Mese: marzo 2022

Sleepless

foto © Magali Dougados – Grand Théâtre de Genève

Peter Eötvös, Sleepless

★★★☆☆

Ginevra, Grand Théâtre, 29 marzo 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Bonnie & Clyde tra i fiordi

Incontro tra uno scrittore norvegese e un compositore ungherese: questo è Sleepless di Peter Eötvös. Coproduzione tra il Grand Théâtre di Ginevra e la Staatsoper Unter den Linden di Berlino, dove è andata in scena nel novembre scorso, questa opéra-ballade su un libretto scritto dalla moglie Mari Mezei si basa su Trilogien, una raccolta di racconti del 2014 di Jon Fosse: Andvake (Insonnia), Olavs draumar (I sogni di Olav), Kveldsvævd (Spossatezza).

Tra ballata – vicenda senza tempo narrata da una voce narrante – e cinema, l’opera di Eötvös si divide in due atti composti da 12 scene e un epilogo in cui si narra di una coppia di giovani poco più che adolescenti, Alida e Asle, fuggiti da casa perché lei aspetta un figlio ma non hanno l’età per potersi sposare.

Atto primo. Scena 1 (in si). Nel freddo dell’autunno norvegese la giovane Alida, in avanzato stato di gravidanza, aspetta il suo compagno Asle in una rimessa per barche. I due adolescenti sono fuggiti dalle loro famiglie perché sono troppo giovani per sposarsi. La loro unica ricchezza è il violino del padre Sigvald. Non possono restare nella baracca che il proprietario rivuole recuperare e devono cercare urgentemente un nuovo rifugio. Scena 2 (in fa). La madre di Alida rifiuta di ospitarli ma controvoglia lascia che passino lì la notte. Asle propone ad Alida di andare a Biørgvin, un villaggio dal clima più clemente. Ma come fare senza soldi? Asle assicura Alida e va a prendere la barca vicina alla baracca. Al ritorno Asle è bagnato ma chiede alla ragazza di seguirlo per andare via. Arriva la madre furiosa che accusa la figlia di averle rubato denaro e cibo. Asle la difende e la fa uscire prima di raggiungerla. Partono in barca per Biørgvin. Scena 3 (in fa#). Al loro arrivo Biørgvin non ha nulla del porto che i due giovani si immaginavano. Né i pescatori né la bionda prostituta, che accoglierebbe volentieri Asle ma non Alida, né alcun altro abitante offre loro un rifugio. In quanto al taverniere, ha sì una camera, ma lo sguardo insistente su Alida li spinge a rifiutare l’offerta. Ritornano allora a bussare alla porta di una vecchia che ha loro rifiutato asilo. Scena 4 (in do). Di fronte agli insulti che ricevono, Asle entra con forza nella casa e vi si sistema con Alida, ma non riesce a dormire e Alida incomincia ad avere le contrazioni. Uscito nella notte, Asle incontra un uomo in nero e tutti e due ritornano accompagnati da una levatrice. Scena 5 (in do#). L’uomo in nero si stupisce di non vedere la vecchia nella sua casa. Alida dà alla luce un bambino, Sigvald, il nome del nonno. Asle è nervoso, si sente osservato. Allora vende il violino e si rimettono per strada. Scena 6. (in sol). Duetto di Alida e Asle.
Atto secondo. Scena 7 (in sol#). Asle incontra di nuovo l’uomo in nero, quello che l’aveva aiutato a trovare la levatrice. Questi ha qualcosa da dirgli ma Asle non lo vuole ascoltare ed entra nella taverna. L’uomo in nero lo segue minaccioso. Nella taverna Asl incontra un uomo che gli racconta come si è arricchito grazie alla pesca – e con i soldi guadagnati ha comperato un braccialetto – e gli domanda da dove viene. Da Vika, risponde Asle, ma l’uomo in nero, sempre in agguato, dice che mente, che è di Dylja dove il proprietario di una rimessa per le barche e una donna sono stati selvaggiamente assassinati di recente. Per cambiare discorso Asle chiede al pescatore di portarlo dal gioielliere: vuole comperare un anello per Alida così che tutti penseranno siano marito e moglie. Scena 8 (in re). Asle spende i soldi del violino dal gioielliere per acquistare anche lui un braccialetto e non l’anello. Scena 9 (in re#). Uscendo incontra la ragazza bionda che cerca nuovamente di irretirlo. Quando tenta di svincolarsi dal suo abbraccio ricompare l’uomo in nero che lo accusa di voler abusare della figlia e lo fa arrestare. Scena 10 (in la). Sola con il suo bambino Alida ha un soliloquio nella cucina. Scena 11 (in la#). Tutto il paese si riunisce per vedere l’esecuzione di Asle. Scena 12 (in mi). Per strada Alida viene avvicinata da un certo Asleik che racconta di averla conosciuta da piccola e la porta a mangiare nella taverna. Le propone poi di ricondurla a Dylgja e le dice che Asle è stato impiccato. Alida accetta e trova per strada il braccialetto: la voce di Asle la rassicura che sarà sempre vicino a lei e al bambino e che Asleik si prenderà cura di lei. Epilogo (in si). Molti anni dopo. Alida è invecchiata e racconta la sua vita al fantasma di Asle: ha sposato Asleik e vive a Vika in una casa vicino al mare. Il figlio Sigvald è diventato un violinista e ha lasciato per sempre casa. Quello che vuole Alida è di riunirsi con Asle, entra nell’acqua e le onde si chiudono su di lei.

