Vladimir Ivanovič Bel’skij

Il gallo d’oro

© Jean-Louis Fernandez


Nikolaj Rimskij-Korsakov, Le coq d’or

★★★★★

Lyon, Opéra Nouvel, 20 mai 2021

(streaming)

 Qui la versione italiana

Oblomov rencontre Beckett dans Le Coq d’or vu par Kosky

Dans sa courte fable en vers Le Coq d’or, Alexandre Pouchkine se moque de la figure d’un autocrate qui reflète, d’assez près, celle du tsar Nicolas Ier de l’époque (1834), un homme de culture modeste, autoritaire et peu soucieux des libertés, dont le règne se caractérise par une politique répressive tant dans sa politique intérieure (il avait créé la « troisième section », une sorte de police secrète et inquisitoriale qui réprimait toute pensée ou tendance occidentalisante) qu’extérieure. Lorsque Nikolaj Rimski-Korsakov reprend le texte de Pouchkine, adapté par Vladimir Ivanovič Bel’skij, nous sommes en 1906-07 et les choses ne sont pas très différentes pour le peuple russe : cette fois, Nicolas II a conduit la Russie à la défaite contre le Japon et a ensuite tenté de réprimer dans le sang la Révolution de 1905. Comme il fallait s’y attendre, la censure s’est attaquée au texte, imposant de nombreux changements, à tel point que le compositeur demanda que le livret original complet soit vendu séparément de celui utilisé pour les représentations. L’opéra a été créé en septembre 1909. Rimski était mort en juin 1908…

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Il gallo d’oro

fotografie © Jean-Louis Fernandez


Nikolaj Rimskij-Korsakov, Il gallo d’oro

★★★★★

Lione, Opéra Nouvel, 20 maggio 2021

(live streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Oblomov incontra Beckett nel Gallo d’oro di Kosky

Nella sua breve favola in versi Aleksandr Puškin si era fatto beffe della figura di un autocrate che rispecchiava, e non troppo da lontano, quella dell’allora (1834) zar Nicola I, uomo di cultura modesta, autoritario e illiberale il cui regno fu caratterizzato da una politica repressiva sia interna (aveva creato la “Terza sezione”, sorta di polizia segreta e inquisitoria che reprimeva manifestazioni di pensiero e tendenze occidentalizzanti) sia estera. Quando Nikolaj Rimskij-Korsakov riprende il testo di Il gallo d’oro, adattato da Vladimir Ivanovič Bel’skij, siamo nel 1906-07 e le cose non sono molto diverse per il popolo russo: questa volta Nicola II aveva portato la Russia alla disfatta contro il Giappone e aveva poi cercato di reprimere nel sangue la Rivoluzione del 1905. Come era prevedibile la censura si accanì sul testo imponendone numerose modifiche, tanto che il compositore chiese che il libretto originale fosse venduto separatamente da quello utilizzato. L’opera fu presentata nel settembre 1909. Rimskij era morto nel giugno 1908.

Nel metterlo in scena oggi Barrie Kosky avrebbe potuto ispirarsi facilmente a despoti contemporanei e la Russia, come altre nazioni, ne avrebbe facilmente fornito il soggetto. Invece, il regista sceglie di ambientare in un tempo e in un luogo astratto la surreale vicenda, quella di un sovrano inane come l’Oblomov di Gončarov che è ossessionato dall’invasione dei nemici ma paralizzato dall’indolenza. Un vecchio astrologo gli fornisce un pennuto che in caso di pericolo lancia il suo chicchirichì, cosa che fa presto. Due figli vittime della guerra, un rude generale e una sensuale regina sono gli altri personaggi di questa favola presentata nel prologo dall’astrologo stesso: «ho ricevuto lo straordinario dono, con una scienza segreta, per far resuscitare le ombre e soffiare la vita in cuori inanimati. Così sotto i vostri occhi prenderanno vita le maschere divertenti di una antica fiaba». Assisteremo nel primo atto alla partenza dello zar Dodon per la guerra, nel secondo a un lungo duetto tra lui e la regina di Šemakha, nel terzo al rifiuto di concedere all’astrologo il premio richiesto – la fanciulla stessa – e alla vendetta del gallo che uccide lo zar.

Le didascalie suggeriscono un’ambientazione ricca e fastosa – il palazzo con i suoi immensi saloni ornati di sculture dorate, gli scranni coperti di broccato, il trono tappezzato di piume di pavone, il manto da cerimonia giallo oro nel primo atto, il campo di notte disseminato di cadaveri dopo la battaglia  nel secondo, una strada affollata davanti al palazzo imperiale nel terzo – invece, la scenografia di Rufus Didwiszus è del tutto spiazzante: una scena unica chiusa fra tre pareti grigie, un sentiero che si inoltra tra alte erbe altrettanto grigie, un albero rinsecchito. Potrebbe essere la scenografia per un dramma di Beckett. Di regale Dodon non ha nulla se non la corona di latta: veste infatti sempre e soltanto canottiera e mutandoni lerci, anche per montare a cavallo, uno scheletrico ronzino con le zampe che vorticano nell’aria mentre rimane fermo sul posto. Il tocco caratteristico di Kosky è presto rivelato da gustosi particolari: il generale Polkan e i Boiari sono in calze nere e testa di cavallo, la regina di Šemakha è inguainata in lamé e ha bianche piume di pavone in testa, l’astrologo si presenterà in frac e cilindro – i costumi sono disegnati da Victoria Behr. Le danze espressamente richieste dal testo hanno interventi danzati che sono quelli tipici del coreografo Otto Pichler già ammirate nelle altre produzioni koskyane ed eseguite da quattro boys in short argentati che fanno le veci delle schiave della regina. Dallo stesso albero su cui è appollaiato il gallo d’oro, una enigmatica figura con artigli dorati e scarpe con tacchi a spillo, pendono i corpi decapitati dei due figli dello zar, le loro teste nella polvere del sentiero. Le luci radenti di Franck Evin contribuiscono alla costruzione visiva dello spettacolo, come quando le ombre delle mani di Dodon scivolano lascive sul corpo della seducente regina o quando trasformano in possente esercito i pochi guerrieri in scena.

