Autore: Renato Verga

Il canto della scienza

 

Giulia Vannoni, Il canto della scienza

184 pagine, Bulzoni Editore, 2022

Non solo amori, passioni o imprese eroiche sono stati cantati nel melodramma. “Come il teatro musicale interpreta Galileo, Einstein e gli altri” è il sottotitolo di questo testo che tratta della musica che ha per oggetto uno scienziato, un argomento che è diventato importante solo nel XX secolo. Non è che prima fossero assenti nel melodramma, ma erano motivo di umoristica presa in giro, come il Mesmerismo di Despina del Così fan tutte o il medico imbroglione Dulcamara de L’elisir d’amore o inquietante presenza, come lo Spalanzani costruttore di automi di Les contes d’Hoffmann.

Come risulterà evidente dall’elenco troveremo solo compositori ancora viventi o comunque appartenenti al Novecento: l’Ottocento a questo proposito si comporta «quasi come un buco nero», com’è il titolo dell’ultimo capitolo del libro. Buon gioco ha avuto ovviamente l’elemento irrazionalista e antiscientifico del Romanticismo nel XIX secolo, ma è anche la mancanza di una sponda letteraria indispensabile la causa di una tale trascuratezza.

Nel suo testo Vannoni prende in considerazione tutte le opere musicali che hanno come soggetto uno scienziato, dal passato ai giorni nostri. Primi fra tutti i giganti dell’astronomia. Copernico e la sua rivoluzione eliocentrica nel Kopernikus, Rituel de la mort (1980) di Claude Vivier, Copernicus (2015) di Oliver Korte, la Seconda Sinfonia “Kopernikowska” (1973) di Henryk Górecki. Il misterioso Brahe entra come personaggio del Musikdrama Der Golem (1926) di Eugen d’Albert o nel Tycho (1987) di Poul Ruders. Keplero e la sua “Armonia delle sfere” in Die Harmonie der Welt (1952) di Paul Hindemith, Keplers Traum (1990) di Giorgio Battistelli e Kepler (2009) di Philip Glass. Lo stesso Glass aveva scritto Galileo Galilei sette anni prima. Sul dramma Leben des Galilei di Bertolt Brecht si basano il Galileo Galilei (1964) di Corneliu Cezar e il Galilei (2006) di Michael Jarrell. Newton si deve accontentare invece di essere menzionato nella Émilie (2010) di Kaija Saariaho che dedica il suo “monodramma in nove scene” alla marchesa Émilie du Châtelet a cui si deve la divulgazione, durante l’Illuminismo, dei Principia.

“La scienza conosce il peccato” è il titolo del capitolo dedicato da Vannoni agli scienziati del Novecento. Con Albert Einstein i compositori moderni prendono a modello il massimo fisico del secolo per parlare della problematicità della scienza e del suo rapporto con la politica, la società e l’ambiente, come nell’Einstein (1974) di Paul Dessau. Mentre Einstein on the Beach (1976), ancora di Philip Glass, è opera metafora della relatività di spazio e tempo in una composizione che ha rivoluzionato il teatro d’opera grazie alla regia e alla drammaturgia di Robert Wilson, le coreografie di Lucinda Childs, la poesia di Christopher Knowles, la recitazione di Samuel M. Johnson.

Al nostro passato prossimo appartengono anche le figure di Marie Curie, soggetto di Madame Curie (2011) di Elżbieta Sikora; Robert Oppenheimer, il personaggio tormentato di Doctor Atomic (2005) di John Adams; Ettore Majorana, figura emblematica della questione morale nella scienza moderna e carica di mistero irrisolto. Al fisico siciliano si è dedicato il compositore italiano Roberto Vetrano con la sua “opera in n variabili” Ettore Majorana, Cronaca d’infinite scomparse (2017).

Ma la figura scientifica che ha maggiormente stuzzicato la fantasia dei musicisti sembra sia al momento Turing: The Life and Death(s) of Alan Turing (commissionato nel 2005 ma andato in scena solo nel 2023) di Justine F. Chen; Enigma, The Life and Death of Alan Turing (2012) di Barry Truax; Code Breaker: the Alan Turing Story (2014) di James McCarthy, per soprano solo, coro e orchestra; Sentences (2015), monologo drammatico per controtenore e orchestra di Nico Muhly; Anathema: the Turing Opera (2017) di William Antoniou; Turing Machine (2008), lavoro multimediale composto da una trilogia e due installazioni dei finlandesi Eeppi Ursin e Visa Oscar. Ma forse il lavoro più intrigante è I am Turing (2020), progetto di Matthew Suttor e un team dell’Università di Yale: un dialogo tra macchine e un libretto generato tramite un modello di intelligenza artificiale.

La mappatura di Giulia Vannoni continua con le figure di Darwin, soprattutto i suoi conflitti famigliari come in Darwin (2017) del compositore danese Niels Marthinsen e On the Origin (2010), ancora di Justine F. Chen. Sulla figura di Tesla l’azione drammaturgica in tre scene Tesla (2009), dell’italiano Raffaele Grimaldi, o Les éclairs (2021) di Philippe Hersant.

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Da una casa di morti

 

Leos Janacek, Z mrtvého domu (Da una casa di morti)

Roma, Teatro dell’Opera, 23 maggio 2023

★★★☆☆

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L’Opera di Roma cerca di recuperare la lunga latitanza di Janáček dai suoi cartelloni 

Metti un’opera di enorme violenza espressiva, un vero pugno nello stomaco per la brutalità di vite che scontano nella più crudele delle situazioni – punizioni corporali, umiliazioni, solitudine, paura – la loro colpa, grande o piccola che sia.

Metti un regista che della forza espressiva, del pugno nello stomaco dello spettatore, ha fatto la sua cifra stilistica. Sembrerebbe il più adatto a mettere in scena l’ultima opera di Leoš Janáček. Invece… in questi casi less is more, la semplicità è preferibile alla complessità. Infatti, è proprio questo a creare la debolezza di questa produzione: per l’eccesso di iperattività e distrazioni visive i personaggi diventano indistinti, si perdono i dettagli degli individui, soprattutto si perde la concentrazione per la musica. E la musica merita molta attenzione, mai come in questo caso.

Janáček inizia a comporre Da una casa di morti quando ha 72 anni, lavorandoci intensamente per un anno e mezzo spinto da una premonizione: nel 1927 scrive in una lettera «sto terminando un grande lavoro e a dire il vero mi sembra che possa essere la mia ultima opera». Il compositore morrà infatti nell’agosto 1928 lasciando in parte incompleto il terzo atto e il lavoro verrà rappresentato postumo nel 1930 in una versione rimaneggiata. Il valore profetico dell’ultima opera di Janáček è stato messo ben in evidenza dallo scrittore ceco Milan Kundera: «I tre maggiori monumenti d’arte che il mio paese ha creato in questo secolo rappresentano le tre pale del quadro dell’inferno futuro: il labirinto burocratico di Kafka, la stupidità militare di Hašek [Il buon soldato Švejk], la disperazione concentrazionaria di Janáček. Sì, da il Processo a Da una casa di morti, a Praga era stato detto tutto e la Storia non aveva che da entrare in scena per mimare ciò che la finzione aveva già immaginato».

Con la sovrintendenza di Francesco Giambrone e la direzione musicale di Michele Mariotti, il vecchio Leoš riprende il posto che gli è dovuto nei cartelloni del teatro romano: prima della Káťa Kabanová dell’anno scorso bisogna risalire infatti al 1972 e prima ancora al 1952 per trovare un altro suo titolo, Jenůfa, l’unica sua opera eseguita nella capitale. La produzione ora in scena per sei rappresentazioni è quella nata a Londra nel 2018 e poi trasferita a Bruxelles. La messa in scena è affidata a uno dei registi del momento, Krzysztof Warlikowski per la prima volta in Italia, di cui si ricordano buone prove – il Wozzeck di Amsterdam, la Lady Macbeth del distretto di Mcenskdi Parigi – ma anche tante altre produzioni molto meno convincenti. Con la drammaturgia di Christian Longchamp e la scenografia e i costumi di Małgorzata Szczęśniak, Warlikowski ambienta la vicenda in una prigione dei nostri giorni. 

