sentimentales

Maurice Ravel, La valse, poema coreografico

Maxime Pascal direttore,  Anna Caterina Antonacci mezzosoprano

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 27 maggio 2021

Un raffinato programma francese per Caterina Antonacci

Come far diventare una esile figurina estenuatamente liberty una donna di carne e sangue: questa è l’impresa riuscita ad Anna Caterina Antonacci che nell’ottavo concerto di primavera dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI affronta il primo numero di una impaginazione tutta francese centrata su due tra i maggiori esponenti della musica di fine Ottocento, Ernest Chausson (1855-1899), e inizio Novecento, Maurice Ravel (1875, 1937).

Di Chausson il Poème de l’amour et de la mer è composto da due poesie, tratte dalla raccolta omonima di Maurice Bouchor del 1876, intervallate da un breve interludio strumentale. Dopo una gestazione decennale l’esecuzione col compositore al pianoforte avvenne nel febbraio 1893 a Bruxelles e pochi mesi dopo si ebbe l’esecuzione con orchestra a Parigi. Nella prima poesia, La fleur des eaux,  il mare è muto testimone del ricordo dell’amata. Dopo un inizio in cui i profumi dei fiori si mescolano a quelli dei capelli («L’air est plein d’une odeur exquise de lilas, | Qui, fleurissant du haut des murs jusques en bas, | Embaument les cheveux des femmes») il tono si fa più drammatico: «Qui sait si cette mer cruelle | La ramènera vers mon cœur ? | Mes regards sont fixés sur elle ; | La mer chante, et le vent moqueur | Raille l’angoisse de mon cœur». Nel secondo, La mort de l’amour, il processo è inverso e la poesia termina nella rassegnazione dei versi «Et toi, que fais-tu ? pas de fleurs écloses, | Point de gai soleil ni d’ombrages frais ; | Le temps des lilas et le temps des roses | Avec notre amour est mort à jamais». La Antonacci riveste queste parole di una sensibilità e di una espressività grazie alle eccezionali doti vocali, all’elegante fraseggio e alla perfetta dizione del testo articolato a memoria.

Tutta orchestrale la seconda parte del concerto in cui il direttore Maxime Pascal, ascoltato finora quale interprete di musica contemporanea, accentua la modernità del poema coreografico raveliano mettendone in evidenza la spinta ritmica e la fantasmagorica sapienza strumentale. Più lirica era stata la sua lettura dei rarefatti Valses nobles et sentimentales.

I copiosi applausi del pubblico torinese hanno suggellato la validità del prezioso impaginato e l’eccellenza degli interpreti. 

Zazà

Ruggero Leoncavallo, Zazà

★★★★☆

Vienna, Theater an der Wien, 25 settembre 2020

(video streaming)

La solita storia dell’amore sbagliato

Una messa in scena può migliorare un’opera minore? Questo mi chiedevo guardando la registrazione di Zazà di Leoncavallo prodotta dal Theater an der Wien con la regia di Christof Loy, uno dei metteurs en scène più intriganti del nostro tempo.

La sua regia è lineare, ma molto accurata dal punto di vista interpretativo, con i cantanti che si muovono come attori in un dramma di prosa, il che aiuta molto a ricreare la verità psicologica di questa “commedia lirica”. Leoncavallo la concepì a Parigi negli anni 1882-86 mentre da vero bohémien sbarcava il lunario come pianista accompagnatore nei caffè-concerto, la cui atmosfera è ricreata nella vicenda della soubrette Zazà.

Assieme a La bohème, Zazà è l’altra opera con cui Leoncavallo cerca di uguagliare la popolarità di Pagliacci, ma inutilmente: dopo la prima del 10 novembre 1900 al Lirico milanese diretta da Toscanini, nei vent’anni che seguirono Zazà ebbe una cinquantina di produzioni diverse nel mondo, ma poi finì per perdere il favore del pubblico, o più probabilmente l’interesse dei direttori artistici dei teatri. Sbagliato, perché se proposta ora, lo stesso pubblico riscoprirebbe e apprezzerebbe un’opera che ha una sua piacevolezza da operetta ed è infusa di un sincero sentimentalismo – almeno fino al quarto atto, il più melodrammatico e “verista”. Il testo, dello stesso compositore e di Carlo Zangarini, traduce la commedia Zaza (1898) di Charles Simon e Pierre-Samuel Berton, quest’ultimo il primo Scarpia ne La Tosca di Sardou.