Il tema del sonno, o meglio della sua privazione, domina nei tre racconti, come evidenziato dai titoli, e la parola sleep è la più frequente nel libretto. Nella loro fuga da un posto all’altro non c’è tempo per dormire e mentre la figura di Alida è sostanzialmente passiva, anche a causa della sua gravidanza, il vero motore dell’azione è Asle, che i guai se li va a cercare con giovanile incoscienza, tanto che la loro storia può essere condensata nel nome della barca che Asle ruba per attraversare il fiordo: “Here Comes Trouble”.

La suddivisione in dodici scene ha suggerito al compositore una struttura musicale molto precisa: Eötvös costruisce le scene sui dodici toni cromatici, che attestano non tanto la tonalità, quanto piuttosto il colore di base. Si parte dunque dalla prima scena sulla riva del mare, la cui atmosfera calma è suggerita dal si naturale, mentre la seconda scena, in cui ci sono già due morti, è costruita sulla tonalità opposta, il fa, tre toni sopra. La terza avanza di mezzo tono, fa diesis. Nella quarta domina il do, e così via, alternando tritoni e mezzi toni fino all’ultima scena, l’epilogo, nuovamente in si. Il ciclo è così completato. All’ascolto le scene sono quindi contraddistinte da una musica dai colori sempre diversi. I suoni sono deformati nelle scene della taverna con i chiassosi marinai e la tensione sale alla nascita del piccolo Sigvald per raggiungere il culmine all’impiccagione di Asle. La strumentazione di Sleepless è molto ricca e le armonie sempre cangianti. Nei momenti più nostalgici affiora la sonorità del violino hardanger, la versione a otto corde, strumento che dà il tono nordico all’ambientazione – come aveva fatto Howard Shore per la colonna sonora della saga cinematografica di The Lord of the Rings.

Chi meglio del compositore poteva gestire le particolarità di questa partitura? E infatti, alla guida dell’Orchestre de la Suisse Romande c’è lo stesso Peter Eötvös. Nato in Transilvania nel 1944, da sempre alterna l’attività di direttore con quella di compositore. Collaboratore di Karlheinz Stockhausen e Pierre Boulez, conobbe il suo primo successo nel 1986 con Chinese Opera per orchestra da camera e percussioni, mentre Tre sorelle è una delle opere contemporanee più eseguite al mondo. La musica di questo suo tredicesimo lavoro per il teatro è ricca e teatrale, mai troppo violenta o dissonante, ricca di percussioni si spegne col suono del violino che qui è quasi un altro personaggio.

Nell’opera contemporanea non sempre è risolto il problema della vocalità: mentre negli strumenti la ricerca di nuove sonorità è sempre presente, per quanto riguarda le voci non c’è altrettanta ricerca e i compositori si rifugiano in un declamato che spesso risulta più anonimo della musica che lo accompagna. Qui Eötvös è l’eccezione, anche se solo nei personaggi femminili: i vocalizzi e il registro acuto della prostituta, il lirismo di Alida, i canti delle “sirene” fuori scena apportano il loro contributo alla ridefinizione della voce nell’opera d’oggi. Meno interessanti invece, a livello vocale, gli interventi maschili, anche se il tenore olandese Linard Vrielink definisce con una sicura linea di canto il personaggio di Asle, con i suoi astratti furori, gli “incidenti” di percorso e la tragica fine. Vocalmente più complessa la parte di Alida, il bravo soprano norvegese Victoria Randem, la prima voce che ascoltiamo ad apertura del sipario e l’ultima nella scena d’epilogo, quando vecchia racconta allo spirito del compagno morto del figlio che, anche lui violinista, ha lasciato il paese. Poi entra nel mare e si ricongiunge così con l’amato Asle. Sarah Defrise è la Ragazza bionda che bazzica coi marinai. La sua performance vocale è altrettanto disinibita, con colorature e agilità acute efficacemente realizzate. In un glorioso cammeo la mitica Hanna Schwarz fornisce un surplus di drammaticità alla parte della Vecchia signora e l’Uomo in nero ha in Tómas Tómasson un interprete di grande autorevolezza. L’ossessione dell’autore per il numero dodici e i suoi divisori si riflette anche nelle dodici voci che, come nel coro greco, commentano la storia e danno consigli: sei sono i marinai, l’universo maschile di Asle, sei le voci femminili fuori scena, i pensieri di Alida. Tre sono anche i corni e tre i clarinetti in orchestra.