La maggior parte delle azioni sono solo immaginate dallo zar, come se fossero il prodotto onirico dei suoi sonni e la scena è raramente occupata oltre ai tre personaggi principali. Solo nel terzo atto vedremo in tutta la sua variopinta bizzarria, qui una mostruosa diversità, il corteo nuziale così descritto dal testo: «come uscito da una fiaba orientale, ci sono nani e giganti, uomini con un solo occhio in mezzo alla fronte, con le corna, con la testa di cane, arabi e arabetti, schiave velate che recano scrigni e suppellettili preziose». L’umorismo sardonico e sulfureo di Kosky è perfettamente in tono con lo spirito del lavoro che mette impietosamente a nudo le efferatezze del potere, come nel coro finale del popolo: «Noi siamo vostri, corpo ed anima. Se veniamo battuti, è perché ce lo meritiamo […] Noi siamo felici di servirti, di fare i pagliacci per divertirti nei giorni di festa, di abbaiare, di strisciare a quattro zampe, e di prenderci a pugni per farti passare giorni felici e dormire un sonno placido […] Che cosa ci riserva il giorno che verrà? Come faremo senza lo zar?». L’epilogo è confidato ancora all’Astrologo che si presenta con la testa in mano a ricordarci che i «personaggi non sono che un sogno, un’invenzione, pallidi fantasmi, puro nulla…».

E coerente è anche la musica, che anticipa i russi che verranno dopo – Prokof’ev, Stravinskij, addirittura Šostakovič – nei suoi toni beffardi, lividi, marionettistici, mentre gli astratti orientalismi servono a definire la fredda sensualità dell’elemento perturbante costituito dalla figura della regina di Šemakha. Tutto è ben compreso e reso da Daniele Rustoni alla guida dell’orchestra del teatro e dagli interpreti, tutti perfettamente a loro agio in questo repertorio. Sia che si tratti dell’apatico Dodon, un magnifico Dmitrij Ul’ianov efficace scenicamente e autorevole vocalmente, o dell’astrologo di Andrej Popov dal registro stratosferico con puntature al sopracuto, o di Nina Minasian, sensuale regina di Šemakha impegnata nei cromatismi del suo Inno al sole impeccabilmente eseguiti. I lancinanti e ripetuti richiami del gallo provengono dalla voce fuori scena del soprano Maria Nazarova mentre il mezzosoprano Margarita Nekrasova delinea Amelfa, la governante immancabile in ogni storia russa. Vasilij Efimov (Principe Guidon), Andrej Žilikhovskij (Principe Afron) e Mischa Schelomianski (Generale Polkan) completano il validissimo cast. Ottima prova è fornita anche dai coristi, per nulla intimiditi dalla lingua russa.

La fiaba dello zar Saltan

Nikolaj Rimskij-Korsakov, La fiaba dello zar Saltan

★★★★★

Bruxelles, Théâtre de la Monnaie, 16 giugno 2019

(registrazione video)

Una fiaba senza lieto fine per Černjakov

A duecentoventi anni dalla nascita di Puškin, la Monnaie di Bruxelles mette in scena un’altra delle opere basate su un suo racconto in versi, quella Fiaba dello zar Saltan (Сказка о царе Салтане), un prologo e quattro atti su libretto di Vladimir Bel’skij, che Nikolaj Rimskij-Korsakov aveva presentato al pubblico del teatro Solodovnikov di Mosca il 21 ottobre 1900 con le scenografie disegnate da Mikhail Vrubel. Il titolo completo sia dell’opera sia della fiaba è La fiaba dello zar Saltan, di suo figlio il glorioso e potente bogatyr principe Gvidon Saltanovič e della bellissima zarevna Lebed’.