La critica del filosofo francese Michel Foucault al sistema carcerario – che a suo dire, non solo non educa il delinquente, ma è economicamente improduttivo, ma viene mantenuto perché aumenta la delinquenza e la minaccia di questa è un fattore di accettazione dei controlli polizieschi nelle nostre democrazie – è espressa in un’intervista del 1976 che vediamo proiettata durante la ouverture. Tra sottotitoli in due lingue e immagini si perdono le note che Janáček predispone al suo dramma e le cose non migliorano nella prima scena, con l’arrivo di Gorjančikov e la sua prima gratuita salva di frustate – quante frustate! si contano a migliaia nell’originale di Dostoevskij Memorie dalla casa di morti da cui deriva il libretto dell’opera. Si percepisce appena che cosa succede in quell’angolo della gabbia che funge da ufficio del direttore della prigione, distratti come si è da quello che avviene nel resto della scena occupata da un campo da pallacanestro in cui un giovane si sta allenando mentre gli altri detenuti bighellonano. Anche al monologo di Skuratov nessuno presta ascolto, se non il pubblico. 

Il pietismo cristiano di Dostoevskij è del tutto assente nella lettura del regista polacco. Non c’è speranza di redenzione per i personaggi che vediamo in scena. Il messaggio di libertà affidato all’aquila che alla fine riesce a spiccare il volo, un’invenzione bellissima di Janáček, qui è affidato a un pallone che un giovane, dopo la convalescenza in carrozzella, riesce a mettere nel canestro. Un finale del tutto coerente con la lettura del regista e a suo modo efficace, ma lontano sia dal messaggio dello scrittore russo sia da quello del compositore moravo. Cosa lecita, certo, nella lettura di un testo teatrale, ma in questo caso è più quello che si perde di quello che si acquista. 

È poi difficile immedesimarsi nelle inumane condizioni di carcerazione che sia Dostoevskij che Janáček volevano condannare se la prigione in cui avviene la vicenda è a suo modo ariosa, ben riscaldata, le tute sono pulite, c’è la televisione sempre accesa sui programmi sportivi, ci si distrae con la breakdance. La triste pantomima del secondo atto diventa qui uno spettacolo di burlesque con costumi sgargianti, una prostituta scosciata, degli acrobati, del travestimento, delle bambole gonfiabili e fiumi di champagne. La stessa prostituta sarà poi sempre presente anche durante il racconto di Šiškov trasformando questo allucinato e angoscioso monologo in un’altra, inutile, pantomima.

Se la rappresentazione visiva dello spettacolo soffre di questo realistico iper-immaginario, l’esecuzione musicale è invece da lodare. La concertazione del giovane direttore Dmitrij Matvienko, per la prima volta alle prese con la musica di Janáček, è di grande efficacia nel ricreare la straordinaria invenzione timbrica e i colori di una partitura di cui si conosce la vera versione solo da pochi anni. L’esecuzione è vigorosa ma precisa e attenta ai dettagli e cerca di equilibrare al meglio il volume della buca orchestrale con le voci in scena, voci di grande livello per tutti i numerosi interpreti. Come il nobile Mark S. Doss, l’aristocratico imprigionato per le idee politiche che conserva la sua umanità insegnando a leggere al giovane tartaro Aljeja, il disinvolto Pascal Charbonneau. Štefan Margita è Filka Morozov, che col nome di Luka Kuzmič muore con la maledizione del rivale Šiškov, un intenso Leigh Melrose. Skuratov ha la voce e la presenza scenica di Julian Hubbard, mentre Erin Caves è il Grande Prigioniero. Il detestabile direttore della prigione trova la giusta rappresentazione con Clive Bayley. Uno dei pochi cantanti italiani del cast è Marcello Nardis, indiavolato Kedril. In Da una casa di morti le uniche donne sono quelle del passato dei detenuti, le infelici Luiza e Akulka, ma Janáček ha voluto inserire le poche battute di una anonima prostituta, qui Carolyn Sproule.

I novanta ininterrotti e intensi minuti sono stati accolti dal pubblico romano con favore. Sono addirittura mancati i dissensi nei confronti del regista. L’Opera di Roma ha così finalmente recuperato la lunga assenza dal suo palcoscenico di uno dei maggiori autori del teatro moderno. Gli altri sette titoli della sua produzione aspettano di trovare ora nuova vita anche qui.

Stagione Sinfonica RAI

 

Alban Berg, Drei Orchesterstücke, op. 6

I. Präludium
II. Reigen
III. Marsch

Jean Sibelius, Lemminkäinen Suite, op. 22

I. Lemminkäinen e le ragazze di Sari
II. Lemminkäinen in Tuonela
III. Il cigno di Tuonela
IV. Il ritorno di Lemminkäinen

Kirill Petrenko direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 24 maggio 2023

Kirill Petrenko chiude la stagione dei concerti RAI 

Siamo fin troppo abituati ad associare in maniera quasi indissolubile i nomi Schönberg-Berg-Webern, i tre fondatori della Seconda Scuola di Vienna, che quasi dimentichiamo le profonde differenze tra l’uno e l’altro e l’altro ancora.

I Drei Orchesterstücke, dedicati da Alban Berg ad Arnold Schönberg, sembrano voler rimarcare l’emancipazione dal maestro e sottolineare il differente approccio del suo autore rispetto al creatore della dodecafonia e dell’atonalismo. Tanto il secondo voleva scardinare con la sua musica quella del passato, tanto il primo, con gli stessi mezzi musicali, ne riprendeva la gloriosa eredità traghettandola nel nuovo secolo. I Tre pezzi orchestrali op. 6 sono un grandioso omaggio al mondo del sinfonismo mahleriano, ma siamo alla vigilia del conflitto mondiale e la “Marcia” del terzo pezzo prefigura le insensate atrocità che verranno e che Karl Kraus denuncia nel suo apocalittico Gli ultimi giorni dell’umanità. Una diretta influenza letteraria è invece quella del secondo pezzo: Reigen (Girotondo), di Arthur Schnitzler, aveva scandalizzato la società viennese con una girandola di giochi di coppie che qui prende la forma di un valzer beffardo che alla fine si tramuta in un incubo. Un serrato contrappunto di temi fortemente caratterizzati dal ritmo è invece la sostanza del primo pezzo, “Preludio”.

Con il secondo brano in programma si affronta il tema delle scuole nazionali che dall’Ottocento fino a Novecento inoltrato hanno portato il loro contributo al rinnovamento della musica, sia sinfonica, sia teatrale che da camera. Dalla Finlandia arriva Jean Sibelius, un compositore ampiamente sottovalutato e ogni ascolto conferma questa tesi. La Lemminkäinen Suite comprende brani che dovevano far parte di un’opera tratta da un episodio del poema epico Kalevala di Elias Löhnrot (1835) con cui veniva fondata la lingua finnica moderna. Luoghi e avvenimenti del Kalevala erano già stati presenti nel Kullervo, una suite di movimenti sinfonici composta nel 1892, ma Sibelius ci ritorna con questa nuova composizione del 1894, conosciuta anche come “Quattro leggende dal Kalevala”, intitolata al personaggio di Lemminkäinen, figura sciamanica della mitologia finnica, un po’ Parsifal, un po’ Don Giovanni, un po’ Don Chisciotte. La natura lirica del linguaggio musicale di Sibelius, fortemente impressionista ma nello stesso tempo legato ai temi del folklore della sua terra, pervade questi quattro pezzi in cui è inutile ricercare legami narrativi col racconto mitologico: bisogna invece lasciarsi trasportare dalla particolare tinta strumentale, dai fiabeschi paesaggi sonori a cui l’onnipresente rullo della grancassa dà grande profondità, dalle struggenti melodie del violoncello o dei legni.