Ungherese è anche Kornél Mundruczó, attore, regista di teatro e di cinema, che si occupa della messa in scena dello spettacolo. Assieme alla scenografa Monika Pormale, che disegna anche i costumi, crea uno spazio a metà tra iperrealismo e surrealismo, dove un enorme salmone funge da ambientazione: la parte convessa, con le scaglie, gli esterni; la parte concava, con le interiora e la lisca, gli interni. Sempre minaccioso è il grande occhio vitreo. Senza rifugiarsi in un incongruo astrattismo, la scelta di Mundruczó sembra la più coerente col mondo narrativo di Fosse, in equilibrio tra concretezza e favola. Il regista ha spesso trattato nei suoi film situazioni di individui ai margini della società come il personaggio di Asle, figlio di una famiglia disfunzionale e di una società che l’ha rifiutato. Lo stesso è per Alida e il regista ce lo mostra molto chiaramente con la figura della madre, anch’essa messa al bando dalla società. Cionondimeno non si riesce a provare molta empatia per questi personaggi, soprattutto per Asle, comunque un pluriomicida. Se la parabola di Asle e Alida ha le reminiscenze religiose di Maria e Giuseppe, è però più la vicenda della coppia di assassini Bonnie e Clyde che viene alla mente.

Lo spettacolo è stato seguito con attenzione da un folto pubblico che ha applaudito con calore tutti gli artisti.

Norma

Vincenzo Bellini, Norma

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 26 marzo 2022

Norma al Regio: una gioia per le orecchie

Malgrado il clima non dei più sereni (1), uscito malconcio dalla purga del commissariamento, il Teatro Regio di Torino continua la sua stagione riservando una bella sorpresa: una Norma prodotta dal San Carlo di Napoli che riempie il teatro per sette sere ed entusiasma il pubblico per quello che sente. Un po’ meno per quello che vede.

Fin dalla sinfonia, eseguita con rara eleganza – stavolta non c’era la banda municipale che abbiamo ascoltato molte volte – la concertazione di Francesco Lanzillotta si distingue per leggerezza e sensibilità, con una tensione narrativa sempre viva e grande senso teatrale. Il direttore mette in luce una strumentazione, quella belliniana, che è stata impropriamente definita povera, ma che invece riesce a essere sempre cangiante con una grande economia di mezzi. Se c’è il bel canto, qui viene da dire che c’è il bel dirigere. Il direttore marchigiano fa tutto bene quello ch’ei fa, e finora non ne ha sbagliata una.

E poi ci sono i cantanti. Non avevo mai sentito Gilda Fiume prima d’ora e non pensavo che nascosta da qualche parte ci fosse una Norma perfetta. E invece c’è e dobbiamo ringraziare il direttore artistico Sebastian Schwarz per averla scovata e avercela portata. La sua non è una Norma al calor bianco, anche se di temperamento comunque ne ha. La Fiume è soprattutto una belcantista che esprime con la purezza della linea del canto, come un levigato marmo canoviano, le violente passioni che agitano la Medea belliniana. Il suo «Casta diva» è una lezione di tecnica vocale – fiati, mezze voci, legati, proiezione degli acuti – non fine a sé stessa, ma votata alla esaltazione della sublime bellezza di questa scena. Tutte le sfumature della donna innamorata e poi tradita, della madre che guarda i figli con uno sguardo che la spaventa e della sacerdotessa che si sacrifica, scorrono con il fiume in piena della sua voce, un fiume che rimane sicuro tra gli argini. Le è al fianco un altro personaggio femminile tormentato, Adalgisa, qui affidato alle sicure doti vocali e interpretative di Annalisa Stroppa, non bellissimo il timbro, ma fraseggio e intensità espressiva impareggiabili.

Chi fosse abituato ai Pollioni che poi vestono i panni di Otello e Turiddu (Del Monaco) o Radames e Andrea Chénier (Corelli) forse si stupirà nel trovarsi davanti Dmitrij Korčak, cantante rossiniano e donizettiano che, posata la bacchetta da direttore – un’esperienza non esaltante –, assume la parte del proconsole romano con risultati sorprendentemente positivi, riconsegnando al ruolo la sua vera vocazione vocale, quella del creatore originale della parte, il baritenore Domenico Donzelli. Con smaglianti acuti e puntature Korčak delinea efficacemente un personaggio che solo nel finale si riscatta dal ruolo di mascalzone che ha esibito fino a quel momento. Magnifico l’Oroveso di Fabrizio Beggi: ogni sillaba è scolpita nel bronzo e le note basse si fanno strada nei concertati con grande sonorità. Di ottimo livello anche i personaggi secondari: Joan Folqué dà insolito significato al breve intervento di Flavio, Minji Kim è una sensibile Clotilde.

Della regia non c’è molto da dire, visto che non c’è. Per Lorenzo Amato, come nel caso di un certo direttore d’orchestra, il suo unico merito sembra quello di essere “figlio di”. Se non altro la messa in scena non distrae dalla musica. Quasi commovente nella sua ingenua romanticità l’impianto scenografico dell’appena scomparso Ezio Frigerio: un fondale su cui vengono proiettate suggestive immagini di foreste che formano quasi una cattedrale gotica con in scena pochi elementi tridimensionali. Appropriati sono i costumi della moglie Franca Squarciapino, mentre le luci di Vincenzo Raponi immergono la vicenda in un chiaro di luna perenne.

Il pubblico è conquistato e si prodiga in grandi applausi per tutti i protagonisti, con autentiche ovazioni per Gilda Fiume e Francesco Lanzillotta.