Prologo. Una sera d’inverno, in una stanza. Tre sorelle filano. La maggiore e la mezzana non si impegnano molto, come suggerisce la vecchia Babaricha, invece la minore, Militrisa, si dà da fare. Le due sorelle più vecchie si vantano della propria bontà e bellezza e fantasticano su cosa farebbero, se diventassero zarina. Alla loro porta si ferma lo zar, di passaggio con un seguito di boiardi e si mette ad ascoltare la conversazione delle sorelle. La più anziana promette di allestire un banchetto immenso, la mezzana di tessere panni in quantità e la minore di dare alla luce allo zar un bogatyr. Lo zar entra: sbalordite, le tre sorelle e Babaricha cadono in ginocchio. Lo zar ordina loro di seguirle a palazzo, affinché Militrisa diventi zarina, e le altre due diventino Povaricha (cuoca) e Tkačicha (tessitrice). Le due sorelle maggiori sono molto indispettite e chiedono a Babaricha di aiutarle a vendicarsi di Militrisa. Babaricha propone un piano: quando lo zar partirà per la guerra e Militrisa partorirà un figlio, esse invece della lieta notizia manderanno allo zar un messaggio con scritto che la zarina ha dato alla luce un mostro. Le sorelle approvano il piano e ne pregustano il successo.
Atto I. Il palazzo dello zar a Tmutarakan. Militrisa è triste. Con lei ci sono Babaricha, il giullare, i servitori e le guardie presso la porta. Entra Povaricha con un vassoio di leccornie. Entra un vecchio che chiede di essere condotto dalla zarina, perché vuole raccontare delle favole per il bambino. Giunge anche Tkačicha a vantarsi del raffinato tappeto da lei tessuto. Lo zarevic si sveglia e le balie gli cantano un’allegra canzone infantile. La corte dello zar si riempie di persone. Tutti sono incantati dal bambino e il coro canta in onore suo e della madre. Facendosi largo tra la folla, irrompe con una lettera dello zar un messaggero ubriaco, che si lamenta di essere stato mal ricevuto dallo zar Saltan e racconta di come invece una vecchia lo abbia rimpinzato di cibo e fatto bere a volontà. Gli scrivani leggono il messaggio, in cui si ordina ai boiardi di prendere senza indugio la zarina ed il neonato, di metterli in una botte e di gettarli negli abissi del mare. Tutti sono sconcertati: Militrisa è disperata, mentre le due sorelle gioiscono con cattiveria. La zarina abbraccia suo figlio Gvidon, cantando tutta la sua pena. Si introduce un’enorme botte dove vengono rinchiusi madre e figlio, per essere portati in riva al mare. Il pianto della folla si confonde con le onde del mare.
Atto II. Sulla riva dell’isola di Bujan. Tra le onde la botte appare e scompare. A poco a poco il mare si placa, la botte giunge a riva e ne escono la zarina e lo zarevic cresciuto. Sono felici di essere salvi, ma la zarina è inquieta perché l’isola appare vuota e selvaggia. Gvidon tranquillizza la madre e costruisce un arco e delle frecce. D’improvviso si ode un rumore di lotta: un cigno si dibatte in mezzo al mare e su di lui piomba un nibbio. Gvidon prende la mira e tira una freccia al predatore. Si fa buio. Madre e figlio osservano stupiti il cigno uscire dal mare e ringraziare il suo salvatore, promettendogli di essere riconoscente e raccontando di essere in realtà una fanciulla, mentre il nibbio ucciso era un mago malvagio. Infine li esorta a non affliggersi e ad abbandonarsi al sonno. Allora la madre canta al figlio una ninnananna ed entrambi si addormentano. All’alba appare tra le nebbie la città fantastica di Ledenec. Madre e figlio si svegliano e si incuriosiscono; Gvidon capisce che lì si trova il cigno. Dalle porte della città esce il popolo in tripudio, ringrazia Gvidon per averli liberati dal mago malvagio e gli chiede di regnare sulla loro città.
Atto III. Scena prima Sulla riva dell’isola di Bujan. Da lontano si vede una nave diretta a Tmutarakan’: Gvidon la osserva con malinconia. Si lamenta con il cigno, perché gli sono venute a noia tutte le meraviglie dell’isola, mentre vorrebbe vedere suo padre, ma in modo da non essere visto. Il cigno acconsente ad esaudire il suo desiderio, e gli ordina di immergersi per tre volte in mare, per trasformarsi in un calabrone. Gvidon quindi vola per raggiungere la nave. Scena seconda La corte dello zar a Tmutarakan’. Lo zar Saltan siede sul trono ed è triste, presso di lui ci sono Povaricha, Tkačicha e Babaricha. A riva la nave attracca. I mercanti ospiti vengono invitati presso lo zar, sono fatti sedere ad una tavola imbandita e viene loro offerto il cibo. In segno di ringraziamento i mercanti iniziano a narrare le meraviglie da loro viste in giro per il mondo: la metamorfosi di un’isola deserta nella bella città di Ledenec, dove vivono uno scoiattolo che rode noci d’oro e sa cantare, e trentatré bogatyr. Povaricha e Tkačicha cercano di distrarre lo zar con altri racconti: per questo il calabrone irritato le punge entrambe su un sopracciglio. Nello zar cresce il desiderio di visitare l’isola. Allora Babaricha racconta la più straordinaria delle meraviglie: la bellissima figlia di uno zar, la cui bellezza offusca il cielo di giorno ed illumina la terra di notte. Il calabrone punge Babaricha in un occhio ed ella grida. Inizia un bel trambusto: si dà la caccia al calabrone, che però riesce a fuggire.
Atto IV. Scena prima. Sulla riva dell’isola di Bujan. È sera. Gvidon sogna la bellissima zarevna e chiama a sé il cigno, per svelargli il suo amore per lei e chiedergli di trovarla. Il cigno non esaudisce subito la richiesta: non è sicuro dell’autenticità del sentimento, ma Gvidon insiste. Alla fine il cigno cede e rivela a Gvidon di essere proprio lei la sua amata e dall’oscurità appare la zarevna Lebed’ in tutto lo splendore della sua bellezza. Al mattino la zarina Militrisa si reca al mare con il suo seguito. Gvidon e la zarevna le chiedono di acconsentire alle nozze e Militrisa li benedice. Scena seconda. L’introduzione orchestrale celebra le meraviglie della città di Ledenec. Nell’isola si attende l’arrivo dello zar Saltan. Si diffonde un suono di campane. Una nave giunge all’approdo. La corte dello zar scende a riva, seguita dallo zar stesso accompagnato da Povaricha, Tkačicha e Babaricha. Gvidon accoglie l’illustre ospite, facendolo sedere accanto a sé ed invitandolo ad ammirare le tre meraviglie del luogo: ad un suo cenno squillano le trombe, e compare una casetta di cristallo con lo scoiattolo straordinario, poi i valorosi guerrieri e, infine, la zarevna Lebed’ esce da un terem. Tutti sono estasiati e si coprono gli occhi con le mani, accecati dalla sua bellezza. Saltan è commosso e chiede alla magica Lebed’ di mostrargli la zarina Militrisa. Ella lo invita a guardare sul terem: sul terrazzino compare la zarina che intona un duetto gioioso e commosso con Saltan. Poi lo zar chiede di suo figlio, e Gvidon si rivela. Povaricha e Tkačicha cadono ai piedi dello zar, implorando perdono, mentre Babaricha fugge terrorizzata, ma lo zar colmo di gioia perdona tutte.