Sarebbe potuto arrivare con una Quarta, una Quinta, una Sesta qualsiasi, e invece ha scelto un programma raffinatissimo e poco popolare per l’ultimo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. Così ha lasciato ancor più il segno della sua presenza in due lavori a loro modo diversamente emblematici della musica del Novecento. Sul podio Kirill Petrenko se non un’esperienza mistica è un avvenimento che non lascia indifferenti. Con la sua concertazione il suono assume una sontuosità quasi mai ascoltata, l’orchestra è come trasfigurata, i timbri degli strumenti esaltati, la complessa rete polifonica dei temi resa logica e distinta, i pianissimi nascono come per magia dal silenzio, i fortissimi non hanno il fragore materico che talora possono avere. È sempre Musica con la maiuscola quella dipanata con gesto ampio ed espressivo. Solo da un grandissimo come lui può poi arrivare una lezione di umiltà: assieme al direttore artistico Ernesto Schiavi scende dal podio per introdurre i pezzi di Alban Berg facendoci ascoltare prima i momenti salienti per meglio apprezzarli dopo. E con la sua voce dal forte accento slavo il direttore russo ha anche parole per sottolineare il dolore di ascoltare suoni che richiamano una guerra così vicino a noi.

Dal 2019 direttore principale e direttore artistico dei Berliner Philharmoniker, Petrenko è stato per sette anni direttore musicale della Bayerische Staatsoper. Per il più osannato e ricercato direttore d’orchestra del mondo ci si aspettava che il pubblico prendesse d’assalto la sala dell’Auditorium Toscanini, ma così non stato. A mala pena si è arrivati a tre quarti dei posti di platea, con le gallerie desolatamente vuote. C’è però  ancora una possibilità per rimediare: il concerto viene replicato giovedì 25 maggio alle 20.30. Sarebbe imperdonabile mancare anche questo appuntamento.

The Snow Queen

Hans Abrahamsen, The Snow Queen

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 21 dicembre 2019

★★★★☆

(video streaming)

La favola di Andersen diventa un onirico e inquietante spettacolo

Snedronningen (La regina delle nevi) è stata presentata in anteprima nell’ottobre 2018 al Kongelige Teater di Copenaghen nella lingua del suo compositore, il danese Hans Abrahamsen. A 66 anni, è la sua prima opera lirica. Tratto ovviamente dal racconto omonimo di Hans Christian Andersen del 1844, il libretto non si scosta molto dalla fiaba che è strutturata in sette storie. (1)

Atto I. I bambini Gerda e Kay ascoltano la nonna che racconta loro della Regina delle Nevi e Kay immagina di portare la Regina delle Nevi nella stanza calda e di vederla sciogliere. Gerda racconta che il diavolo ha creato uno specchio magico che fa sembrare brutto tutto ciò che è bello e che si è rotto in un milione di piccoli pezzi. Spiega che chi si fosse procurato una di queste schegge nell’occhio o nel cuore avrebbe visto solo le imperfezioni delle cose; la freddezza avrebbe intorpidito il cuore. Quella notte, Kay è così spaventato che non riesce ad addormentarsi. Quando vede la Regina delle Nevi alla finestra è terrorizzato. Mentre Gerda e Kay guardano le rose in fiore, Kay viene improvvisamente trafitto da qualcosa nel cuore e poi nell’occhio. Da questo momento in poi, anche lui vede solo l’imperfezione dei fiori e allora si prende gioco di Gerda e fa a pezzi le rose. L’amicizia tra Kay e Gerda si indebolisce. Invece di giocare con lei, Kay preferisce giocare con gli altri ragazzi che non lo lasciano partecipare al loro gioco. Allo stesso tempo, Kay ammira la simmetria e la perfezione dei cristalli di ghiaccio. La Regina delle Nevi appare sulla sua slitta e porta con sé il ragazzo. La Regina delle Nevi vola con Kay nel suo palazzo di ghiaccio. Lo bacia sulla fronte, facendogli perdere la sensazione di freddo e dimenticando il mondo che conosceva.
Atto II. Gerda ha iniziato la ricerca di Kay e si ritrova nel giardino della Vecchia dove i fiori le cantano la canzone delle tre sorelle morte. Ma Kay, annunciano, non è morto. Gerda lascia il giardino e continua la sua ricerca. Incontrando il Corvo della Foresta, Gerda scopre che la principessa è alla ricerca di un uomo che sia alla sua altezza in saggezza. Poiché Gerda sospetta che Kay possa essere il prescelto, il Corvo della Foresta la porta al castello del Principe e della Principessa. Arrivata al castello, il Corvo del Castello permette a Gerda di entrare, ma è subito perseguitata da apparizioni sinistre e inquietanti. Quando finalmente trova la principessa e il suo principe, si rende conto del suo errore. Il Principe e la Principessa premiano i Corvi per la loro buona azione e promettono di aiutare Gerda alla quale viene concesso di dormire nel letto del Principe. In sogno vede Kay sulla sua slitta.
Atto III. Il Principe e la Principessa hanno consegnato a Gerda la loro carrozza d’oro perché possa continuare la sua ricerca di Kay. Nella foresta la carrozza cade in un’imboscata dei briganti, che uccidono tutti i viaggiatori tranne Gerda. Con l’aiuto della renna, che la porta più a nord, Gerda incontra la Donna Iinnica. La renna racconta alla Donna Finnica di come Gerda sia stata tenuta prigioniera dai briganti e dell’ipotesi che Kay sia con la Regina delle Nevi. Alla fine la Donna Finn spiega i retroscena della scomparsa di Kay. Incoraggia Gerda nella sua ricerca, ma rifiuta di dotarla di poteri speciali, poiché Gerda è già in possesso di tutte le capacità necessarie per trovare Kay. Ordina alle renne di portare Gerda nel regno della Regina delle Nevi e di tornare indietro. Arrivata nel regno della Regina delle Nevi, la renna si congeda da Gerda baciandola sulla bocca e piangendo. Il freddo la colpisce e gli avamposti della Regina delle Nevi la invitano a tornare indietro. Ma gli angeli che nascono dal suo respiro la proteggono dalla minaccia. Nel frattempo, nel palazzo di ghiaccio della Regina delle Nevi, Kay deve affrontare il compito di trovare la parola perfetta, ma è quasi pietrificato dal freddo e dalla disperazione. La Regina delle Nevi ha lasciato il palazzo. Quando Gerda finalmente lo trova, entrambi iniziano a piangere. Attraverso le lacrime, Kay viene liberato dalle schegge negli occhi e nel cuore. Insieme Gerda e Kay scoprono la parola “eternità”. Quando Gerda e Kay tornano a casa, la nonna sta ancora leggendo un libro illustrato. Ma Kay e Gerda sono cresciuti anche se sono rimasti bambini nel cuore. È di nuovo estate.

Abrahamsen negli anni Settanta aveva già concepito un brano “invernale”, Winternacht, basato sull’omonimo poema di Georg Trakl, come un pezzo per soprano ed ensemble strumentale, ma desiderava comporre un’opera teatrale. Questo progetto fu sostenuto, tra gli altri, da Hans Werner Henze, che suggerì al compositore di comporre un’opera già negli anni Ottanta, in vista della prima Biennale di Monaco. Solo nel 2008, quando sta lavorando alla composizione di  Schnee, dieci canoni per nove strumenti, Abrahamsen riprende in mano l’idea di un’opera di teatro musicale. In quel periodo era profondamente coinvolto dal tema della neve e in questo contesto legge la fiaba di Hans Christian Andersen. Abrahamsen ne associa la forma episodica al suo Drei Märchenbilder aus der Schneekönigin, basato sul brano di Robert Schumann, in cui tratta l’idea di assemblare storie da immagini. Sulla base della fiaba, il compositore ha sviluppato un libretto d’opera, in collaborazione con il drammaturgo Henrik Engelbrecht, che prende scene selezionate della fiaba pur conservandone in gran parte il linguaggio originale. Ispirato dalla collaborazione con il soprano Barbara Hannigan per la composizione Let me tell you, ciclo per voce e orchestra, è poi cresciuto il desiderio di scrivere una parte per la sua voce.