(1) Ecco quanto è stato scritto a questo proposito da Orlando Perera:
Il nuovo sovrintendente del Teatro Regio: troppi rumori fuori scena
Nel giorno in cui il Consiglio d’indirizzo della Fondazione Teatro Regio di Torino è riconvocato, dopo la prima riunione dell’11 scorso, per procedere nell’esame delle manifestazioni d’interesse e dei curricula presentati per il ruolo di Sovrintendente, vorrei sottoporre alcune riflessioni in primo luogo al Sindaco Lo Russo, nella sua qualità di presidente dello stesso Consiglio, ma anche alle due Fondazioni Bancarie, CRT e Compagnia di San Paolo, fortemente impegnate nel teatro con ingenti risorse.
Appena convalescente dalla terapia, per forza ruvida, del commissariamento, il nostro teatro lirico sembra lungi dal trovare pace. A scadenza ravvicinata giungono segnali, appelli, grida di dolore sempre anonimi e sempre più accorati, da cui traspare un grande malessere, anzi, per dirla tutta, una vera paura, da parte dei dipendenti, dei lavoratori, che parlano apertamente di un clima di terrore instaurato nei rapporti di lavoro. Ultimo documento proprio in questi giorni. Sintomi tanto più preoccupanti in un momento in cui il nostro teatro lirico attende la nomina del nuovo sovrintendente per uscire da una lunga, pesante emergenza. Negli ultimi due anni – forse tre – disastro finanziario, naufragio della gestione 5Stelle, crolli della scena e infine Covid hanno giocato come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, arginati appunto con la nomina ministeriale della commissaria Rosanna Purchia, l’11 settembre 2020 e scaduta a norma di legge dopo un anno, lo scorso autunno. Ora con il nuovo Consiglio d’Indirizzo, seguito al rinnovo dell’amministrazione comunale, si sperava di recuperare un minimo di ritorno alla normalità, ristabilendo i normali meccanismi di gestione e di programmazione dell’attività artistica. Purtroppo non sembra così. Cercando di analizzare con oggettività i motivi di questo clima inquietante sembra che non ci sia da cercare lontano e sia lecito identificarne la fonte nella figura del direttore generale dottor Guido Mulè. Fortemente voluto da Purchia all’atto della sua nomina a commissario, è rimasto contrattualmente al suo posto anche dopo la fine del regime commissariale, e il passaggio della commissaria ad assessore alla cultura del comune. Lei stessa sostiene del resto che l’operazione di risanamento è ancora ben lontana dall’essere compiuta, e che è quindi indispensabile garantire la continuità della gestione. Evidente che per Purchia Mulè dovrebbe al più presto passare al ruolo di Sovrintendente. Nulla da eccepire, e non c’è dubbio che il risanamento sia tuttora al livello di auspicio: come la mettiamo però con un certo trionfalismo della comunicazione ufficiale? Ad esempio, risulta che dei 20 milioni promessi come intervento straordinario (in realtà è un prestito) del fondo di rotazione per gli enti lirici (ex-legge Bray) non sia arrivato un centesimo, e che il pareggio di bilancio sia stato ottenuto durante la pandemia più che altro grazie alla cassa integrazione per i dipendenti, al blocco degli spettacoli e ai tagli dei contratti precari. Ma di questo si potrebbe parlare a lungo. Di fatto al momento il dottor Mulè tiene in pugno tutto il teatro e da quello che si percepisce mai la parola pugno fu più acconcia. Non intendo addentrarmi nel labirinto delle voci di corridoio, dei lamenti, delle accuse anonime di arroganza, e peggio. Terreno scivoloso e forse sterile. Penso però che non sia prudente fare finta di nulla e che nascondere sotto il tappeto la forte tensione che attanaglia quadri e maestranze (le masse artistiche, per loro fortuna non sono coinvolte nella gestione), non sia il miglior viatico per il futuro del teatro. Da cronista cerco però di attenermi ai fatti, richiamando due decisioni della gestione commissariale assunte entrambe poco prima della propria scadenza. Primo, la modifica dello Statuto della Fondazione Teatro Regio nella parte riguardante la figura del Sovrintendente. All’articolo 9 lettera F è scritto ora che “può essere scelto tra persone dotate di specifica e comprovata esperienza di tipo gestionale non solo nel settore dell’organizzazione musicale e/o culturale”. Tradotto dal burocratese, vuole dire che per fare il Sovrintendente al Regio di Torino non occorre più avere esperienza specifica nel settore musicale-culturale, basta una generica esperienza “gestionale”. Tutto questo in contrasto con il Decreto legislativo 29 giugno 1996 sulla trasformazione degli enti musicali in fondazioni. All’art. 13 si legge “Il sovrintendente è scelto tra persone dotate di specifica e comprovata esperienza nel settore dell’organizzazione musicale e della gestione di enti consimili”, dettato di legge interamente recepito dall’art.10 del precedente Statuto del 2014. Domanda: cosa è prevalente sul piano giuridico-legale, il nuovo Statuto o il precedente Decreto avente valore di legge? Sarebbe interessante avere una risposta su questo punto che mi pare non secondario. Perché, a pensar male, come è noto, si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, e la nuova dizione sembra costruita su misura per Mulè.