«Il mondo del teatro visto da dietro le quinte, il ruolo dell’attore costretto a recitare nonostante i propri problemi personali: sono temi che Leoncavallo aveva già sviscerato in Pagliacci, e che qui ritornano, seppure in un’ottica meno tragica. Ma al compositore piace mescolare le carte utilizzando temi da caffè-concerto, parodie rossiniane, romanze da salotto, stilemi operettistici. Tanti, forse troppi, sono i personaggi che affollano i camerini e il palcoscenico dell’Alcazar: su tutti domina la figura della protagonista, di cui l’opera delinea un vero e proprio ritratto psicologico. Con “energia disperata” (come prescriveva il compositore), Zazà nel terzo atto declama la sua disperazione e l’amara constatazione dell’impossibilità del suo amore: in stridente contrasto, per sottolineare ancora di più la distanza tra il suo mondo, quello del caffè-concerto, e quello di Milio, un salotto borghese, la piccola Totò suona al pianoforte un’Ave Maria di Cherubini». (Susanna Franchi)

Atto primo. Il retro del palco del caffè Alcazar di Saint-Étienne, in cui un vortice di artisti, giornalisti e camerieri si affannano per gestire la locanda nella sua ora di massima frequentazione. Dopo che una delle cantanti, Floriana ha eseguito un’aria giocosa, è il turno della star dell’Alcazar: Zazà, cantante seducente dall’irresistibile fascino. Col suo triste canto, Zazà ci informa della sua difficile infanzia di bambina abbandonata dal padre e che si deve prendere cura di una madre alcoolizzata. Zazà prova una grande attrazione per Milio Dufresne, che però mostra titubanza nel concedersi ad una donna così enigmatica e affascinante. Tentato con mille astuzie da Zazà, Milio cede e le dà un bacio appassionato prima che lei entri in scena.
Atto secondo. Milio, rattristato, confessa a Zazà di doversi assentare per quattro mesi per un viaggio di lavoro a Parigi che proseguirà poi negli Stati Uniti. Zazà è felice della sua relazione con Milio: dopo tre mesi l’amore fra i due fa che infuocarsi e aumentare. L’idillio s’interrompe quando Cascart, il cantante che solitamente duetta con Zazà e che prova un grande affetto per lei, cerca di dimostrare che Milio ha un’altra donna a Parigi. Zazà, confusa e nervosa, parte alla volta di Parigi con la sua cameriera per risolvere l’atroce dubbio.
Atto terzo. Milio in un’aria disperata esprime tutto il suo dolore perché una volta negli Stati Uniti lascerà Zazà per sempre. Mentre Milio è fuori, Zazà e la cameriera si fanno ricevere in casa sua. Mentre Zazà attende di essere ricevuta trova una lettera in salotto, che prova che Cascart aveva ragione: Milio è sposato. La tragicità della scoperta si fa acutissima quando Zazà conosce Totò, dolce figlia di Milio, che suona per lei un’Ave Maria al pianoforte. Zazà ricorda il dolore provato per l’allontanamento del padre e, distrutta, rifiuta la prospettiva di rubare all’angelica Totò il suo adorato papà Milio. Zazà abbraccia quindi Totò, riconoscendosi in quella pura creatura, e fugge di corsa mentre la moglie di Milio osserva la scena incredula.
Atto quarto. Zazà è tornata all’Alcazar e attende Milio che le ha promesso una veloce visita prima d’imbarcarsi per gli Stati Uniti. Quando Milio giunge da Zazà, ella gli dice di aver scoperto tutto della sua famiglia e di aver conosciuto la dolce Totò. Dilaniata dal dolore afferma di aver svelato alla moglie della sua relazione clandestina con lui. Milio, furibondo e terrorizzato di aver perduto la sua famiglia, la getta a terra e la insulta. Pentita, Zazà svela a Milio la verità: può tornare a casa tranquillamente perché la sua famiglia perfetta lo attende trepidante. La scena si chiude con Milio che si allontana verso la stazione per fare ritorno a Parigi e Zazà che piange la sua solitudine e il suo abbandono.

Nelle scenografie di Raimund Orfeo Voigt non c’è il contrasto tra l’ambiente del café chantant e il «ricco salotto» di casa Dufresne: tutto è molto pulito e austero, addirittura monacale è la stanza di Zazà col letto per terra e le bianche finestre. Una pedana rotante mostra i vari ambienti, anche il divano con la moglie legittima e la bambina durante l’ultimo drammatico colloquio fra i due amanti, un’ingenuità che non ci si aspetterebbe da Loy.

Molte sono le pagine puramente strumentali di Zazà che Stefan Soltész alla testa della Radio-Symphonieorchester Wien ricrea con mano leggera e trasparenza strumentale, sia che si tratti degli atmosferici interludi, sia del drammatico preludio al quarto con quelle sonorità livide e taglienti dei fiati. Più semplice l’accompagnamento delle arie e delle romanze, la cui linea melodica talora un po’ prevedibile ma sempre attenta alla parola è spesso raddoppiata dagli archi, un modo efficace per rendere il tono cabarettistico e la facilità e orecchiabilità delle melodie. Del Coro Arnold Schoenberg questa volta abbiamo solo le voci femminili per il canto fuori scena (preregistrato) delle lavandaie «giù dalla Senna».