Nella lettura di Dmitrij Černjakov, davanti al sipario tagliafuoco una donna in abiti contemporanei racconta al pubblico che è sola col figlio autistico, il marito l’ha abbandonata da tempo. Lei vuole raccontare al ragazzo del padre scomparso e per farlo usa il solo linguaggio che il figlio vuole ascoltare, quello delle favole, che per lui sono la realtà. E allora inizia La fiaba dello zar Saltan. Attraverso due passerelle che scavalcano la buca orchestrale entrano in scena i personaggi della favola. I costumi del folklore russo qui hanno colori acidi e tessuti rigidi, come di cartone, e richiamano i disegni con cui Ivan Bilibin nel 1905 aveva illustrato il racconto. Nel prologo e nel primo atto tutto si svolge al proscenio e i due piani, quello della realtà della madre col figlio autistico e quello della fiaba narrata, coesistono: sulle sedie da cucina si siedono i personaggi nei loro ingombranti costumi, per terra il ragazzo con i suoi giochi – lo scoiattolo, i soldatini, una bambola vestita da principessa cigno: le tre meraviglie del quarto atto.

Non c’è profondità nella scena neanche negli altri atti: il fondo è un velario su cui vengono proiettati gli ingenui disegni animati di Gleb Filštinskij, proiezione su schermo dei pensieri del giovane. Tutto avviene nella mente del ragazzo. Momento di grande emozione è quello di quando il figlio acquista la parola all’inizio del secondo atto e poi solleva il telo per entrare nella “sua” storia come protagonista. Ma tutta la lettura di Černjakov è ricca di momenti di grande poesia e sensibilità.

Nel finale tutti sono in abiti contemporanei: il padre/Saltan è ritornato per conoscere finalmente il figlio in un tardivo tentativo di riconciliazione con la moglie, ma il figlio (che ha riconosciuto nell’infermiera che si occupa di lui la principessa cigno di cui si è innamorato) si spaventa al frastuono del coro che inneggia a lui come zarevič e ritorna nel suo stato di autismo. Stavolta la fiaba non ha un lieto fine.

Bogdan Volkov con il suo aspetto da adolescente turbato, il timbro luminoso e il soave fraseggio delinea uno zarevič lirico e di rara sensibilità. Il suo duetto con Olga Kulchynska, soprano dai melismi incantatori, è uno dei momenti musicalmente più trascinanti di una partitura che di momenti felici ne ha tanti, e non solo “il volo del calabrone” per il quale è unicamente conosciuta. Svetlana Aksenova è l’intensa madre/Miltrissa, mentre efficaci si dimostrano tutti gli altri interpreti con un plauso particolare per le voci delle due perfide sorelle, Stine Marie Fischer e Bernarda Bobro.

I momenti sinfonici che dipingono il viaggio per mare e gli altri intermezzi strumentali ricordano la grandezza di orchestratore dell’autore di Sheherezade e di Sadko. Qui rifulgono in tutto il loro splendore sotto la sapiente bacchetta di Alain Altinoglu che dopo Il gallo d’oro del 2016 in questo stesso teatro torna a farci conoscere quest’altra gemma dell’opera russa.

Sadko

Nikolaj Rimskij-Korsakov, Sadko

★★★☆☆

Gand, Koninklijke Vlaamse Opera, 20 giugno 2017

(video streaming)

Continua la riscoperta dell’operista Rimskij-Korsakov

Come in una casa di oggi con il televisore sempre acceso, sullo schermo posto di sghimbescio nel nero vuoto della scena, immagini di guerra si alternano a quelle di una partita di calcio, quando il coro inneggia alle glorie di Novgorod. Seguiranno altre immagini in bianco e nero di nuvole, della Luna, di consumismo e tant’altro ancora. Assieme al palcoscenico ricoperto di terra nera è l’unico elemento previsto dalla scenografia di Annette Murschetz per questo allestimento dell’Opera Vlaanderen. La settima opera di Nikolaj Rimskij-Korsakov si aggiunge al Gallo d’oro della Monnaie, alla Fanciulla di Neve di Parigi, alla Sposa dello zar di Berlino e alla Leggenda della città invisibile di Amsterdam in questa recente riscoperta dell’operista russo tanto popolare in patria quanto poco esplorato nel passato qui in occidente.

La vicenda del cantore Sadko, che sogna per il lago Ilmen uno sbocco al mare tramite un fiume per rendere il suo paese più prospero, viene trattata dal regista americano Daniel Kramer secondo il cliché dell’attualizzazione a tutti i costi e con un realismo che fa perdere sia il tono favolistico della storia sia l’elemento marino (anzi, qui c’è solo terra) sia quello onirico senza sostituirli con un konzept convincente che giustifichi l’operazione. Una scelta del tutto opposta a quella della lettura iper-tradizionale fatta a San Pietroburgo con il Sadko diretto da Gergiev nel 1994 cui ricorrere per capire qualcosa della vicenda.

Che i borghesi di Novgorod siano bevitori trucidi e violenti affondati nei loro sofà a guardare ipnotizzati lo schermo televisivo, che Nežata diventi una cantante jazz, che lo stesso Sadko si presenti come un Tom Jones in camicia con le ruches e il microfono in mano, tutto questo non riesce a dare un senso alla favola russa. Che poi il protagonista rimanga in mutande e t-shirt macchiate di sangue, calzini sporchi e con un piumone ammuffito per la maggior parte dei sette quadri su cui si articola il lavoro, non è di aiuto alla definizione del personaggio né tantomeno al godimento dello spettacolo. Anche il momento del racconto dei tre viaggiatori qui perde il suo fascino diventando la pubblicità di tre agenti turistici.