L’altra decisione assai meno sottile, anzi piuttosto clamorosa, riguarda la retribuzione dello stesso sempre firmata dall’allora Commissaria. Queste le cifre: per la prima parte dell’incarico, dal 25 settembre ’20 al 9 settembre ’21, circa un anno, il direttore generale ha percepito 110 mila euro. Per il rinnovo di sei mesi dal 10 settembre ‘21 al 16 marzo ‘22 la cifra rimane la stessa, sempre 110mila euro, ma per metà impegno. Come chiamarlo, se non un raddoppio secco? Decisione tanto più singolare, di fronte della montagna tuttora incombente di 20 milioni di debito strutturale e ancor più in faccia ai dipendenti che, a causa dei tagli della spesa, si sono visti falcidiare le loro buste paga, oggi a un livello medio di 1500 euro, quindi a spanne un decimo rispetto a quello che prende Mulè. Risulta che il contratto a Mulè sia stato rinnovato fino al 30 giugno: è possibile sapere a quali condizioni retributive?
A norma di Statuto il Sovrintendente, unico organo di gestione, è nominato dal Ministro della Cultura su proposta del Consiglio di Indirizzo. Non è prevista dunque alcuna forma di concorso pubblico. Ma il nuovo CdI del Regio, insediatosi il 16 febbraio scorso, anche su pressione politica della Regione e della Fondazione CRT, ha preferito – saggiamente – di non procedere d’imperio, e ha scelto di ripercorrere la strada già battuta dai predecessori attraverso lo strumento dell’invito alla manifestazione di interesse da parte degli aspiranti all’incarico. Il termine è scaduto lo scorso 4 marzo, sono state presentate 25 candidature, tra le quali non c’è quella divisiva di Mulè. Insomma la linea scelta dagli amministratori della Fondazione Teatro Regio sembra di assoluta oggettività. Ma, c’è un ma: nell’ “invito” si precisa che “Qualora il Consiglio di Indirizzo della Fondazione non individui, fra le manifestazioni di interesse pervenute, il soggetto idoneo, può proporre per la nomina un diverso soggetto in possesso dei requisiti richiesti”. Oplà! Un notevole salto doppio carpiato, con il quale la non-candidatura di Mulé potrebbe rientrare trionfalmente in campo dalla porta principale, avendo di fatto sbaragliato nel giudizio dei vertici gli altri concorrenti. I membri del CdI sono sette. La maggioranza a favore di Mulè sulla carta è più che ampia. Il sindaco Lo Russo, Francesca Ramondo espressa dallo stesso Comune di Torino, Giuseppe Navello designato dal Ministero della Cultura, dunque dalla stessa filiera di Purchia e Mulè, Giuseppe Bergesio dell’Iren, allineato con il Comune, e infine, ma dopo il sindaco è la voce di maggior peso, Michele Coppola della Compagnia di San Paolo. Non favorevoli sono soltanto l’avvocato Roberto Pani dalla Regione Piemonte e l’ex-assessore comunale e regionale Giampiero Leo dalla Fondazione CRT. Cinque a due, non c’è storia dunque, e il risultato non dovrebbe mancare. Tanto che forse il nuovo sovrintendente potrebbe essere nominato già oggi. Da semplice cittadino e, se si vuole, da appassionato, mi assilla però una domanda, se davvero è già tutto deciso, non viene il sospetto che tutta la manovra della manifestazione d’interesse sia solo una foglia di fico issata davanti alla città, per coprire un’atto di forza, una scelta già scritta, sulla quale è inutile discutere? I consiglieri pensano di incontrare almeno una parte dei candidati come sarebbe lecito attendersi, o pensano di basarsi solo sui curricula e di procedere senza perdere altro tempo? In questo caso, non avremmo tutti diritto di sentirci presi per il naso?
Vista la situazione del Regio, che deve in qualche modo risorgere un’altra volta dalle proprie ceneri – come dopo l’incendio del 1936 (a proposito, non si offenda per l’ironia dei nomi Guido Mulè, ma l’opera in scena la sera della sciagura era Liolà di Giuseppe Mulè), se il Regio deve risorgere non sarebbe più saggio convogliare il più largo consenso possibile attorno a questa nomina, invece di creare divisioni e polemiche, sicuramente destinate a protrarsi nel tempo? Siamo sicuri che fra le candidature avanzate non ci siano opzioni che offrano tutte le garanzie di competenze specifiche (superando quindi le difficoltà giuridiche poste dalla modifica dello Statuto), e anche meno divisive, meno foriere di tensioni che potrebbero complicare non poco la vita del Regio? La lista dei candidati non è ovviamente pubblica, ma qualche nome è trapelato. […] Signor Sindaco, signori Consiglieri d’indirizzo, devo ricordare che la scelta cui siete chiamati non è reversibile per i prossimi cinque anni, che il nome dai voi scelto non può prestare il fianco a dubbi o incertezze? Oppure quella del nuovo sovrintendente del Regio è solo un’operazione di potere? Un dubbio non solo mio, che sperò verrà presto dissipato. Altrimenti i rumori fuori scena rischiano di diventare assordanti.