Svetlana Aksenova si prende carico della impegnativa parte di Zazà. Instancabile e sempre intensa, il particolare timbro della voce dà un colore leggermente esotico che sta a pennello al personaggio. Particolare è anche l’emissione di Nikolai Schukoff (Milio) con bruschi salti di registro e acuti penetranti ma al limite. Più sicura la vocalità di Christopher Maltman, anche come personaggio Cascart è quello più affidabile e comprensivo. Peccato che la donna abbia scelto l’uomo sbagliato e non sia innamorata di lui, tutto sarebbe stato più facile. Ma così non avremmo avuto Zazà

La fanciulla del West

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

★★★☆☆

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 13 giugno 2021

(video streaming)

Tra Far West e Las Vegas

Riapertura al pubblico della Staatsoper di Berlino dopo la pandemia. Cinquecento spettatori sono ammessi in sala, alcune centinaia davanti allo schermo gigante rizzato nell’area del defunto aeroporto di Tempelhof e molte altre migliaia sono davanti agli schermi casalinghi per la trasmissione in streaming di La fanciulla del west, in una produzione con nomi stellari, a cominciare dal maestro concertatore, Antonio Pappano, in una delle sue poche apparizioni nel teatro berlinese, che si conferma il raffinatissimo esecutore che è. Il punto di forza dell’opera sta proprio nell’orchestrazione, che passa dalla trasparenza strumentale al pieno da musica per film ante litteram, con una forza teatrale che riscatta l’ingenuità del lavoro. E Pappano realizza tutto magistralmente, sia che si tratti del fragoroso incipit, sia dei rari momenti lirici di cui il lavoro è parco rispetto agli altri di Puccini. La partitura è in una versione ridotta, di Ettore Panizza, per poter mantenere gli strumentisti con il distanziamento previsto dalle norme sanitarie, ma il risultato non ne risente. Chi ama quest’opera non soffrirà. E chi non la ama continuerà a non amarla…

Completamente assente l’aspetto romantico o nostalgico, il Far West messo in scena dalla regista americana Lydia Steier evidenzia la violenza e la brutalità della vicenda quasi con cinico sadismo: fin dall’inizio si vede un impiccato che viene scaricato su un pickup sotto lo sguardo di un adolescente che è obbligato ad assistere allo spettacolo. Altre esecuzioni sommarie seguiranno assieme alle continue scazzottate che incorniciano la lezione biblica dei rudi cercatori d’oro e della finale caccia all’uomo. Ambientato ai nostri tempi, la California di Belasco non è distante da Las Vegas a cui si ispirano alcuni momenti dello spettacolo, come la discesa dall’alto in un cuore di luci di Jake Wallace per la sua nostalgica ballata affiancato da due – inutili – acrobate. La “Polka” è un furgone delle bibite con insegna al neon, sul fondo si intravedono proiezioni di immagini naturalistiche, la capanna di Minnie è un’incongrua monocamera in cui bivaccano Wowkie e Billy, due drogati sfatti con un bambino, lo stesso adolescente dell’inizio, di chissà chi. Nel terzo atto la “Polka” è rovesciata, un altro impiccato penzola al cappio e il campo è come investito da un’apocalisse tinta dal cielo rosso e livido dello sfondo. La storia d’amore e redenzione di Minnie e Dick è costretta a forza in questa visione e non risolve la inattualità della vicenda.

Anja Kampe è una fervida Minnie dal registro un po’ limitato per il suo impervio ruolo (la crudeltà di Puccini per i soprani…) e il suo «Anch’io vorrei trovare un uomo» è un grido sforzato. Più a suo agio Marcelo Álvarez come Dick Johnson e Michael Volle come lo sceriffo Rance. Nick (Stephan Rügamer) è qui incomprensibilmente en travesti come bartender in pailletes e nel folto gruppo maschile si notano Viktor Rud (Happy), Łukasz Goliński (Sonora) e Grigory Shkarupa (Jake Wallace), tutti efficaci.

Capriccio

Richard Strauss, Capriccio

★★★☆☆

Dresda, Semperoper, 22 maggio 2021

(video streaming)

«Eine Oper ist eine absurdes Ding»

Con le note di un sestetto d’archi (due violini, due viole, due violoncelli) inizia l’ultima opera di Richard Strauss per le scene. Come Der Rosenkavalier, anche Capriccio è ambientato in una cornice Rococo, non un comodo rifugio dalla guerra (siamo nel 1942 e le bombe inglese incominciano a cadere sulle città tedesche), ma perché è nel secolo dei lumi che il dibattito sul predominio o meno del testo sulla musica appare in tutta la sua pregnanza con il libretto dell’abate Giovanni Battista Casti Prima la musica poi le parole messo in musica da Antonio Salieri nel 1786.