I colori wagneriani della partitura – non solo colori: gli echi tematici e strumentali che rimandano al Ring sono frequenti – sono magistralmente portati alla luce da Dmitri Jurovski che concerta un cast di buon livello e un coro sempre attento. Protagonista è il tenore georgiano Zurab Zurabishvili di generosa vocalità, ma la parte è lunghissima e impegnativa e la regia non ha fatto molto per aiutarlo, anzi. Brave le interpreti femminili di Volchova (Betsy Horne), Ljubava (Victoria Yarovaya) e Nežata (Raehann Bryce-Davis). Dei tre mercanti d’oltre mare si fa notare per eleganza l’“indiano” (Adam Smith) mentre il glorioso Anatoli Kotscherga mostra ahimè la corda come Re del Mare con bassi sfiatati e acuti traballanti.

Nel finale una frattura (il fiume?) si apre nel terreno e separa le due donne dagli altri. Nel frattempo Sadko, sempre in mutande, aveva ammazzato Volchova (!) e seppellito il microfono. «Le minacciose nubi sono sparite ed è tornato il sole» si canta ottimisticamente, ma la scena è sempre immersa nel buio e un cielo nero e una Luna inquietante dominano in alto mentre gli stolidi abitanti di Novgorod festeggiano brandendo stecche di sigarette e altri prodotti del consumismo più becero. C’è da chiedersi che cosa abbia capito il pubblico dell’Opera di Gand che reagisce in maniera abbastanza tiepida al calare del sipario.

Il gallo d’oro

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Nikolaj Rimskij-Korsakov, Il gallo d’oro

★★★★☆

Bruxelles, Palais de la Monnaie, 23 dicembre 2016

(live streaming)

Pelly vira in nero la fiaba musicata da Rimskij-Korsakov

Se si guarda la data c’è da restare strabiliati: nel 1909, quando Il gallo d’oro debutta a Mosca, un anno dopo la morte di Rimskij-Korsakov, regnava ancora lo zar Nicola II Romanov. Questa durissima satira politica travestita da fiaba prendeva di mira un regime autocratico che aveva represso nel sangue i tumulti del 1905 e che nel 1913 avrebbe celebrato i trecento anni della sua dinastia – prima di collassare definitivamente poco dopo, come si sa. Sulle vicende di quest’ultima opera del compositore russo si può leggere la recensione del DVD in cui viene ampiamente citato quanto sapientemente scritto al proposito da Franco Pulcini, musicologo esperto dell’opera slava.

La musica del Il gallo d’oro non fa che confermare la strabiliante maestria orchestrale del compositore russo: i colori cangianti, la voluttà delle invenzioni melodiche, l’armonia e i ritmi inafferrabili, i toni popolari e i cromatismi wagneriani. Qui tutto è reso con amore e competenza dal direttore Alain Antinoglu che tra il secondo e il terzo atto si trasforma in pianista e assieme al primo violino dell’orchestra, Saténik Khourdoian, offre un delizioso entracte musicale: la Fantasia sul Gallo d’oro di Efrem Zimbalist & Fritz Kreisler, pezzo in cui rifulge ancor più la purissima linea melodica della fascinosa aria della regina di Šemacha, qui una seducente Venera Gimadieva. Pavlo Hunka è l’oblomoviano zar Dodon, Alexander Kravets sfoggia il registro acutissimo dell’astrologo mentre gli altri interpreti, anche loro quasi tutti di lingua russa, e l’eccellente coro, personaggio principale dell’ultimo atto, portano alla buona riuscita uno spettacolo che sarà ripreso a Nancy e a Madrid.

Nella messa in scena qui al Palais de la Monnaie di Bruxelles, Pelly fa assistere al pubblico «la follia senile di un despota imbecille che assomiglia a tutti gli uomini». Non c’è nessuna fantasia orientale nella lettura di di Pelly (1): la sua è una fiaba in nero, presaga dei guai che apporterà il nuovo secolo XX. Un sogno (la parola più ripetuta nel testo) o meglio un incubo ben sostenuto dall’impianto scenografico di Barbara de Limburg – uno scenario definito «brutal, absurde et rêveur» dallo stesso regista. Il suolo è formato da una spianata di carbone che tinge dal basso i candidi costumi dei nobili, essendo quelli del popolo e dei soldati già neri per sé. Uniche concessioni al colore sono il rosso del pappagallo e il giallo oro del gallo, gli unici esseri viventi estranei alla vicenda umana, a parte il nero esercito di scimmie della regina. L’inetto zar Dodon, sempre in pigiama, non si separa mai dal letto troneggiante in scena salvo che per partire controvoglia per la guerra su un ronzino quale novello Don Chisciotte, mentre un vecchio termosifone funge da posatoio per il gallo. Nel secondo atto una struttura conica è la tenda della regina di Šemacha, certo ben lontana dalla «tenda di broccato ricoperta di ricami variopinti» del libretto, ma comunque con un che di onirico. Nel terzo atto il fondo della scena è la gigantografia di una folla che moltiplica quella inginocchiata ai lati del letto imperiale, ora montato su cingoli da carro armato. L’immagine è di chiara lettura: la sottomissione servile di un popolo (2) a un tiranno la cui autorità ha salde basi militari. L’ultima immagine dell’epilogo ci mostra il gallo che zampetta indifferente su un terreno cosparso di cadaveri. Un finale tragico che non stona con lo humour nero della fiaba rappresentata fino a quel momento in cui gli aspetti comici hanno preso sempre più intenzioni politiche.