Interview with Robert Trevino

Torino, 23 marzo 2022

Renato Verga – Maestro Trevino, you were born thirty-eight years ago in Texas to a family of Mexican origin, the Treviño’s. Americans have been known for having allergies to accents and marks added to the letters of the alphabet, so Treviño became Trevino…
Robert Trevino – Yes. And I like it, because I always get tre-vino, three glasses of wine instead of one! (chuckles)

RV – As a youth you studied the bassoon but attended the University for orchestra conduction and made your professional debut in 2003, at the age of 19, in Wuppertal, Germany. What made you decide to become a conductor?
RT – When I was 9 years old I saw Seiji Ozawa in television and I thought «that’s for me». That’s how I wanted to become a conductor, but why I continued to be a conductor is different: I love my job, it’s my life, and what I like most is the fact that, as a conductor, you take all the many talents in the orchestra and you make one thing happen. So, I come to RAI and meet Matteo, Alessandro, Ula etc.: all have their different personality and I try to channel all their ideas towards a common goal.

RV – In 2010 you won the James Conlon Prize for Excellence in Conducting at the Aspen Music Festival and School. From 2009 to 2011 you were associate conductor for the New York City Opera before moving to the Cincinnati Symphony Orchestra until 2015. In 2013 you rose to international attention at the Bol’šoj Theatre in Moscow with Verdi’s Don Carlo for replacing the preplanned conductor. So, you practically became worldwide famous conducting an opera. Are you attracted to the genre?
RT – Yes, of course. I conducted Puccini’s Tosca, next there will be Turandot in Zurich and La rondine as well. I know Mozart’s Don Giovanni, Nozze, Così, Zauberflöte

RV – Since 2017 you have been music director of the Basque National Orchestra, a post extended until 2022. During this same period you were chief conductor and will be artistic advisor of the Malmö Symphony Orchestra, Sweden. Now you’re the principal guest conductor for three years of the RAI National Symphony Orchestra. With our orchestra you debuted in January 2019, it was to be followed by two more concerts in November 2020, but the coronavirus pandemic called it off. In November ’21, however, you managed to take the OSN RAI on tour to Germany. This season you are conducting no less than five concerts: four already performed on March 10/11 and March 17/18, the next is tomorrow for RAI Nuova Musica. In these concerts you have presented 19th century classics such as Schumann’s Concert in A minor, Tchaikovsky’s Manfred, Elgar’s First Symphony; 20th century works such as Webern’s Im Sommerwind, and contemporary works: Mugarri by Ramon Lazkano (a Basque composer), and tomorrow we will hear Fabio Nieder’s Danza lenta and Brett Dean’s Dramatis Personae. I’m utterly convinced that contemporary music should always be present in the billboards of symphonic seasons. In your choices of repertoire do you have the same yardstick?
RT – Today a journalist told me that people are scared of contemporary music. I don’t know why. Contemporary means now, it represents our experiences of today. Maybe people are intimidated, but I don’t think that to be the purpose of music: the point of music is to experience, to feel, to have emotions.

RV – Why did you choose Brett Dean for tomorrow’s concert? The Australian composer became famous a few years ago for his opera Hamlet. How would you introduce to us his Dramatis Personae, an Italian premiere?
RT – Brett Dean’s work is for trumpet and orchestra and here the trumpet player [Håkan Hardenberger] is fabulous, the work is an incredible piece of music. The characters, the dramatis personae, are a superhero (Superman/Batman), Hamlet and Charlie Chaplin. In the first movement the super hero tries to control the world using his super powers, but he fails. In the second movement Hamlet chooses a different approach, trying to influence people by manipulating them, but also Hamlet fails. In the finale – do you remember Modern Times when Charlie Chaplin waves the flag with the crowd behind him? – ­here the soloist becomes a sort of joker: the superhero failed despite his super powers, Hamlet did the same with his politics, than “let’s do it together with friend s, let’s make a team”. Four other trumpet players join him and they play a joyous quintet. The revolution is not forced, it comes from the inside. Quite relevant for the moment! I didn’t plan that…

RV – And what about Fabio Nieder’s Danza lenta di CS fra gli specchi? The piece, commissioned by the Accademia Nazionale di Santa Cecilia, was performed by Antonio Pappano for the symphonic cycle dedicated in 2015 to Ludvig van Beethoven and had accompanied his First and Third Symphonies.
RT – When we talk of Beethoven, we don’t talk of melodies, we talk of rhythm, motives. Nieder’s piece is the same: there are motives repeated – mirrored – in different proportions.

RV – Your upcoming programs include Mahler: Symphony no. 2 (Resurrection) in Spain (a program full of meaning in these times) and Symphony no. 7 at La Fenice; Brahms, Symphony no. 2, in Japan. You recorded on disc Max Bruch’s Three Symphonies, Beethoven’s Nine Symphonies, Ravel’s orchestral music and contemporary American composers’ works. Beethoven, Brahms, Bruch, Mahler, Elgar… in short, the symphony is your soft spot. But, in Beethoven’s case, is there still something new to say about his symphonies?
RT – Okay, it’s a different point of the question. For me a composer is the closest we get to an immortal being. That’s imagine for one moment: Russia presses the button, USA presses the button, everything is gone. Music doesn’t “exist”, but it continues to live because we perfom the music. Every composer writes with the desire that someone will give life to his music, and that music becomes relevant, is always new for every generation. It’s an obligation to perform it. Beethoven’s music will always be different. It’s part of the life. Composers are like the old Greek Gods: Hercules or Zeus required an offering that allowed to continue to live. In a way, composers are quite the same. I go with my sweat and my energy for the composer to continue to live. And for what “interpretation” means, we speak of interpretation too easily : interpretation is natural because everybody sees things in different ways. I can’t interpret, I take my time with the score to see what the composer wrote and I try with my eyes, my mind, my heart, to understand. If you come to the rehearsals, you will hear me say «The score here says…», never – well, almost never – «Here I want…»

RV – Now you know OSN RAI very well, what’s so special about this orchestra?
RT – It has a beautiful sound, a warm sound. What I also like is its flexibility and quick response: if I ask for full power, they can easily do something enormous. I like this.

