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Modest Musorgskji, Boris Godunov
Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2022
(diretta televisiva)
Il dramma russo inaugura la nuova stagione della Scala
C’è chi ha criticato la scelta di un’opera russa per l’inaugurazione della Scala, come se Puškin o Musorgskij fossero i fomentatori dell’invasione dell’Ucraina, mentre il Boris Godunov è una riflessione quanto mai attuale sul potere assoluto e delle sue conseguenze. Che sia lo Zar della fine del 1500, il dittatore del XX secolo o l’ex funzionario del KGB oggi al potere, chi ci rimette è sempre il popolo con la sua libertà negata dal potere politico e religioso – con quest’ultimo che dopo la parentesi staliniana e comunista ha ripreso a far valere la sua voce repressiva e i patriarchi benedicenti il potente di turno nella finzione teatrale li ritroviamo tali e quali nella realtà di oggi. Le crudeltà, le ingiustizie, le sofferenze dipinte nel Boris sono sempre attuali e presenti in tutti i paesi del mondo. Per dimostrare la risonanza della questione citiamo il quotidiano austriaco “Die Welt” che in un articolo sulla prima alla Scala giudica l’opera di Musorgskji «uno spietato studio di una psicosi da potere omicida, la seduzione, l’intimidazione e il maltrattamento della popolazione. In linea con la situazione odierna in Russia, è evidente anche la funzione di mantenimento del potere della chiesa ortodossa come manipolatrice politica del pensiero».
L’opera di Musorgskij ha come tema principale la solitudine del potere: il personaggio eponimo ha tre soli interventi nell’opera e sono praticamente tre monologhi. Il primo costituisce la “preghiera” dell’incoronazione (parte prima, quadro II), il secondo quello con i figli (parte terza), il terzo quello prima di morire (parte quarta, quadro II). Il’dar Abdrazakov è il Boris di oggi, senza voler far confronti con quelli del passato. Sia quando entra in scena nel scintillante costume da zar sia nella scena con i figli in cui affiorano tutte le ambiguità del personaggio risolte con sfumature e colori continuamente cangianti, fino al finale in abiti moderni dove la voce gioca con piani e pianissimi da brivido. Rimorsi, incubi, sospetti, tutto è magistralmente suggerito dal basso baschiro in cui timbro, fraseggio, espressività sono semplicemente superlativi. Abdrazakov ha carisma da vendere, parola e presenza scenica sono ineguagliabili, l’intesa con l’orchestra perfetta. Riccardo Chailly ha scelto la versione originale del 1869 con tutte le moderne asprezze che poi la riorchestrazione, peraltro mirabile, di Rimskij-Korsakov attenuerà. Chailly riesce a tirare fuori da questa partitura aspra e spigolosa suoni che creano le atmosfere sospese del monastero o quelle gioiose ma già inquietanti dell’incoronazione. I temi popolari creano il tessuto di un’opera che non tiene conto del modello operistico occidentale e che costituisce un geniale unicum nella produzione ottocentesca essendo molto in anticipo sui tempi.
Sugli scudi sono le prestazioni oltre che dell’orchestra quelle del coro del teatro diretto da Alberto Malazzi affiancato dal coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni, nonché dei molti interpreti: Ain Anger, un Pimen all’inizio sottotono ma poi convincente nel racconto del miracolo; Stanislav Trofimov, un Varlaam meno trucido di come di solito viene rappresentato; Alexander Kravets, idiomatico Misail; Alexeij Markov, ottimo Ščelkalov; Norbert Ernst, il gelido e macchinatore Šujskij. Dmitrij Golovnin rende bene il falso Dmitrij a cui la regia destina un ruolo maggiore del solito, mentre Lilly Jørstad e Anna Denisova delineano il triste destino dei figli di Boris, Fëdor e Ksenija rispettivamente. Yaroslav Abaimov è un inquietante Innocente benissimo cantato e ben inserito nella drammaturgia scelta dal regista di Kasper Holten che mette in scena uno spettacolo intelligente, come sempre sono quelli del regista danese, ma in un certo senso cauto. Era successo anche con McVicar: è come se i registi stranieri avessero paura della Scala e del suo pubblico, leggi loggione. Sempre il giornale “Die Welt” critica il teatro per non aver attualizzato la vicenda: «La Scala ha perso l’occasione di mettere drasticamente in scena il triste presente e non solo di accennarvi vagamente». Gli elementi non mancavano: le masse manipolate che acclamano e pregano a comando; i pochi indisciplinati che vengono brutalmente pestati dalla polizia; il ruolo del clero nel sostenere lo stato; il monito contro le influenze sataniche dell’Occidente; la disperazione della situazione politica percepita come fatale.
Ecco allora una lettura molto letterale della storia che la scenografia di Es Devlin ambienta in un tempo non esattamente definito visto che i costumi di Ida Marie Ellekilde passano dal XVI secolo ai nostri giorni. Una grande pergamena su cui Pimen annota la vicenda occupa la scena assieme a una mappa della Russia che lentamente si disgrega. All’apertura del sipario vediamo solerti funzionari strappare pagine di libri per cancellare e riscrivere la storia, ma presto si passa alla visione personale di Boris. Alcune scene sono come viste in sogno dallo zar, sono il suo incubo e sempre presente è la figura dello zarevič insanguinato, il figlio di Ivan che Boris ha ucciso per salire al potere. Anche se la storiografia moderna è piuttosto scettica sul fatto che Boris abbia effettivamente compito l’infanticidio, quello che vediamo rappresentato non suggerisce dubbi al proposito: a un certo punto lo zar si trova circondato da bambini che richiamano il principe ucciso e anche i figli hanno dei doppi insanguinati che alludono al loro triste destino. Il richiamo a regicidi come Macbeth fa del Boris della Scala un dramma scespiriano di grande potenza ma non sconvolgente. Infatti è stato salutato positivamente dal solito pubblico mondano dell’inaugurazione scaligera.
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