Al tramonto della sua carriera artistica Richard Strauss affronta il soggetto metateatrale della supremazia della prima sulle seconde nella composizione di un’opera per le scene. Pur superando le tradizioni classiche con il suo tono colloquiale, Capriccio gioca con numerosi riferimenti al mondo del teatro, dell’opera e delle idiosincrasie dei suoi creatori.

Sul tema discutono il musicista, il poeta e il direttore di teatro, qui nella produzione di Jens-Daniel Herzog tre vecchietti su una panchina addossata al muro di una casa dalla cui finestra con tendina di pizzo vediamo uno schermo televisivo che trasmette in bianco e nero una vecchia registrazione di Capriccio seguita con lo spartito in mano da una anziana signora. È la Contessa, una volta «Eine bedeutende Frau. Voll Geist und Charme» (Una donna coi fiocchi. Un concentrato di spirito e di fascino), qui invecchiata. Poi il muro si apre e siamo nell’austero salotto della Contessa da giovane. Una curva parete pannellata di legno fa da sfondo alla scena con poche suppellettili. Il tutto è molto semplificato rispetto alle minuziose note del libretto originale che riporta anche uno schema della disposizione scenica prevista: «Padiglione nel giardino di un castello rococò presso Parigi, al tempo in cui Gluck vi iniziò la sua riforma dell’opera. 1775 circa. La parte anteriore della sala si allarga ai due lati in spaziose nicchie semicircolari, dalle pareti parzialmente rivestite da specchi. Sul davanti a sinistra la porta che dà sul salotto della Contessa. Comodi divani, poltrone, ecc., disposti senz’ordine. Alle pareti, candele. Due gradini conducono al centro, nella zona più stretta della sala. Nella parte di sinistra, la porta che dà sulla sala da pranzo. In quella di destra, porta segreta d’ingresso al palcoscenico del teatro, e più avanti un’arpa, un leggìo e, verso il centro, un cembalo a tavolo. Nel fondo, alte porte-finestre che dànno su una terrazza con vista sul parco. Negli angoli del fondo la sala è chiusa da porte a vetri. Dietro si estendono dai due lati, diagonalmente, gallerie con finestre verso la terrazza. A sinistra si va verso l’ingresso principale del castello, a destra verso la serra».

Qui la scenografia è montata sulla solita piattaforma girevole e non c’è traccia di Settecento: l’epoca è quella della composizione del lavoro, come confermato dall’ambientazione di Mathis Neidhardt e dai costumi di Sibylle Gädeke. Solo pochi tocchi stanno lì per ricordare l’ambientazione originale, come l’abito della Contessa nel finale, quando si barda di tutto punto per cenare da sola! Più espliciti i riferimenti al periodo bellico: il muro esterno del castello è crivellato di buchi di proiettili e una freccia indica il rifugio aereo (LSR, Luftschutzraum); Flamand entra in uniforme militare come appena arrivato dal fronte e i rappresentanti del teatro che visitano il castello della Contessa sembrano dei rifugiati, ma questo aspetto non viene ulteriormente elaborato dal regista.

«In eletta melodia un alto pensiero: miglior alleanza non c’è»: afferma la Contessa dopo aver ascoltato il sonetto di Olivier messo in musica da Flamand: «In edler Melodie der schöne Gedanke – Ich denke, es gibt keinen besseren Bund!». La stessa Contessa dà una magnifica definizione del teatro: «Die Bühne enthüllt uns das Geheimnis der Wirklichkeit. | Wie in einem Zauberspiegel gewahren wir uns selbst. | Das Theater ist das ergreifende Sinnbild des Lebens» (Il palcoscenico ci rivela il segreto della realtà. Come in uno specchio magico, vediamo noi stessi. Il teatro è il simbolo struggente della vita). Più prosaico il Conte suo fratello riguardo all’opera: «è una cosa assurda: gli ordini sono dati col canto, la politica negoziata in duetti. Si danza intorno a una tomba e le pugnalate a morte sono somministrate con melodie soavi».

Nella parte della Contessa Madeleine dopo la prima interprete (Viorica Ursuleac) sono nel tempo passate Elisabeth Schwarzkopf e Lisa della Casa (anni ’60), Gundula Janowitz (anni ’70-’80), Kiri Te Kanawa (anni ’90), Renée Fleming (anni 2000). Non facile entrare in competizione oggi con quelle voci e infatti Camilla Nylund, ammirata in Wagner, non si dimostra l’ideale per l’intonazione talora precaria, un’emissione dura e una certa mancanza di sicurezza tradita dai continui sguardi verso il direttore – non è l’unica, in verità, mi sa che le prove non siano state numerose o è come se la mancanza del pubblico avesse indotto gli artisti a un minor impegno. Una non convincente regia attoriale e un’idea registica se non latitante comunque realizzata pigramente hanno fatto il resto. Solo nel finale, quando la Contessa vede sé stessa invecchiata, si prova un momento di emozione, ma l’uscita sotto i fiocchi di neve Herzog ce la poteva risparmiare.