RV – Audiences are still leery of attending concert halls. In your opinion what should be done to encourage them? It is an issue with aging audiences mainly here in Italy. Don’t we need a new generation of listeners interested in classical music?
RT – I’m not worried about the age of the audience: the younger generation is coming to the concerts, as before Covid. When you are my age, you have your job, your family, you are raising kids, you have your house to pay for. You work all the time, you don’t have time to attend the concerts. Then the kids go away, the house is ok, you retire from your job: now you have more time for the concerts. It’s normal. It’s life.

(Intervista organizzata dagli Amici dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI di Torino alla Società Canottieri Esperia di Torino. Per l’OSN RAI erano presenti anche il sovrintendente Gianluca Picciotti e il direttore artistico Ernesto Schiavi)

Turandot

Foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Giacomo Puccini, Turandot

★★★☆☆

Rome, Teatro dell’Opera, 20 mars 2022

 Qui la versione italiana

Turandot : un chef-d’œuvre d’une brûlante actualité

Le Teatro dell’Opera de Rome est teinté des couleurs du drapeau ukrainien, celles d’un ciel clair et de champs de blé dorés. La façade est éclairée par des lumières bleues et jaunes tandis qu’à l’intérieur, les deux responsables de production sont une cheffe d’orchestre née dans le pays tourmenté et un réalisateur chinois dissident qui a fait l’expérience directe de la répression culturelle dans son pays. L’interprète principal est également née en Ukraine. Sur la scène c’est une histoire de violence et de cruauté immotivées, d’abnégation suprême pour son prochain et de foule manipulable. Si quelqu’un avait encore des doutes sur la modernité de l’opéra…

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Intervista ad Alessandro Talevi

Torino, 21 ottobre 2019

Renato Verga – Alessandro Talevi. Nome e cognome italiani, ma tu non sei nato in Italia, vero?
Alessandro Talevi – No, sono nato a Johannesburg da padre italiano e madre inglese. Loro si sono conosciuti in Sud Africa e io mi considero essenzialmente un sudafricano.

RV – Hai iniziato a suonare e sei diventato un eccellente pianista, però poi hai scoperto il teatro. Come è successo?
AT – Ah, sì questa è una storia interessante! Pur non conoscendo la musica, da piccolo suonavo, anche se ho iniziato a suonare seriamente il pianoforte solo a undici anni, quando ancora non sapevo che cosa avrei fatto da grande. Allora ero più interessato all’aspetto scenico: per gioco mi costruivo dei teatrini o ricreavo a casa gli spettacoli che facevamo a scuola. È a quindici anni che ho scoperto la musica e che ho deciso di essere un pianista. Mi ha molto infuenzato una bravissima insegnante di pianoforte: da un’ora al giorno sono passato a sei ore al giorno di studio superando tutti i livelli così che a sedici anni ero talmente appassionato al pianoforte che ho dimenticato le mie aspirazioni di scenografo. Ho preso quindi i miei diplomi in pianoforte interessandomi però sempre molto alla storia dell’arte, cosa che mi è servita in seguito. Dopo l’università, sempre convinto di voler seguire una carriera di musicista, ho frequentato un corso di perfezionamento alla Royal Academy of Music di Londra dove mi sono specializzato come pianista accompagnatore dei cantanti d’opera ed è lì che è scoccata la scintilla: ho visto il lavoro del regista e ho scoperto che volevo fare proprio quello. Il mio non è stato quindi un cammino lineare: mi sono fatto una solida formazione musicale prima di ritornare alla mia idea originale di quando ero bambino.

RV – Quindi, secondo te, la conoscenza della musica per un regista è importante?
AT – Forse non è fondamentale, ma è molto importante, bisogna avere un istinto per la musica. Ci sono registi che, seppur bravi, non hanno una formazione musicale, ma sono comunque sensibili all’aspetto musicale. Per me è di grande aiuto, come quando ad esempio bisogna affrontare le opere del Settecento le quali hanno una struttura formale molto rigorosa: la costruzione dell’aria con la sua rigida forma col da capo o dei fnali col contrappunto delle voci che esprimono sentimenti diversi pongono problemi, ma se sai leggere la musica riesci meglio a dare un senso a ciò che è scritto e anche le prove risultano più agevoli.

RV – Cosa ricordi della tua prima messa in scena?
AT – Alla fne del corso alla Royal Academy of Music ero convinto di voler fare il regista, anche se dopo dieci anni di studi musicali la gente giudicava la mia scelta un po’ pazza. Io nel frattempo avevo trovato lavoro come insegnante in una scuola londinese che aveva un bel teatro che perà veniva usato pochissimo e il direttore me lo ha messo a disposizione. Allora ho scelto delle opere che non avessero bisogno di grandi risorse, come La voix humaine, che richiede solo un soprano, un telefono ed eventualmente un letto. E poi conoscevo tanti artisti che cercavano lavoro ed erano quindi disponibili. Con un budget di 200£ – e dopo aver venduto il pianoforte… – ho messo dunque in scena l’opera di Poulenc occupandomi della scenografa, del costume, delle luci. È stata una bella esperienza, molto formativa.