(1) «Comincia davanti al Palazzo un corteo trionfale. Dapprima, a piedi, a cavallo, in carri, i soldati del re, con facce gonfie di sussiego, quindi il seguito della regina di Šemacha variopinto e bizzarro, come uscito da una fiaba orientale. Ci sono nani e giganti; uomini con un solo occhio in mezzo alla fronte, con le corna, con la testa di cane; arabi e arabetti; schiave velate che recano scrigni e suppellettili preziose. Il curioso splendore del corteo disperde per un po’ la pesante attesa. Tutti si divertono come bambini» recitano le didascalie del libretto del terzo atto.

(2) «Noi siamo vostri, corpo ed anima. Se veniamo battuti, è perché ce lo meritiamo […] Noi siamo felici di servirti, di fare i pagliacci per divertirti nei giorni di festa, di abbaiare, di strisciare a quattro zampe, e di prenderci a pugni per farti passare giorni felici e dormire un sonno placido […] Che cosa ci riserva il giorno che verrà? Come faremo senza lo zar?» canta il coro.

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Il gallo d’oro

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★★★☆☆

La favola ultima di Rimskij-Korsakov

«Insieme alla stesura delle memorie, Rimskij fece ancora in tempo a scrivere il suo testamento operistico, composto soprattutto nel biennio 1906-07 a un anno dalla morte. I tempi erano molto cambiati nella Pietroburgo di quegli anni, soprattutto dopo la sconfitta subita dalla Russia da parte del Giappone e dopo la rivoluzione del 1905, repressa dal potere nel sangue. Sono tempi difficili per Rimskij, sospettato dalla polizia zarista di collaborazionismo rivoluzionario. Puškin aveva scritto in versi una Storia del galletto d’oro (1) nel 1834, per criticare l’indolenza degli zar di allora, ma la parodia è efficace anche nel 1906. La fiaba del tirannico zar Dodon, che pretende di regnare dormendo, diviene molto allusiva: il paese era appena andato incontro alla distruzione della flotta e dell’esercito durante la guerra russo-giapponese. La rappresentazione dell’opera sollevò un clamoroso caso di censura: gli addetti volevano far tagliare numerose parti, ma l’autore si oppose e fece preparare una produzione francese per far eseguire l’opera a Parigi. Non tutto venne appianato e Il gallo d’oro divenne, prima ancora di essere eseguita, un simbolo della rivolta antizarista. Rimskij, innervositosi per le incertezze e l’atmosfera minacciosa, fu colpito da un attacco di angina pectoris, del quale morì senza veder rappresentata la sua ultima fatica operistica: un’inquietante fiaba malefica.» (Franco Pulcini)

Su libretto di Vladimir Ivanovič Bel’skij (lo stesso de La leggenda della città invisibile di Kitež), l’opera andò in scena il 7 ottobre 1909 al teatro Solodovnikov e il 6 novembre al Bol’šoj.

Prologo. Un astrologo annuncia al pubblico che sta per essere rappresentata una favola di fantasia, ma con una sua morale valida e attuale.
Atto I. Lo zar Dodon non riesce a dormire per i problemi che affliggono il suo regno. I figli e i consiglieri non sanno che dare suggerimenti insensati, finché l’astrologo si presenta con un gallo d’oro che segnala i pericoli. Lo zar potrà finalmente dormire tranquillo e riconoscente promette all’astrologo tutto quello che desidererà. Ben presto il sonno dell zar è interrotto dal chiccirichì del pennuto. Ad affrontare i nemici lo zar stesso si mette a capo dell’esercito.
Atto II. Tra le sventure della guerra lo zar scopre la morte dei suoi figli che si sono dati la morte a vicenda. Da una tenda appare la bellissima regina di Šemacha che seduce facilmente Dodon.
Atto III. La processione dell’ingresso dello zar e della promessa sposa è interrotta dall’astrologo che chiede come ricompensa la donna stessa. Lo zar rifiuta e lo colpisce. Il gallo d’oro fedele al suo padrone becca lo zar alla gola. Il cielo si oscura e il gallo e la regina scompaiono.
Epilogo. L’astrologo risuscitato torna in scena ricordando al pubblico che quello cui hanno assistito è solo illusione.

«Il gallo d’oro è dunque una satira politica del regime autocratico, svolta con sottile demonismo burlesco: il feticcio iettatorio e vendicativo del galletto crea infatti un clima infido, molto distante dal mondo dei balocchi infantili tipico dello Zar Saltan, precedente fiaba puškiniana. La ferocia della satira è resa acuminata dalla musica sottoposta a questa rissosa schermaglia fra marionette crudeli. In piena polemica antisentimentale, questi personaggi stilizzati cantano con forte tecnicismo strumentale: la freddezza del canto si coglie in quella bambola meccanica che è la regina di Šemacha, il cui orientalismo astratto esprime mirabilmente gli aspetti seducenti della malvagità femminile. Il libretto, di asciutto rigore ritmico, viene sorretto da uno stile musicale altrettanto pungente; l’orchestra è capace di durezze ben poco fiabesche, che già annunciano l’avvento dei grandi allievi di Rimskij destinati a maggior gloria: Stravinskij e Prokof’ev. Il gallo d’oro è pertanto opera di transizione fra il vecchio e il nuovo, nonché punto di arrivo in termini di modernità per un autore che si dimostra conservatore a parole e innovatore nella pratica.» (Franco Pulcini)

Nel 2002 molto tempo è passato dal debutto a Mosca e allo Châtelet di Parigi l’opera viene messa in scena da un giapponese, Ennosuke Ichikawa III, attore di teatro kabuki. E di origini giapponesi è pure il maestro concertatore, Kent Nagano. Questa produzione è stata creata nel 1984, a settant’anni dalla prima parigina dei Ballets Russes dove, con le scene di Alexandre Benois, l’azione era mimata da dei ballerini mentre i cantanti stavano fermi ai lati della scena.