Fredda e fragile come un fiocco di neve, la partitura di Abrahamsen è adatta ad accompagnare la inquietante e un po’ sinistra vicenda ambientata tra ghiaccio e neve. La musica è molto originale, con un tocco di minimalismo. Il suo lavoro di orchestrazione di lavori del passato – Bach, Schumann, Debussy, Schönberg, Ligeti – si ritrova nella ricchissima strumentazione di quest’opera. Il paesaggio sonoro di The Snow Queen è monocromo e fermo come un passaggio innevato, ma un intreccio di linee tematiche finisce per fornire strati di schemi ritmici delicati, costantemente ripetuti e mutevoli, transizioni appena percettibili esaltate dalla varietà timbrica di un organico sterminato – 4 flauti, due oboi, corno inglese, 4 clarinetti, tre fagotti; sei corni compresa una tuba wagneriana, due trombe, due trombe basse, tre tromboni, basso tuba; timpani, xilofono, marimba, glockenspiel, vibrafono, campane tubolari, piccoli tamburi tubolari, tamburi bassi, rullante, congas, tamburelli, cimbali, tam-tam, macchina del vento, campanelli, carta vetrata, maracas, legnetti, güiro, triangolo, fruste; 2 arpe; fisarmonica; sintetizzatore, celesta e archi. Tutto questo però non serve a fornire volume, bensì una continua varietà di colori, o meglio, di sfumature del bianco. Le linee vocali sono lasciate emergere sopra la trama orchestrale e sono anche generalmente abbastanza cantabili essendo all’interno di una gamma relativamente stretta, ad eccezione di quelle di Gerda e della Principessa, entrambe scritte con alcuni salti nella stratosfera acustica. L’uso di armonici estremamente alti negli archi, di fiati gargarizzanti o di minacciose interiezioni degli ottoni nella parte inferiore della loro gamma, crea un’atmosfera di pericolo sotto la superficie fiabesca.

Questa nuova produzione della Bayerische Staatsoper segna la prima in lingua inglese dell’opera nella traduzione di Amanda Holden. La neve è protagonista nella fiaba di Andersen e lo è anche nella messa in scena di Andreas Kriegenburg, una versione per adulti della favola. Che la Regina delle Nevi sia interpretata da un basso, che chieda a Kay di venire a baciarla e di essere protetta nel suo cappotto, che Gerda si conceda uno spazio per dormire nel letto del Principe, o ancora che Gerda baci appassionatamente la renna, sono tutti elementi che indicano qualcosa di molto oscuro, una corrente di abusi che si nasconde sotto il candore immacolato delle immagini. Nella sua lettura Kriegenburg prende il rapporto personale tra Gerda e Kay e lo sviluppa in una storia di ricerca disperata di Gerda per riconquistare il suo unico vero amore, che apparentemente soffre di apatia e mutismo dopo aver subito chissà quale  trauma. Quale sia stato questo trauma infatti non è chiaro. La sua è una messa in scena che è una meditazione sulla memoria, che trascende il tempo con molteplici versioni di Gerda e Kay, da bambini, adolescenti o adulti, in ogni momento o contemporaneamente, con il Kay adulto interpretato da un attore, l’intenso Thomas Gräßle. L’ambiente ricostruito nella scenografia di Harald B. Thor è quello di un ospedale: lettini, pigiami, suore infermiere. La presenza di altri pazienti suggerisce che il trauma di Kay non è unico. I vari piani di profondità della scena sono separati da teli traslucidi e cade in continuazione neve, tanta neve. Ricchi e suggestivi i costumi di Andrea Schraad e particolarmente riusciti quelli dei corvi.

L’eccellenza della direzione musicale di Cornelius Meister era da aspettarsela e qui se ne ha la dimostrazione: le gelide ma delicate armonie di Abrahamsen sono rese con competenza e precisione e la concertazione di cantanti e coro è impeccabile. Barbara Hannigan, per la cui voce è stata scritta la parte di Gerda, si conferma la grande artista che sappiamo: presenza scenica e vocale sono oltre ogni confronto. Nella parte del Kay che si esprime Rachael Wilson offre la sua sicura tecnica, mentre Katarina Dalayman affronta con consumata abilità i tre personaggi di Nonna, Vecchia e Donna Finnica. Come s’è detto la Regina delle Nevi ha qui la voce di un basso, l’autorevole Peter Rose, anche Renna e Orologio. Nella parti esangui del Principe e della Principessa si fanno notare per la bella prova il tenore Dean Power e il soprano norvegese Caroline Wettergreen dagli acuti svettanti. Il tenore Kevin Konners e il controtenore Owen Willetts sono i due idiomatici corvi. Sugli scudi anche il coro della Bayerische Staatsoper. 

(1) Prima storia. Lo specchio e le schegge. In questa prima sezione viene narrato l’antefatto: si racconta come un troll malvagio (in alcune traduzioni il diavolo) abbia creato uno specchio capace di fare sparire tutto ciò che di bello si specchia in esso, e di accentuare e di deformare tutto il cattivo. In seguito, lo specchio si rompe in milioni di frammenti che vengono dispersi per il mondo, entrando negli occhi e nei cuori degli uomini corrompendo le loro anime.
Seconda storia. Un bambino e una bambina. Si presentano i protagonisti, il bambino Kay e la bambina Gerda. Kay e Gerda sono vicini di casa e le loro finestre, all’ultimo piano di alti palazzi, sono unite da un piccolo giardino pensile, ricolmo di rose. Un giorno, mentre i bambini sono nel giardinetto, un frammento dello specchio malvagio entra nell’occhio di Kay. Da quel momento Kay diviene cattivo e acido con tutti, persino con Gerda. Un giorno, mentre Kay gioca con lo slittino nella piazza del paese, si attacca alla slitta della regina delle nevi e viene trascinato via, senza riuscire a staccarsi. La regina delle nevi lo incanta con un bacio, facendogli perdere la memoria e impedendogli di avvertire il freddo.
Terza storia. Il giardino fiorito della donna che sapeva compiere magie. Nella terza parte Gerda, disperata per la scomparsa di Kay, decide di andare a cercarlo. Sale su una barchetta e chiede al fiume, in cambio delle sue scarpette rosse, di portarla da Kay. La barca si arena nei pressi di una casetta in mezzo a un giardino di fiori, dove vive una vecchia maga. La maga incanta Gerda facendole dimenticare Kay e fa scomparire tutte le rose del giardino sottoterra, affinché queste non le ricordino il suo amico perduto. Ciononostante, dopo qualche tempo Gerda vede una rosa dipinta, si ricorda di Kay e, dopo avere interrogato invano tutti i fiori del giardino, riparte alla sua ricerca. Nel frattempo è arrivato l’autunno.
Quarta storia. Il principe e la principessa. Nella quarta storia Gerda incontra una cornacchia, che le racconta di come un ragazzo sconosciuto abbia da poco sposato la principessa del paese. Nella sua descrizione Gerda crede di riconoscere Kay e, con l’aiuto della cornacchia, entra nella reggia e nella stanza della principessa e del suo sposo. Però questi non è Kay, sebbene gli somigli. Commossi dalla sua storia, i principi regalano a Gerda una carrozza con la quale proseguire la ricerca.
Quinta storia. La figlia del brigante. In questa sezione Gerda viene assalita dai briganti, a causa della carrozza e dei ricchi vestiti che le sono stati donati. I briganti vogliono ucciderla, ma vengono fermati dalla figlia del capo, che desidera che Gerda diventi la sua compagna di giochi. La figlia del brigante tiene prigionieri due colombi selvatici e una renna, i quali, dopo avere ascoltato la storia di Gerda, le dicono di avere visto Kay in Lapponia, nel palazzo della regina delle nevi. La figlia del brigante lascia liberi Gerda e gli animali, che partono per la Lapponia.
Sesta storia. La donna di Lapponia e la donna di Finlandia. Gerda trova ospitalità in Lapponia presso una povera donna. La donna di Lapponia le affida un messaggio – scritto su un pesce – per la donna di Finlandia, che potrà aiutarla. La donna di Finlandia, una maga, spiega a Gerda dove sia il palazzo della regina delle nevi e le spiega che non avrà bisogno di altri poteri per sconfiggere la regina oltre quelli che ha già.
Settima storia. Che cosa era successo nel castello della regina delle nevi e che cosa accadde in seguito. Qui viene raccontato come Kay sia stato soggiogato dalla regina delle nevi e costretto a comporre all’infinito parole con alcuni frammenti di ghiaccio. Solo se riuscirà a comporre la parola “eternità” potrà arrivare a essere padrone della propria vita. Mentre Gerda sta arrivando al palazzo, la regina lo lascia solo. Gerda trova Kay, lo abbraccia e con le lacrime scioglie il ghiaccio nel cuore di Kay. Kay la riconosce e si mette a piangere, facendo così uscire dall’occhio il frammento di specchio. Mentre Kay e Gerda festeggiano e danzano, le vibrazioni dei loro passi fanno muovere i frammenti di ghiaccio sul pavimento, che compongono spontaneamente la parola “eternità”, liberando Kay. I due intraprendono il lungo viaggio verso casa, durante il quale incontrano molti dei personaggi conosciuti da Gerda nel suo viaggio, tra cui la renna, la donna di Finlandia, la donna di Lapponia e la figlia del brigante, che li informa della morte della cornacchia. Giunti a casa, i due si rendono finalmente conto di essere cresciuti, mentre la nonna si crogiola al sole e legge un passo della Bibbia: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli».