Il Conte suo fratello ha in Christoph Pohl un interprete efficace per vivacità e ironia; il musicista Flamand è un appassionato ma elegante Daniel Behle; il poeta Olivier un misurato Nikolay Borchev; come Theaterdirektor La Roche Georg Zeppenfeld ha la parte del leone, è vocalmente autorevole ma un po’ monocorde nella sua perorazione a favore del teatro; Christa Mayer (una Clairon non proprio sex symbol…);  Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Monsieur Taupe); Tuuli Takala e Beomjin Kim (i cantanti italiani); Torben Jürgens (il maggiordomo) sono gli altri interpreti nei ruoli solistici. Ottimo l’ottetto di voci presi dal coro. La concertazione di Christian Thielemann, un indiscusso interprete della musica tedesca dell’Ottocento e primo Novecento, si destreggia magistralmente tra i momenti cameristici e quelli di più intenso sinfonismo degli interludi, con una trasparenza ideale per realizzare il tono di questa “conversazione per musica”.

Der Freischütz

 

Carl Maria von Weber, Der Freischütz

★★☆☆☆

Berlino, Konzerthaus, 18 giugno 2021

(diretta streaming)

Duecento anni dopo Der Freischütz diventa un eco-thriller

Il 18 giugno 1821 alla Königlichen Schauspielhaus di Berlino veniva presentato con esito trionfale un nuovo lavoro del trentacinquenne compositore Carl Maria von Weber, Der Freischütz. Con questa opera romantica era nata l’opera nazionale tedesca.

Duecento anni dopo la stessa sala, che ora si chiama Konzerthaus, si presenta in una nuova veste: l’orchestra è sul palcoscenico, l’azione si svolge nella platea svuotata delle sedute, il pubblico è sulla piazza del Gendarmenmarkt debitamente distanziato o a casa davanti ai monitor per lo streaming in diretta.

Quella di Carlus Padrissa e de La Fura dels Baus, autori della messa in scena, è una lettura lineare e narrativa e sfrutta i tipici elementi della compagnia catalana già fin dall’ouverture dove i corpi degli acrobati formano un cervo al galoppo con un uomo legato sopra. Un cacciatore abbatte l’animale e libera l’uomo: questa era la punizione dei bracconieri, ci racconterà Kuno. Quello della difesa della natura è il tema scelto dal regista: i fucili dei cacciatori sono tubi di vetro con cui spegnere gli incendi e alla fine l’Eremita comparirà sospeso sopra una vasca trasparente piena di rifiuti di plastica in cui cerca inutilmente di nuotare una “sirena” – riferimento alla Undine di E.T.A. Hoffmann presentata in questa stessa sala nel 1816 e favorevolmente recensita dallo stesso Weber? Chissà poi che il Samiel-pipistrellone non sia un riferimento alle possibili origini del Covid-19… Per coerenza Ottokar ha un che di draculesco.

Il regista descrive la produzione come «un viaggio alle radici dell’opera, dove il mito, la storia e la realtà attuale della foresta si incontrano. Purtroppo, le foreste e i loro interi ecosistemi stanno morendo. Il cambiamento climatico e l’interferenza umana le stanno spazzando via, attraverso il calore, la siccità, gli incendi, le infestazioni di termiti e gli attacchi dei funghi. Un terzo della Germania è coperto da foreste, per un totale di 11,4 milioni di ettari e per secoli i tedeschi si sono identificati con le loro foreste, in termini mitologici e persino spirituali. Le foreste stanno morendo e con loro anche una parte dell’anima tedesca. Nella nostra nuova produzione scaviamo a fondo in questo inquietante tema socio-ecologico. Nel processo, la Konzerthaus diventa un’installazione di miti».

Teli fluttuanti su cui vengono proiettate immagini “suggestive” trasformano la sala in uno spazio a navate che quando canta il coro ha lo stesso effetto di riverberazione del suono di una chiesa. L’ambiente è fin dall’inizio immerso in una scura atmosfera, la casa di Agathe essendo l’unico momento di luminosità dello spettacolo. Assieme alle nebbioline, le proiezioni sono l’elemento significativo di questo allestimento, ma raggi laser e luci verdi non bastano e la scena della Tana del lupo è una delle più deludenti mai viste. Gli zaini dei cacciatori impilati uno sull’altro con le teste di cervo sanguinolenti formano i muri della casa di Agathe, anche gli immacolati grembiuli delle damigelle saranno alla fine macchiati di sangue. Che a un povero figurante tocchi poi fare la parte del cane Nero con la lingua penzolante è una cosa inutile e imbarazzante.