Qui invece con i ricchissimi costumi di Tomio Mohri e la nuda scenografia di Setsu Asakura, la lettura atemporale e straniante voluta dal regista giapponese è pienamente convincente essendo la storia dell’inettitudine dei potenti sempre attuale: Puškin pensava agli zar del suo tempo (1834), Rimskij a Nicola II e alla sua pessima gestione del conflitto russo-giapponese, ma esempi di altre epoche e paesi non mancherebbero.

L’atmosfera da film di Kurosawa non stona con la musica così piena di echi orientaleggianti sia in orchestra sia nelle voci. L’impervio ruolo della regina di Šemacha richiede una tessitura tesa e molto alta, piena di melismi e vocalizzi. Olga Trifonova ha una bella voce, ma sforza negli acuti ed evita il mi del finale d’atto secondo. Cosa che non fa invece l’astrologo di Barry Banks: tutte le note sono rispettate e quelle più alte sono prese con sicurezza da questo eccellente cantante che dimostra potenza e facilità negli acuti. Molto bravi anche gli altri interpreti, compreso il gallo del titolo affidato a Yuri Maria Saenz. Kent Nagano alla guida dell’Orchestre de Paris mette magistralmente in luce i colori talora lividi della sontuosa partitura.

Nessun extra nei DVD, ma sottotitoli in italiano.

(1) Il titolo originale infatti, Золотой петушок (Zolotoj petušok), si riferisce a un galletto (петушок) non a un gallo (петух).

La leggenda della città invisibile di Kitež

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★★★★★

Il Parsifal russo

Le eccezionali doti di orchestratore di Rimskij-Korsakov balzano evidenti fin dalle prime note dell’introduzione “elogio della solitudine” in cui i rumori della natura vengono trasfusi in meravigliosi suoni: «Siamo in piena estate. Gli uccelli cantano, si può sentire il richiamo di un cuculo. Si sta facendo sera» dice la didascalia del libretto prima dell’inno panteistico di Fevronija, «Ah, tu foresta, mia foresta, bella solitudine, tu bosco di querce, tu regno del verde!». La giovane incontra il principe Vsevolod, figlio del sovrano di Kitež, che crede un semplice cacciatore e i due si innamorano. Nel secondo atto, durante la festa di nozze vengono assaliti dai Tatari che intendono prendere la città di Kitež. Non ci riusciranno perché la città si salva resa invisibile da una nebbia incantata a costo però della vita delle donne della città, che si immolano per non cadere vittime degli aggressori, e degli uomini uccisi in battaglia. Anche Fevronija muore durante la sua fuga nei boschi. Tutti si riuniranno in paradiso nell’ultimo atto dell’opera.

La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija è la penultima delle 14 opere del compositore russo appartenente a quello schieramento conosciuto qui in occidente come Gruppo dei Cinque (Balakirev, Cui, Borodin e Musorgskij gli altri) impegnato a dar vita in musica ad una tradizione tipicamente russa e sganciata dalle convenzioni accademiche di quella occidentale. Nelle intenzioni del musicista doveva essere l’ultima e il coronamento della sua carriera di operista, ma il sopraggiunto interesse per il soggetto de Il gallo d’oro prevalse sulle sue intenzioni, e fu quello il suo ultimo capolavoro.

Il libretto di Vladimir Belsky è basato su due distinte narrazioni: la leggenda di Fevronija e quella della città di Kitež, appunto. L’opera che aveva debuttato nel 1907 a San Pietroburgo, rappresenta un monumento musicale all’anima slava sognata da Tolstoi.

