Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Amburgo, Staatsoper, 20 marzo 2021

(video streaming)

L’incubo maschilista di Lucia

Non è la prima regia femminile per Lucia di Lammermoor: la tragica vicenda della disgraziata giovane, vittima dell’universo maschile che la circonda, ha già destato l’interesse, tra le altre, di Katie Mitchell. Ora Amélie Niermeyer, che a Vienna aveva urtato il pubblico con la sua Leonore, a Berlino non rinuncia a una lettura femminista del lavoro donizettiano.

La Lucia della Niermeyer non è una romantica eroina ottocentesca, è una ragazza di oggi, ben decisa, che non sviene – «Ella sta fra morte e vita!…» dice il libretto, ma qui invece sfida apertamente il fratello che le impone il matrimonio gettando per terra il manichino con l’abito da sposa – e non muore per amore: nella drammaturgia di Rainer Karlitschek scopriamo (spoiler alert!) che alla fine è viva ma è tenuta prigioniera nella sua camera e che il suo funerale è una messa in scena per far crollare il detestato Edgardo di Ravenswood. Prima e durante lo spettacolo (talora poco opportunamente) vengono proiettate le immagini di un gruppo di femministe che danzano per strada, o meglio eseguono dei gesti che anche Lucia ripete cantando

La scenografia di Christian Schmidt mostra un interno diviso in quattro ambienti su due piani distinti da colori e luci differenti montati su un piano scorrevole che può aumentare o diminuire l’ampiezza degli ambienti fino a nascondere alla nostra vista gli ambienti di destra, tra cui la camera di Lucia al primo piano. E infatti nel finale, mentre vediamo il finto funerale e il suicidio di Edgardo a sinistra, piano piano ci viene mostrata Lucia imbavagliata e legata al letto con un suggestivo effetto cinematografico. Molte belle ed efficaci sono le luci di Bernd Purkrabek, ma la regia è anche attenta alla musica, come durante le battute introduttive alla stretta «La pietade in suo favore», momento spesso imbarazzante in cui il baritono non sa che fare in attesa della sua battuta, e qui Enrico è alla ricerca di un accendino per la sua sigaretta. Subito dopo l’introduzione con arpa, che permetterebbe il cambiamento di scena, qui accompagna solo la transizione luminosa che suggerisce l’imbrunire nel parco e la “fonte” è un pianoforte verticale su cui suona la confidente/carceriera Alisa. Più psicologicamente intenzionali sono alcuni momenti come quello di «Verranno a te sull’aure», con i due giovani già irrimediabilmente separati. La puntatura finale del duetto sembra suggellare l’incolmabile distanza invece che esaltare il loro sentimento.

Alla guida dell’orchestra del teatro, talora manchevole soprattutto nei fiati, Giampaolo Bisanti dà una lettura drammatica e chiaroscurale e per la scena della pazzia di Lucia reintroduce il suono sidereo della glasharmonica, qui dei veri e proprio bicchieri di vetro suonati da un virtuoso, credo Sascha Reckert, ma il suo nome non viene citato nei credits.

Purtroppo i recitativi sono spesso accorciati ed è tagliata, secondo una infausta consuetudine dura a morire, la scena Edgardo-Enrico (seconda e terza de “Il contratto nuziale II”). È ripristinata invece la scena Lucia-Raimondo (terza de “Il contratto nuziale I”) che ridà importanza drammaturgica al personaggio del confidente con il quale si completa il ritratto degli uomini che opprimono la ragazza – lui con la scusa della religione, «Al ben de’ tuoi qual vittima | offri Lucia, te stessa; | e tanto sacrifizio | scritto nel ciel sarà». Il problema del distanziamento per i coristi è risolto anche qui con il coro fuori scena e con figuranti e mimi mascherati sul palcoscenico, soluzione riuscita dal punto di vista teatrale, un po’ meno da quello dell’equilibrio sonoro.

Ritorna nella parte che aveva portato a Monaco tre anni fa il soprano russo Venera Gimadieva, cantante non esaltante dal punto di vista espressivo, da un buon registro acuto facilitato però da un abbassamento di tono in questa versione. Ma non c’è alcun feeling con il suo Edgardo, qui un Francesco Demuro che non fa molto per corrisponderle: stentoreo e testosteronico il tenore italiano neanche cerca di interpretare, ma si accontenta di porgere le note, e non sempre in modo ineccepibile. Altra classe è quella di Christoph Pohl, un Enrico Ashton combattuto tra l’amore per la sorella e quello che significa un suo matrimonio per la salvezza del casato. La scelta però è quella implacabile del sacrifico della ragazza e il finale a sorpresa lo rende ancora più crudele. Alexander Roslavets è efficace nella ipocrisia di Raimondo che la regista fa incongruamente esultare quando lui riesce a ottenere dalla ragazza un primo assenso alle nozze. Ancora più viscido del solito è il personaggio di Normanno affidato qui a Daniel Kluge. Beomjin Kim è lo sventurato Arturo Bucklaw.

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