Tagliate le danze del primo atto e accorciati i dialoghi, Christoph Eschenbach non riesce a evitare qualche scollamento tra orchestra e coro data la sua strana disposizione a fianco dell’orchestra. Sovente gli assoli sono eseguiti con lo strumento “in scena”: il violoncellio accanto ad Agathe per la sua aria «Und ob die Wolke sie verhülle»; il clarinetto chiamato dalla spigliata Ännchen («Suona qualcosa») per accompagnarla in «Kommt ein schlanker Bursch gegangen».

Jeanine de Bique è una liricissima Agathe, ma i suoi fiati sono messi alla prova dai tempi catatonici del direttore e la dizione non è il suo forte. Anna Prohaska è la stessa recente Ännchen di Monaco, qui particolarmente vivace e non sempre precisa. Benjamin Bruns è un tenore di voce chiara che non riesce a definire vocalmente il personaggio di Max qui costantemente rabbuiato. Molto più incisivo il Kaspar di Christof Fischesser e soprattutto quella simpaticissima canaglia di Kilian, uno spassoso Viktor Rud. Franz Hawlata (Kuno) utilizza al meglio mezzi vocali purtroppo usurati mentre Mikhail Timoshenko è un Ottokar vocalmente glorioso.

Pastorelle en musique

Georg Philipp Telemann, Pastorelle en musique

★★★☆☆

Potsdam, Sansouci Schlosstheater, 19 giugno 2021

(diretta streaming)

Amori di pastori

È partita l’estate degli spettacoli nei teatrini storici: se siete a Potsdam per i Musikfestspiele – che festeggiano quest’anno i trent’anni – e la serata oltre alla cena al fresco comprende anche uno spettacolo, dalla rappresentazione allo Schlosstheater di Sansouci non vi aspettate certo un qualcosa di diverso da quello che vi viene debitamente fornito: orchestra che segue una prassi esecutiva storicamente informata (ma non troppo…), quinte e fondali dipinti, personaggi che si atteggiano come statuine di biscuit, passettini, inchini, gesti stereotipati, movimenti tesi a formare graziosi gruppetti in costumi settecenteschi, guance col carminio, labbra rosse, ghirlande di fiori, gonne che dondolano con le braccia… Così è infatti per l’allestimento di questa rarità di Georg Philipp Telemann.

Pastorelle en musique oder Musicalisches Hirten-Spiel è una serenata in un atto del prolifico compositore che ammiriamo soprattutto per le sue Passioni, le Cantate, le composizioni cameristiche, le Suites per orchestra e i Concerti, piuttosto che per le sue opere teatrali, trentadue e di vario genere: Singspiel, Nachspiel, intermezzo, serenata, opéra comique, musicalisches Drama.

Vedovo in giovane età alla morte per complicanze da parto della moglie Amalie Louise Juliane Eberlin dopo la nascita nel 1711 della prima figlia, Telemann affrontava un tema, quello dei sentimenti primaverili, eternamente giovane: «Praticare il dolce amore come vogliamo è il nostro scopo e piacevole gioco» cantano i pastori della Pastorelle. Come il titolo, anche il testo, dello stesso compositore, è franco-tedesco.

I ragazzi Damon e Amyntas sono innamorati, ma non è facile per loro: si trovano di fronte a un gruppo di pastorelle ribelli incitate a canti di libertà da Caliste e Iris, gli oggetti dei loro sentimenti. Non si parla di “amore libero”: piuttosto, le ragazze hanno paura di arrendersi a Cupido, perché allora la loro libertà può finire molto rapidamente. Caliste rimprovera il maschio Damon con suono di tromba e fuoco di colorature. D’altra parte l’aria di Amyntas non manca di avere un effetto su Iris. Quando poi si chiede: «Devo amare?», l’orchestra dipinge vividamente il suo vacillamento tra sì e no, e anche qui un basso molto attivo rivela il movimento interiore: ma le figure danzanti e cadenti dei violini lasciano già presagire quale sarà la decisione. L’amico comune di Damon e Amyntas, Knirfix, pensa di essere l’unico rappresentante di buon senso tra tutti i pastori pazzi. Non è innamorato, dopo tutto, e non è nemmeno sicuro che il sesso sia meglio del cibo. Gli uomini, pensa, non dovrebbero essere dei piagnucoloni davanti alle ragazze per avere successo, e le ragazze non dovrebbero essere così esigenti perché il coniuge perfetto comunque non esiste. Abituato di solito a usare l’idioma francese per guadagnare punti con le demoiselles attraverso la galanteria mondana, lamenta la sua sfortuna alle stelle in tedesco e respinge burberamente il canzonatore. Per lui è ormai chiaro: «Se deve sempre nevicare quando sono libero, beh, me ne starò alla larga!». Naturalmente, questa non è un’opzione valida per Damon e Amyntas. Quest’ultimo annuncia il suo ritorno trionfale con trombe giubilanti: Iris ha detto sì! Così può facilmente offrire una consolazione a Damon, ora di nuovo credibilmente disperato in francese. Ma non tutto è ancora finito, perché Caliste ha una nuova palpitazione, come ammette a sé stessa in un’incantevole aria con oboe obbligato, e si mette a dormire con una sinfonia di flauti. Forse dopo sarà più calma e più saggia. Quando Damon appare insieme a tutto il coro dei pastori Caliste si sveglia e nulla è chiaro, ma Damon ricorre all’arma più affilata dell’amante: il ricatto emotivo. Ai suoi piedi, vuole morire qui e ora se lei non cede alla sua corte. Iris e Amyntas aumentano ancora di più la pressione dipingendo la propria felicità amorosa accompagnata da archi esuberanti. Caliste è già commossa, però: «Dare via il proprio cuore per sempre è davvero da prendere in considerazione». Ha ragione, ma cosa potrebbe mai seguire la festosa intrada con i corni se non un doppio matrimonio? Per cui Knirfix manda senza mezzi termini le due coppie a letto. Per il lieto fine ritorna la musette dell’inizio, questa volta guidata dagli sposi.