 

Il matrimonio segreto

Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto

Parma, Teatro Regio, 17 febbraio 2023

★★★☆☆

(video streaming)

Matrimonio a Brooklyn

Ci sono opere che si avvantaggiano di una ambientazione scenica contemporanea. Una di queste è sicuramente Il matrimonio segreto, che perde quella vernice settecentesca che può risultare stucchevole quando non si tratta di Mozart, acquistando in sapidità e freschezza. Lo aveva già fatto Pier Luigi Pizzi con la sua produzione ipermodernista, ci riprova Roberto Catalano al Regio di Parma, teatro da cui il lavoro di Cimarosa mancava da oltre sessant’anni.

All’inizio una veduta classica di Napoli è ammirata con nostalgia su una grande tenda che però Fidalma strappa e dietro appare la New York stilizzata dei film americani degli anni ’50, quella di Singin’ in the Rain. Qui Carolina è la figlia minore di Geronimo, pasticcere napoletano proprietario di un locale di Brooklyn frequentato dalle celebrità del tempo. La ragazza sogna di diventare un giorno ballerina in un musical e danzare con il suo idolo e nume ispiratore, Gene Kelly. Nella scenografia di Emanuele Sinisi una specie di scatola di cioccolatini aperta diventa l’elegante pasticceria con la parete colma dei pacchetti griffati col logo della Geronimo & Co.: un babà, la punta di diamante della sua produzione. Come nei costumi di Ilaria Ariemme qui dominano le tinte pastello, il rosa, l’azzurro, ma lo skyline stilizzato della città è invece tricolore: il sogno americano di Geronimo che ambisce a creare un impero industriale con i soldi di un matrimonio fortunato per la figlia Carolina, la quale però ama Paolino, il ragazzo delle consegne, che ha sposato in segreto. 

La storia è coerentemente narrata da Catalano che dipinge con abilità il vivace ambiente e muove bene i personaggi. Nella movimentata schiera di mimi e ballerini in veste di camerieri, turisti, clienti c’è pure una vecchietta con cagnolino: è Gene Kelly travestito per sfuggire ai  paparazzi, mentre un povero wedding planner è vittima delle frustrazioni di una dispettosa Elisetta.

Il direttore Davide Lievi imposta un ritmo rilassato alla musica, che se da un lato ci fa gustare meglio la parola, dall’altra non riesce a sfuggire a quel vago senso di noia di fronte a questo lavoro tanto osannato. Poteva poi fare a meno di certe cadute nelle caccole dei cantanti, nei gridolini, nelle battutine non previste dal libretto, elementi espressivi da tempo fuori stile. L’orchestra Cupiditas (nome scelto per il “desiderio ardente” di suonare insieme), formata da settanta giovani diplomati e non dai 14 ai 25 anni, assieme a prevedibili acerbità arriva comunque a una esecuzione coordinata. 

Nella patria di Verdi, il teatro settecentesco è forse meno preso sul serio e si sceglie una compagnia di giovanissimi per un cast in cui il maggior pregio è il gioco di squadra, ma si rivelano anche piacevoli sorprese, come il bel timbro di Giulia Mazzola (Carolina), la chiara linea vocale di Antonio Mandrillo (Paolino), il fraseggio e la dizione di Francesco Leone (Geronimo), l’eleganza di Jan Antem (Conte, forse il migliore di tutti), la caratterizzazione di Veta Pilipenko (Fidalma), le agilità di Marilena Ruta (Elisetta).

 

Il vizio dell’arte

Alan Bennett, Il vizio dell’arte

regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

Milano, Teatro Elfo Puccini, 14 maggio 2023

All’Elfo ritorna la esilarante commedia di Bennett

Wystan Hugh Auden e Benjamin Britten si ritrovano da vecchi nel 1973. Il poeta, sessantacinquenne, vive nel disordine e nell’ozio in una dépendance del Christ Church College, il compositore, di sei anni più giovane, sta completando Death in Venice, che sarebbe stata la sua ultima opera. Il battibecco immaginato tra questi due rancorosi e malati vecchi non potrebbe essere più vero: Alan Bennett maneggia con genialità i dialoghi tra questi due mostri sacri inserendoli in una finzione teatrale, le prove di un’opera che li vede protagonisti, e con un tentativo di intervista da parte di Humphrey Carpenter, che ha scritto sia la biografia di Britten sia quella di Auden.

I registi Ferdinando Bruni e Francesco Frangia avevano messo in scena nel 2014 con grande successo questo testo scoppiettante, un gioco di teatro nel teatro dove le battute si succedono in un ritmo infallibile.  In prima fila ci sono gli attori, le luci in sala sono accese quando non si “prova”, alcuni personaggi si rivolgono direttamente al pubblico: diventa difficile distinguere la finzione scenica dalla vita reale. 

La ripresa della pièce (Premio Ubu 2015) al Teatro Elfo Puccini di Milano vede come interpreti lo stesso Bruni (Fitz/Auden), Elio de Capitani (Henry/Britten), Ida Marinelli (la aiuto regista), Edoardo Barbone (Tim/Stuart), Roberto Antonio Dibitonto (pianoforte), Umberto Petranca (Humphrey Carpenter), Michele Radice (l’autore) e Vincenzo Zampa (l’attrezzista).

La fille du régiment

foto © Andrea Macchia

Gaetano Donizetti, La fille du Régiment

Torino, Teatro Regio, 13 maggio 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Si ripete a Torino il trionfo di John Osborn nell’opéra-comique di Donizetti

Il lavoro di Donizetti è uno dei non molti ad aver goduto di popolarità costante fin dal suo esordio. La fille du régiment vide la luce all’Opéra-Comique di Parigi l’11 febbraio 1840. In quello stesso anno le ceneri di Napoleone venivano traslate da Sant’Elena agli Invalides: in cinquant’anni le turbe vocianti del quarto stato erano state sostituite da una borghesia soddisfatta di sé sotto il nuovo regime di Luigi Filippo che aveva assimilato le gesta della Rivoluzione a una visione nazionalista di cui la “commedia bellica” donizettiana rappresentava una scanzonata ma affettuosa parodia. Andando ben oltre le intenzioni del compositore e dei suoi librettisti, il patriottismo del lavoro è stato talora eccessivamente enfatizzato: nel 1940 a New York Lily Pons dopo il «Salut à la France» aveva intonato La Marseilleaise e oltralpe l’opera è stata spesso eseguita durante i festeggiamenti del 14 luglio.