L’azione ha luogo nell’anno 6751 dalla creazione del mondo, in una località non specificata al di là del Volga.
Atto I. Nella foresta vicino a Kitež la Piccola. Dopo un preludio intitolato Elogio della vita selvaggia, entra in scena Fevronija, una fanciulla che vive nel bosco in compagnia del fratello, in piena simbiosi con tutte le creature della natura: parla con gli uccelli, cura gli animali feriti e conosce tutti i segreti delle piante e degli alberi. Ella incontra il principe Vsevolod, ferito da un orso durante una battuta di caccia. Dopo essere stato curato da lei, il principe si innamora immediatamente della purezza d’animo e della semplice saggezza della ragazza, e le chiede di sposarlo. Richiamato dal corno dei compagni, il principe si allontana promettendole che tornerà per condurla alle nozze, mentre il cacciatore Fëdor Pojarok rivela a Fevronija che il giovane è il figlio di Jurij, principe della città di Kitež la Grande.
Atto II. Nella città di Kitež la Piccola, sulla riva destra del Volga. Una folla di popolani festanti attende il passaggio del corteo nuziale di Fevronija, ci sono perfino un orso ammaestrato ed un suonatore di gusli, che però profetizza delle sventure. Alcuni borghesi, scontenti della scelta del principe di convolare a nozze con una fanciulla di umili origini, convincono un vecchio mendicante ubriacone, Griška Kuter’ma, ad ingiuriarla e schernirla. Ma, poco dopo l’arrivo del corteo nuziale, irrompe in scena un’orda di guerrieri tatari, mentre la gente terrorizzata grida e fugge. I Tatari saccheggiano il paese e torturano gli abitanti per farsi indicare la strada che porta Kitež la Grande, ma nessuno parla. Questi allora prendono il vecchio Griška Kuter’ma con l’intento di ricavare le informazioni per trovare e conquistare la città, ma rapiscono anche Fevronija, colpiti dalla sua bellezza. Mentre sotto le minacce di tortura Griška è sul punto di tradire il suo popolo, Fevronija temendo ormai il peggio, prega Dio che salvi la città facendola diventare invisibile.
Atto III. Scena prima Nella città di Kitež la Grande. La popolazione è riunita nella piazza della città davanti alla cattedrale. Fëdor Pojarok, accecato dai Tatari, narra dei saccheggi perpetrati dai guerrieri e del rapimento della fanciulla. Il principe Jurij in un clima di morte e melanconia prega assieme al popolo la Vergine Maria. Consapevole del momento disperato, Vsevolod organizza un esercito che, sotto il suo comando, tenti un’estrema resistenza contro la venuta dell’invasore. Ma, proprio mentre l’esercito si appresta a partire, avviene il miracolo: le campane iniziano a suonare senza che nessuno le manovri, mentre una luminosa nebbia dorata scende sopra la città. Durante l’intermezzo si narrano le sanguinose vicende della battaglia, accompagnate da canti guerreschi e motivi musicali di derivazione tatara. Scena seconda Sulle sponde del lago Jar. Griška Kuter’ma tradisce infine la sua gente, e conduce i Tatari sulle rive del lago da cui si dovrebbe vedere la città di Kitež. Ma, giunti sul posto, essi vedono solamente una nebbia dorata, e furiosi legano Griška minacciando di torturarlo. Giunta la notte i guerrieri tatari si ubriacano e spartiscono il bottino conquistato durante la battaglia, dove avevano sbaragliato l’esercito russo e ucciso il principe Vsevolod. Due soltati, Burundaj e Bedjaj, si contendono il possesso di Fevronija; durante la lotta Bedjaj rimane ucciso, poi nell’accampamento tutti si addormentano. Mentre Fevronija piange la morte dell’innamorato, Griška, appeso a un albero, le chiede di liberarlo per poter fuggire; dopo essere stato slegato è tormentato dal rimorso per i suoi atti malvagi e si dirige verso il lago, con l’intenzione di suicidarsi, ma arrivato assiste ad un miracolo: tra i gioiosi e solenni rintocchi delle campane, scorge sulla superficie dell’acqua il riflesso della città scomparsa. Stupito e spaventato, come preso da follia fugge in direzione della foresta, trascinando con sé Fevronija. Gli urli del vecchio svegliano i guerrieri tatari, che si precipitano sulle rive del lago. Alla visione della città fantasma riflessa sulle acque tutti si disperdono terrorizzati.
Atto IV. Scena prima Nella foresta vicino a Kitež la Piccola. Griška e Fevronija rimasti soli vagano per la foresta. Griška, sempre più tormentato, finisce per impazzire e fugge via gridando. Fevronija ritrova un po’ di serenità e si assopisce, in quel momento la foresta si trasforma in una specie di paradiso: compaiono magiche luci sugli alberi, si schiudono ovunque bellissimi fiori colorati, uccelli iniziano a cantare meravigliosamente. Un uccello profeta, Alkonost, annuncia alla fanciulla che presto dovrà morire; appare in quel momento il fantasma del principe Vsevolod per condurla nell’invisibile città di Kitež. L’uccello profeta Sirin dice allora a Fevronija che vivrà in eterno. Durante l’intermezzo si dirigono verso la città invisibile, mentre lo spirito della fanciulla si distacca dal corpo. Scena seconda. Nella città invisibile di Kitež. Fevronija è accolta dal principe Jurij e dalla popolazione. La cerimonia nuziale, interrotta durante il secondo atto, può così riprendere. Vsevolod conduce la fanciulla all’altare. Fevronija chiede perdono per Griška Kuter’ma, la cui anima non è però ancora pronta per essere salvata, fa scrivere una lettera piena di speranza da recapitare al vecchio, e si augura che presto potrà anch’egli raggiungerla nell’invisibile città di Kitež.

La partitura ha ambizioni wagneriane pur con radici nella musica tradizionale russa, vuoi popolare che religiosa e uno dei personaggi principali, come in altre opere russe, è il coro.

L’edizione che viene registrata in questo disco della Opus Arte viene ancora una volta da quel teatro che negli ultimi anni si è dimostrato tra i più solleciti nell’allestire opere non di repertorio e produrre spettacoli di grande interesse, la Nederlandse Opera di Amsterdam.

Nel febbraio 2012 Dmitrij Černjakov mette qui in scena uno spettacolo drammatico, intenso e visivamente affascinante. Il regista pone subito in evidenza il contrasto tra il primo e il secondo atto dell’opera. Nel primo tre grandi alberi e una casuccia tra le erbe alte ci introducono nel mondo sereno di Fevronija e anche se qui gli animali con cui dialoga la fanciulla sono interpretati da umani, l’atmosfera ha la magia della natura benigna. Ma già l’arrivo minaccioso dei cacciatori, che con le loro torce fendono il buio, porta a un cambiamento di tono che si inasprisce nel secondo atto. Invece che in «una strada con bancarelle del mercato (…) con locanda e domatore d’orso», siamo in una Russia più attuale: l’interno di un locale dove la fa da padrona ogni bevanda, purché alcolica. I buffi movimenti dell’orso ammaestrato qui sono le provocazioni e i lazzi blasfemi dell’ubriacone Griška da tutti sbeffeggiato e i Tatari, i nemici sconosciuti, hanno qui le minacciose sembianze di una squadra di teppisti/terroristi che seminano violenza e morte tra i convenuti.

Eccellenti gli interpreti, da Svetlana Ignatovich nel ruolo estenuante della protagonista, al giovane principe di Maxim Aksenov, dal vecchio principe di Vladimir Vaneev a Mayram Sokolova nel ruolo del paggio che vede la distruzione della città. Menzione a parte per John Daszak, Griška di grande presenza scenica. Sul podio un autorevole Marc Albrecht alle prese con un’interminabile partitura che spazia dai “mormorii della foresta” al clangore dell’interludio della battaglia ai grandiosi accordi del finale.

Come extra le interviste durante le prove agli interpreti. Non ci sono sottotitoli in italiano.