Il fatto che questo gioiello musicale – per quanto ne sappiamo è la prima opera completa di Telemann – sia arrivato fino a noi è un colpo di fortuna ed è stato riscoperto due volte, indipendentemente l’uno dall’altro, da uno studente di musica ucraino e da un musicologo tedesco. Ci vogliono degli specialisti per scoprire ciò che questo lavoro ha da offrire.

Che Telemann potesse essere considerato già all’epoca un appassionato conoscitore della musica francese, questo si sapeva. Si è scoperto che ha attinto a un modello di Molière e Lully per la Pastorelle: un interludio del Divertissement Royal Les Amants magnifiques in cui il Re Sole stesso ha danzato sul palco per l’ultima volta. Telemann ha adattato l’originale in modo molto creativo riprendendo anche direttamente alcuni versi. Probabilmente è il primo compositore tedesco ad aver messo in musica Molière.

Dopo l’ouverture, un vero e proprio concerto con il suono festoso di una tromba, Damon, come capo del coro dei pastori, delinea immediatamente il tono francese galante che rimarrà il suo marchio di fabbrica, rusticamente fondato com’è dal basso bordone della musette, la variante francese della cornamusa, che non è presente qui come strumento, ma che con il suo suono indispensabile per il sentimento rococò del pastore ha prestato il suo nome a un intero genere musicale. Questa musette proviene da una musica teatrale francese come anche le altre arie di Damon (alle quali il poeta-compositore poliglotta ha aggiunto la propria traduzione) che hanno come fonte una raccolta di canzoni stampata a Parigi nel 1713. Telemann ha così regalato al suo pubblico dei successi attuali, freschi di Francia! Lì, però, l’Italia era musicalmente presente all’epoca e così, oltre a un’aria originale francese e malinconica come «Vos rigueurs, mon enfant», con «Règne, Amour, sur mon âme» si sente anche un’aria cantata nello stile italianizzante.

La Pastorelle è stata messa in scena per la prima volta alla Komische Oper di Berlino nel 2004, la prima registrazione completa è stata pubblicata su CD nel 2005 e un’edizione-studio della partitura è disponibile dal 2014.

La produzione attuale è trasmessa dal vivo in streaming – che però ha sofferto di ogni problema: mancanza di sincronia tra immagini e suoni, bassa definizione, interruzioni, incertezze nella regia video – e permette di farsi una buona idea del lavoro musicale, affidato qui al Vocalconsort Berlin e all’Ensemble 1700 diretti da Dorothee Oberlinger, sovrintendente dei Musikfestspiele Potsdam. La sua lettura è brillante ed esalta i colori della partitura con tempi comodi e una scelta oculata dell’equilibrio tra strumenti e voci, qui affidate al soprano Lydia Teuscher, una sensibile Caliste; al soprano Marie Lys, vivace Iris; al controtenore Alois Mühlbacher, Amyntas; al baritono Florian Götz, Damon; al tenore Virgil Hartinger, Knirflix. Di livello decisamente superiore è il reparto femminile. Della “regia” di Nils Niemann s’è già detto. Gli spettatori vanno a dormire contenti di aver assistito a uno spettacolo filologico, come «si faceva allora» – anche se ci sarebbe molto da ridire.

Lo spettacolo si potrà vedere a luglio al Markgräfliches Opernhaus di Bayreuth e ad agosto alle Festwochen der Alten Musik di Innsbruck.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Amburgo, Staatsoper, 20 marzo 2021

(video streaming)

L’incubo maschilista di Lucia

Non è la prima regia femminile per Lucia di Lammermoor: la tragica vicenda della disgraziata giovane, vittima dell’universo maschile che la circonda, ha già destato l’interesse, tra le altre, di Katie Mitchell. Ora Amélie Niermeyer, che a Vienna aveva urtato il pubblico con la sua Leonore, a Berlino non rinuncia a una lettura femminista del lavoro donizettiano.