Installato a Parigi da cinque anni, Donizetti era l’unico rappresentante del teatro in musica italiano di allora: Bellini era appena mancato dopo aver presentato qui I puritani e Rossini si era prematuramente ritirato dalle scene teatrali per dedicarsi alla composizione di melodie, musica sacra e strumentale, ma soprattutto per godersi i benefici della sua gloria. Nel 1839 Donizetti aveva visto nascere con grande successo al Théâtre de la Renaissance Lucie de Lammermoor, adattamento francese della sua opera più famosa, ma un vero trionfo fu quello della Fille, che fu replicata 55 volte nel solo 1841 e arrivò nel 1914 alla millesima rappresentazione. Il compositore bergamasco riesce qui genialmente ad adattarsi al gusto del luogo e l’autore di cabalette scrive couplets perfettamente in linea con lo stile francese, senza però perdere nulla della sua specificità, in particolare le preziose linee melodiche e il misto di umorismo e malinconia tipico delle sue opere migliori. Il modello opéra-comique, in cui le parti recitate si alternano alle parti cantate, resterà comunque una rarità nella sua produzione.

La Fille era arrivata alla Scala il 30 ottobre 1840 nella versione italiana di Calisto Bassi che aveva trasferito la vicenda dal Tirolo alla Svizzera e aveva apportato modifiche al libretto di Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges e Jean-François Bayard abbreviandone i recitativi o tagliando qualche numero, come ad esempio i couplets della Marchesa («Pour une femme de mon nom») nella prima scena dell’atto primo.

La versione francese, incomparabilmente superiore, è quella comunemente eseguita all’estero, mentre quella italiana viene ancora preferita nel nostro paese. Non al Regio di Torino, dove il titolo è in italiano ma si tratta della versione originale e la produzione è quella vista a Venezia lo scorso ottobre. Gli unici elementi in comune sono l’interprete di Tonio e l’attore che impersona Hortensius.

La direzione musicale è qui nelle mani esperte di Evelino Pidò che da grande conoscitore di questo repertorio dà una lettura sempre attenta alle qualità di una partitura che rende nella sua leggerezza e preziosità strumentale, con dinamiche appropriate e grande attenzione all’accompagnamento dei cantanti, qui ottimi professionisti anche se non sempre altrettanto ottimi attori, con ritmi teatrali talora zoppicanti e una recitazione non sempre all’altezza della performance vocale. E anche se dei dialoghi originali rimane solo una frazione minuta, questi mancano di fluidità, si sente che gli interpreti non si esprimono con l’agio che darebbe la loro lingua madre. Non è quindi un caso che l’unico che dimostri tempi perfetti sia, come già a Venezia, l’attore Guillaume Andrieux quale Hortensius, l’impareggiabile intendente della marchesa. E poi c’è il caso della duchessa di Crakentorp, personaggio che ha visto in scena vecchie glorie del melodramma o mature attrici apportare il loro tocco comico più o meno riuscito. Qui il Regio ha fatto il colpo grosso di ingaggiare una gloria locale, il trasformista Arturo Brachetti en travesti al quale si devono i momenti più spettacolari ed esilaranti della serata: prima come assatanata crocerossina con siringa in mano a caccia di maschi a cui inoculare vitamine (siamo in tempo di guerra, d’altronde) e poi surreale duchessa in vena di esibizione vocale in una canzone piemontese di fine Ottocento, Ciribiribin, portata al successo nazionale negli anni ’40 dal Trio Lescano – ma è celebre anche la versione di Frank Sinatra! Brachetti non ha rinunciato a esibire le sue incredibili doti di trasformismo cambiando nel giro di un attimo diversi abiti per il pubblico sorpreso e divertito.

Ritornando al cast vocale, Giuliana Gianfaldoni nella parte di Marie è interprete che pur corretta e spigliata nei momenti brillanti meglio rende le arie patetiche, quella del primo atto «Il faut partir!» e quella, che è un po’ un doppione e infatti viene talora tagliata, del secondo atto «Par le rang e par l’opulence», numeri affrontati con sensibilità ed espressività dal soprano tarantino che vi ha profuso legati e belle mezze voci. Nel complesso però viene a mancare lo sfrontato carattere della vivandiera e il virtuosismo non ha quella punta di acrobatica follia che ci si aspetterebbe. Anche Manuela Custer fa della marchesa di Berkenfield un ritratto votato alla sobrietà, tutt’altro che parodistico, puntando piuttosto sulla pateticità del personaggio. Così pure è per il Sulpice di Roberto de Candia, fin troppo composto e un tantino impacciato nella dizione.

Discorso a parte è quello di John Osborn, un Tonio ormai di riferimento, presente non solo nella produzione veneziana ma anche in quella al momento insuperata del Festival di Bergamo, giusto per citare le sue più recenti in Italia. Il tenore di Sioux City supera con agio lo scoglio dei famosi nove do di «Pour mon âme», immancabilmente bissati con variazioni anche qui a Torino, ma è nei momenti lirici che si apprezzano le sue doti belcantistiche, quando nella toccante «Pour me rapprocher de Marie» sfoggia mezze voci e smorzature da manuale e acuti emessi utilizzando il falsettone con gusto francese da haute-contre. Una vera lezione di canto unica nel suo genere. Un momento che da solo vale il prezzo il biglietto.

Ottima la prova del coro, che nel finale entra in scena pomposamente annunciato con nomi altisonanti che non sono altro che quelli delle medicine degli ospiti della casa di riposo in cui i registi André Barbe e Renaud Doucet hanno immaginato la vicenda: un lungo flash-back della tenera vecchietta – la nonna nonagenaria di Renaud – presente nel video durante l’ouverture e il cui viso in bianco e nero ci saluta alla fine con un velo di tristezza. Il tono nostalgico è il tratto distintivo di questa lettura registica, qui ripresa da Florence Bas, che si conferma efficace anche se una più attenta cura attoriale sarebbe stata maggiormente apprezzata al di là della simpatica cornice scenografica rappresentante, ingigantiti, gli oggetti ricordo della vecchia Marie.

Una sala con molti posti vuoti ha salutato con calore gli artefici dello spettacolo, soprattutto il tenore. Proseguono intanto gli altri appuntamenti per festeggiare i cinquant’anni del Nuovo Regio e si attende con curiosità la presentazione della nuova stagione, la prima finalmente completa e con la nuova direzione artistica dopo il tribolato periodo del commissariamento e della pandemia.

Tre “trasformazioni” della duchessa di Crakentorp di Arturo Brachetti

Stagione Sinfonica RAI

Gustav Mahler, Sinfonia n° 6 in la minore “Tragica”

I. Allegro energico ma non troppo
II. Scherzo. Wuchtig (pesante)
III. Andante moderato
IV. Finale. Allegro moderato. Allegro energico

Robert Treviño, direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 12 maggio 2023

Il Mahler più tragico

«La Quinta, la Sesta e la Settima, le più critiche fra le sinfonie mahleriane, sono tutte insieme il tempo del trauma e del distacco […] Prevale l’idea del cammino e dell’itinerario, e i ritmi di marcia, che dominano l’avvio di tutte e tre le sinfonie, seppur con sembianze diversissime, qui non sono più moto corporeo né allusione descrittiva e neppure ideogramma, bensì astrazione materializzata in misura. […] Nella Sesta l’estensione è meno importante della tensione: la verticalità prevalente, i piani sovrapposti, la polifonia lavorata a sbalzo, sono tendenze costruttive percorse de uno stato d’animo tutto fretta, impazienza e febbre» scrive Quirino Principe nel suo Mahler, La musica tra Eros e Thanatos.

Composta durante le vacanze estive del 1903 e 1904, la Sesta di Mahler, come la analoga Sesta di Čajkovskij, dà espressione ai sentimenti più profondi e reconditi della disperazione ed è una rappresentazione così intensa degli abissi emotivi da essere un caso estremamente raro nella storia della musica. Alma Mahler aveva riferito in proposito che «Nessuna opera sgorga così direttamente dal suo cuore. La Sesta è la sua opera più personale e profetica». Mahler sembra infatti anticipare le prossime catastrofi personali e storiche e non sorprende che la sinfonia sia stata indicata con l’appellativo di “Tragica”. Come per quella di Čajkovskij, “Patetica”, l’appellativo che non è del compositore il quale tuttavia ammise che la sua nuova opera sarebbe stata enigmatica, «würde Rätsel aufgeben». Il fatto che l’ultimo movimento sia scritto in tono minore, caso unico nelle sinfonie di Mahler, e che manchi una chiusa trionfale, anzi che le ultime note si spengano in un tono di tragica desolazione, spiega quanto l’appellativo, seppure spurio, sia efficace e abbia resistito al tempo.

La Sesta si colloca nel mezzo delle tre sinfonie puramente strumentali e dal punto di vista formale si dimostra piuttosto tradizionale sviluppandosi nei classici quattro movimenti con quelli esterni in forma di sonata. Ad eccezione dell’Ottava, questa è la più estesa sia nella durata sia nell’orchestrazione. Oltre agli archi, due arpe e celesta, nei legni impiega ottavino, 4 flauti, 4 oboi, corno inglese, tre clarinetti, 4 fagotti e controfagotto; negli ottoni vi sono otto corni, sei trombe, 4 tromboni e basso tuba. Ma è tra le percussioni che si ha la maggiore varietà, essendo necessari sei timpani, grancassa, tamburo militare, piatti, triangolo, campanacci e campane non intonate, gong, fruste, glockenspiel e xilofono. Particolare è la presenza di un martello il cui suono fu stabilito da Mahler per essere «breve e possente, ma senza risonanza e di carattere non metallico, come la caduta di un’ascia», suono ottenuto con una grande mazza di legno che colpisce un blocco di legno anch’esso, una sorta di prefigurazione del destino in versione ben più dirompente dei colpi del “destino che bussa alla porta” della Quinta beethoveniana. 

La solitudine alpina ricercata dal compositore al riparo dalle incombenze cittadine – a Vienna Mahler era direttore della Hofoper – ha qui un’evocativa presenza nei campanacci “fuori scena” nel primo e quarto movimento e poi sul palco nell’Andante, che in questa versione è il terzo movimento. Esiste infatti una seconda versione del 1906 in cui i due movimenti centrali si scambiano di posizione e i colpi di martello nel finale passano da tre a due.

Ma è la prima versione quella scelta dal direttore ospite principale Robert Treviño – mi piace usare la forma originale del suo cognome – per il ventesimo concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale in una esecuzione che ancora una volta mette in luce la qualità della compagine della RAI. Pur in una visione unitaria del lavoro, Trevino evidenzia efficacemente i peculiari “gesti sonori” e i diversi colori di questo lavoro. La complessità della scrittura, gli inviluppi dei temi, il tono sardonico delle marcette militari, quello lugubre delle marce funebri di cui è intessuto il primo tempo, tutto è magistralmente realizzato sotto il suo gesto ampio che non lascia nulla al caso. Gli attacchi di millimetrica precisione diventano allora il logico coronamento di un lavoro meticoloso. Ai limiti della tonalità, il cromatismo della Sesta la avvicina alla trascendente sua Nona, anche questa dal finale di cupa rassegnazione. I lunghi secondi di silenzio che sono seguiti all’ultima nota – il la pizzicato degli archi – dimostrano la tensione trasmessa al pubblico che ha salutato il direttore e l’orchestra con scroscianti applausi. 

L’incantatrice

Pëtr Il’ič Čajkovskij, L’incantatrice

Francoforte, Oper, 21 dicembre 2022

★★★★☆

(diretta streaming)

Asmik Grigorian, grande incantatrice

La settima opera di Čajkovskij L‘incantatrice (Чародейка, Čarodejka, anche conosciuta in passato come La maliarda) fu rappresentata il 1° novembre 1887 al Mariinskij di San Pietroburgo sul libretto di Ippolit Vasil’evič Špažinskij tratto dal suo omonimo dramma del 1884: nel gennaio del 1885 Pëtr, che aveva assistito a una sua rappresentazione al Malij, scrisse a Špažinskij chiedendogli di convertire il dramma in un libretto d’opera. Il drammaturgo accettò e i due si incontrarono quello stesso mese per discutere il progetto, ma quando il libretto fu finalmente completato ad agosto era troppo lungo e Čajkovskij dovette ridurlo radicalmente. Nonostante ciò, quest’opera rimane il lavoro più lungo da lui composto.

Atto I. Ultimo quarto del XV secolo. Sulla riva dell’Oka opposta a Nižnij Novgorod, presso la locanda di Nastas’ja. La bella ostessa Nastas’ja, detta Kuma, canta per i suoi ospiti, quando si avvicinano alla riva delle imbarcazioni: si tratta del giovane principe Jurij, che torna dalla caccia. Nastas’ja è felice perché è innamorata di Jurij, ma egli invece la rifugge e decide di non fermarsi e proseguire. Invece arriva un ospite ben più sgradito: il padre di Jurij, il terribile principe vicario Kurljatev, con il diacono Mamyrov ed il suo seguito. Nastas’ja teme disgrazie, ma il principe, affascinato dalla bellezza e dal parlare arguto della ragazza, cambia la sua ira in benevolenza. Accetta dalla mano della locandiera una tazza di vino, beve e, ubriacatosi, ordina a Mamyrov di danzare con i buffoni per rallegrare i presenti.
Atto II. Il giardino della casa del principe. La principessa, abbandonata dal marito, è addolorata. Mamyrov, in collera per l’offesa ricevuta, fa credere alla principessa che il marito è rimasto vittima dei sortilegi della maliarda Kuma. La donna, rimasta sola, medita vendetta. Arriva il vecchio principe, perso nei suoi pensieri per Nastas’ja. L’irosa conversazione che segue tra i due coniugi non fa che aggravare la situazione. Entrambi se ne vanno. Nel giardino irrompe una folla di popolani, che insegue i servitori del principe, colpevoli di aver derubato dei mercanti in pieno giorno. Compare l’odiato Mamyrov, che prende i servitori ladri sotto la sua protezione e dà ordine di legare i capi della folla. Il rumore fa uscire il principe Jurij, che rimprovera Mamyrov per la sua ingiustizia e libera i capi del popolo. Nel frattempo il vecchio principe è andato di nuovo da Kuma e la principessa si sfoga con Jurij, che promette alla madre di uccidere la strega che ha irretito il padre.
Atto III. Nell’isba di Nastas’ja, la sera. Il vecchio principe cerca di convincere Nastas’ja a diventare la sua amante, alternando lusinghe e minacce, ma lei si rifiuta ostinatamente. Giunge perfino a porgere la gola al pugnale del principe, preferendo la morte alle sue profferte. Il vecchio, fuori di sé dalla rabbia, se ne va. Entra un’amica di Kuma con una brutta notizia: il principe Jurij ha creduto alle calunnie su di lei e la cerca per ucciderla. La povera ragazza rimasta sola si dispera, poi va a dormire senza chiudere la porta. Di soppiatto entra Jurij per ucciderla, ma al vederla desiste dal suo proposito: lei apre gli occhi e si dichiara pura. Jurij le crede e se ne innamora.
Atto IV. Un fitto bosco sulle rive dell’Oka. La principessa travestita si reca dal malvagio stregone Kud’ma per farsi dare del veleno, con cui vendicarsi di Kuma. Si è appena nascosta quando arrivano Jurij e Nastas’ja. Il giovane, cacciato da casa, cerca con la sua amata la felicità in qualche posto lontano. Ma, approfittando di una breve assenza di Jurij, la principessa riesce a far bere dell’acqua avvelenata a Nastas’ja, che muore tra le braccia del suo amato. Il suo corpo, per ordine della principessa, viene gettato nel fiume. Si fa scuro e sta per scoppiare una tempesta. Giunge il vecchio principe Kurljatev, sulle tracce del figlio e dell’amata. Sospettando che il giovane abbia nascosto Kuma da qualche parte, egli in uno scatto uccide suo figlio. Tutti fuggono inorriditi. Il principe quasi pazzo rimane solo nella sua disperazione, mentre la tempesta inizia a infuriare.