La Lucia della Niermeyer non è una romantica eroina ottocentesca, è una ragazza di oggi, ben decisa, che non sviene – «Ella sta fra morte e vita!…» dice il libretto, ma qui invece sfida apertamente il fratello che le impone il matrimonio gettando per terra il manichino con l’abito da sposa – e non muore per amore: nella drammaturgia di Rainer Karlitschek scopriamo (spoiler alert!) che alla fine è viva ma è tenuta prigioniera nella sua camera e che il suo funerale è una messa in scena per far crollare il detestato Edgardo di Ravenswood. Prima e durante lo spettacolo (talora poco opportunamente) vengono proiettate le immagini di un gruppo di femministe che danzano per strada, o meglio eseguono dei gesti che anche Lucia ripete cantando

La scenografia di Christian Schmidt mostra un interno diviso in quattro ambienti su due piani distinti da colori e luci differenti montati su un piano scorrevole che può aumentare o diminuire l’ampiezza degli ambienti fino a nascondere alla nostra vista gli ambienti di destra, tra cui la camera di Lucia al primo piano. E infatti nel finale, mentre vediamo il finto funerale e il suicidio di Edgardo a sinistra, piano piano ci viene mostrata Lucia imbavagliata e legata al letto con un suggestivo effetto cinematografico. Molte belle ed efficaci sono le luci di Bernd Purkrabek, ma la regia è anche attenta alla musica, come durante le battute introduttive alla stretta «La pietade in suo favore», momento spesso imbarazzante in cui il baritono non sa che fare in attesa della sua battuta, e qui Enrico è alla ricerca di un accendino per la sua sigaretta. Subito dopo l’introduzione con arpa, che permetterebbe il cambiamento di scena, qui accompagna solo la transizione luminosa che suggerisce l’imbrunire nel parco e la “fonte” è un pianoforte verticale su cui suona la confidente/carceriera Alisa. Più psicologicamente intenzionali sono alcuni momenti come quello di «Verranno a te sull’aure», con i due giovani già irrimediabilmente separati. La puntatura finale del duetto sembra suggellare l’incolmabile distanza invece che esaltare il loro sentimento.

Alla guida dell’orchestra del teatro, talora manchevole soprattutto nei fiati, Giampaolo Bisanti dà una lettura drammatica e chiaroscurale e per la scena della pazzia di Lucia reintroduce il suono sidereo della glasharmonica, qui dei veri e proprio bicchieri di vetro suonati da un virtuoso, credo Sascha Reckert, ma il suo nome non viene citato nei credits.

Purtroppo i recitativi sono spesso accorciati ed è tagliata, secondo una infausta consuetudine dura a morire, la scena Edgardo-Enrico (seconda e terza de “Il contratto nuziale II”). È ripristinata invece la scena Lucia-Raimondo (terza de “Il contratto nuziale I”) che ridà importanza drammaturgica al personaggio del confidente con il quale si completa il ritratto degli uomini che opprimono la ragazza – lui con la scusa della religione, «Al ben de’ tuoi qual vittima | offri Lucia, te stessa; | e tanto sacrifizio | scritto nel ciel sarà». Il problema del distanziamento per i coristi è risolto anche qui con il coro fuori scena e con figuranti e mimi mascherati sul palcoscenico, soluzione riuscita dal punto di vista teatrale, un po’ meno da quello dell’equilibrio sonoro.

Ritorna nella parte che aveva portato a Monaco tre anni fa il soprano russo Venera Gimadieva, cantante non esaltante dal punto di vista espressivo, da un buon registro acuto facilitato però da un abbassamento di tono in questa versione. Ma non c’è alcun feeling con il suo Edgardo, qui un Francesco Demuro che non fa molto per corrisponderle: stentoreo e testosteronico il tenore italiano neanche cerca di interpretare, ma si accontenta di porgere le note, e non sempre in modo ineccepibile. Altra classe è quella di Christoph Pohl, un Enrico Ashton combattuto tra l’amore per la sorella e quello che significa un suo matrimonio per la salvezza del casato. La scelta però è quella implacabile del sacrifico della ragazza e il finale a sorpresa lo rende ancora più crudele. Alexander Roslavets è efficace nella ipocrisia di Raimondo che la regista fa incongruamente esultare quando lui riesce a ottenere dalla ragazza un primo assenso alle nozze. Ancora più viscido del solito è il personaggio di Normanno affidato qui a Daniel Kluge. Beomjin Kim è lo sventurato Arturo Bucklaw.