‘incantatrice nel 1887 rimase in cartellone una stagione per poi passare a Mosca per una sola rappresentazione nel febbraio 1890. Ci fu una seconda produzione al Bol’šoi nel 1916, una terza nel 1958 ebbe 45 repliche fino al 1965 mentre l’ultima produzione nel teatro moscovita è stata nel 2012. Nel 1941 era stata data a Leningrado in una nuova versione col libretto di Sergej Gorodetskij. Al Theater an der Wien nel 2014 si ebbe la produzione di Christof Loy diretta da Mikhail Tatarnikov, nel 2017 venne data al San Carlo di Napoli con la regia di Pountney e nel 2019 all’Opéra de Lyon diretta da Daniele Rustioni con la regia di Andriy Zholdak. Ora è l’Opera di Francoforte a cercare di far conoscere questa che è tra le meno eseguite del compositore russo.

Nella drammaturgia di Zsolt Horpácsy Nastas’ja è una donna che ha avuto un matrimonio infelice, senza figli. Rimasta vedova si è dedicata alla pittura e vive in un variopinto ambiente bohémien. Questo lo vediamo in un video proiettato durante l’ouverture. La scenografia di Christian Schmidt mostra un’ambientazione contemporanea che evidenza il contrasto tra il suo mondo, pieno di presenze queer, e quello alto-borghese del principe Kurljatev nel cui salotto bazzicano personaggi bigotti e una cristalliera racchiude icone e trofei del figlio pugile. Il personaggio più completo è proprio quello di Nastas’ja/Kuma, qui affidato ad Asmik Grigorian che si impadronisce della parte in maniera mirabile, come solo lei sa fare con la voce e la presenza scenica. Vere gemme sono le sue due arie nel primo e nell’ultimo atto. La Grigorian riesce interpretare la scena in cui attende Juri, che la vuole uccidere, con un mix convincente di innocenza, ironia e malizia. Assoluta perfezione. Non è difficile capire come il giovane arrivato con tutte le intenzioni di far fuori la “strega” se ne innamori perdutamente. Geniali molte soluzioni del regista Vasilij Barkhatov, come quella dei quadri dipinti dalla donna che svelano il suo amore per il giovane principe, un bravo Aleksandr Mikhajlov dalla voce luminosa. Il loro duetto alla fine del terzo atto appartiene al miglior Čajkovskij, un momento di abbandono che però fa chiaramente presagire la tragedia che puntualmente si verificherà nell’atto successivo. Bellissima anche la trovata registica di farli uscire assieme alla fine della scena per poi scoprire che durante l’interludio tra i due atti Nastas’ja è invece sola nel retro delle scenografie: è stata dunque tutta una finzione per lei? Un sogno? E quando rientra in quello che era il suo loft si trova invece nel salotto del principe trasformato in un ambiente minaccioso, per poi vedere il suo funerale, come in un sogno appunto. 

I costumi di Kirsten Dephoff mostrano la loro genialità, come nel caso del diacono Mamyrov che nel quarto atto diventa lo stregone Kud’ma, con un cappello e una barba enormemente più lunghi e una mantella che è la gonna che gli era stata fatta indossare per il balletto a cui era stato costretto a partecipare e che ha innescato la sua sete di vendetta. Nella parte si distingue il basso Frederic Jost dalla efficace presenza. Meno convincente è il principe Kurljatev affidato a Iain MacNeil truccato come il compositore e altrettanto tormentato psicologicamente. Vocalmente però non sembra sempre avere l’autorevolezza necessaria. Ben definita è invece la principessa, Claudia Mahnke. Ottimi gli altri interpreti ed eccellente la prova del coro istruito da Tilman Michael.

Maiuscola la direzione di Valentin Uryupin che sorprende per la capacità di trascinare l’orchestra e a mettere in piena luce la ricchezza di una partitura come questa che alterna intense pagine sinfoniche a gloriosi momenti vocali, evidenziando così la validità di un titolo che merita degnamente il suo posto nel repertorio malgrado la sua debolezza drammaturgica e la lunghezza.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Düsseldorf, Opernhaus, 15 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Bellini in purple

Ecco uno spettacolo che non sarebbe possibile presentare in un teatro italiano. Non per la drammaturgia di Anna Melcher che rende intrigante la tenue vicenda dalle innumerevoli fonti letterarie – il vaudeville La Somnambule (1819) di Eugène Scribe e Germain Delavigne; la commedia-vaudeville La Villageoise somnambule ou Les deux fiancés (1827) di Armand d’Artois e Henri Daupin; il balletto-pantomima La Somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur (1827) di Scribe e Jean-Pierre Aumer – ma perché nella scenografia e in gran parte dei costumi di questa produzione della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf il tono dominante è il viola, tinta che sui nostri palcoscenici è bandita in quanto considerata in potere di portare sfortuna – e solo perché era il colore della Quaresima, periodo in cui in passato i teatri italiani dovevano rimanere chiusi.

In area tedesca tali fisime non hanno peso ed ecco quindi che il regista Johannes Erath e lo scenografo Berhardt Hammer riempiono il palcoscenico di divani e abiti viola. I costumi moderni suggeriscono una certa contemporaneità, ma particolari tirolesi come i Lederhosen confermano l’ambiente alpino. La scena è divisa orizzontalmente in due parti: in basso si svolge l’azione dell’opera vera e propria con un tavolo per il ricevimento nuziale perennemente presente in scena e attorniato da elementi imbottiti viola che fungono da divani; in alto si svolgono scene oniriche con una ballerina vestita dell’altrettanto onnipresente abito da sposa bianco e video di paesaggi invernali. Il coro svolge un ruolo centrale, perché formula le aspettative della società e si intreccia strettamente con i numeri musicali dei protagonisti: in un ambiente così chiuso come quello di un villaggio alpino sperduto tra le montagne, l’opinione degli altri esseri umani è importante e il controllo sociale asfissiante. Anche nella regia di Erath non possono mancare i doppi dei personaggi, ma qui almeno sono più accettabili e la semplice psicologia di Amina, Elvino & Co. acquista uno spessore maggiore nella lettura del 48enne regista tedesco ex violinista ed assistente di Graham Vick.

Rimpiazzo all’ultimo momento della titolare indisposta, Stacey Alleaume stupisce per l’agio con cui affronta il ruolo di Amina, dove le agilità sono importanti quanto la sensibilità, ma il soprano coloratura australiano supera pienamente la prova con acuti che raggiungono il do sopracuto e una presenza scenica efficace. Meno sorprendente la bella performance di Edgardo Rocha in una parte, quella di Elvino, che richiede una voce spinta verso il registro alto che il tenore uruguayano raggiunge con l’eleganza e lo stile che gli vengono riconosciuti da tempo. Una sorpresa invece per il Conte Rodolfo di Bogdan Taloș, basso rumeno di bel timbro, grande proiezione, rapinoso fraseggio e bella presenza scenica. Una Lisa particolarmente pungente è quella di Heidi Elisabeth Meier, precisa nelle agilità e buona attrice. Antonino Fogliani dirige l’orchestra dei Düsseldorfer Symphoniker con tempi e volumi sonori adeguati e accompagna con intelligenza i cantanti.

Uno spettacolo che meriterebbe fosse portato in Italia. Ma quel viola…