RV – Ti sei occupato delle scenografe, dei costumi e delle luci anche dopo?
AT – Io mi considero un regista molto visivo: le idee che mi vengono in mente sono sempre legate a immagini e per questo ho sempre una mia personale opinione anche se lavoro con altri scenograf o costumisti. Con loro comincio a discutere sempre con un’idea visiva da sviluppare. Se poi un teatro non può permettersi uno scenografo o un costumista mi assumo volentieri l’impegno, pur con il dovuto supporto tecnico.

RV – Qual è la produzione che ti ha dato più soddisfazioni personali o professionali?
AT – Questa è una scelta diffcile: nella mia carriera ci sono state cinque o sei opere che ho ancora nel cuore. Pelléas et Mélisande è una di queste. È stato all’inizio della mia carriera, ma è stato un grande successo. Anche L’amore delle tre melarance, Die Zauberflöte e L’histoire du soldat sono state importanti per me. Ma soprattutto Albert Herring di Britten a Firenze: non mi aspettavo un tale successo, e lo è stato sotto ogni aspetto.

RV – Hai portato i tuoi spettacoli sulle scene di tutto il mondo (Italia, Francia, Spagna, Germania, Gran Bretagna, USA, Israele, Sud Africa, Svezia, Corea, Giappone…): c’è qualche paese in cui ti trovi a tuo agio o che più risponde alle tue esigenze? In cui si lavora meglio?
AT – Ho avuto la fortuna di lavorare in tanti paesi e ognuno ha aspetti diversi. A Tel Aviv ho trovato un’accoglienza fantastica. Loro hanno una vera passione per quelli che vengono da fuori a fare opera. Anche il Real di Madrid è un teatro meraviglioso, ben sovvenzionato e molto organizzato. Ma direi che la Gran Bretagna è il paese in cui si sommano tutti gli aspetti positivi: la passione per la musica, l’educazione, i fondi, l’onestà e la gentilezza con i lavoratori. Tutto lì funziona in maniera quasi perfetta.

RV – Tu hai utilizzato anche spazi non convenzionali per i tuoi spettacoli. Ti stimolano più delle sale dei vecchi teatri?
AT – No, io mi sento molto a mio agio nel teatro tradizionale, in un contenitore chiuso. Certo questi spazi ti costringono a trovare soluzioni creative non convenzionali, ma bisogna sempre essere coraggiosi e pensare fuori dagli schemi per arrivare a nuove ispirazioni. In genere preferisco gli spazi chiusi e limitati: allo Sferisterio di Macerata mi sono sentito quasi naufragare in tutto quello spazio.

RV – Forse bisogna avere dei limiti per stimolare la propria creatività.
AT – Infatti, io amo la sfida degli spazi piccoli.

RV – Hai messo in scena opere che vanno dal barocco (molto Händel) al Novecento (Debussy, Prokof’ev, Stravinskij, Janáček, Britten, Poulenc), ma anche Haydn e Mozart, e poi Rossini, Donizetti, Verdi, Puccini. Hai delle predilezioni fra i compositori? C’è qualcuno che ti ispira più di altri, o che ti è più congeniale?
AT – Assolutamente sì. Io ho fatto molto Händel: è un compositore che dà più spazio e libertà, che ti impone di trovare delle soluzioni perché ci sono così poche indicazioni per i registi che bisogna comunque inventare, trovare un flo conduttore. I miei primi passi li ho fatti in Gran Bretagna e sono cresciuto con le opere di Händel con il quale bisogna scoprire l’essenza di ogni personaggio. Ma Händel sa creare un personaggio anche solo con la musica. Lo stesso fa Mozart. Haydn invece no, non ha questo talento: la sua musica è bella ma è interscambiabile da un personaggio a un altro.

RV – Nei libretti del Settecento non ci sono le indicazioni che ci sono in quelli dell’Ottocento…
AT – Esatto. Puccini, ad esempio, non dà molto spazio, tutti i dettagli sono già previsti. Stravinskij, Janáček, Britten invece ti danno più libertà d’azione creativa. I registri più famosi sono quelli che possono scegliere i compositori che permettono di mostrare i loro talenti: Krzysztof Warlikowski fa Händel, Šostakovič, Janáček, Bartók, Berg… non fa Tosca! È una situazione invidiabile quella di un regista che arriva a un punto tale della sua carriera da poter scegliere solo quello che gli permette di mostrare il suo talento al meglio.

RV – I tuoi spettacoli sono sempre molto personali e non è evidente l’impronta di qualche altro regista. Ma quali sono i tuoi maestri di riferimento, se ne hai?
AT – Ogni fase della mia carriera ha avuto un modello. All’inizio ero molto ispirato visivamente dal lavoro di Wieland Wagner e delle sue produzioni degli anni ’60. Questo per l’aspetto scenico. Per la qualità della recitazione direi David McVicar il quale, anche se diventa sempre più tradizionale, sa far muovere e recitare le persone sul palcoscenico meglio di chiunque altro.

RV – Anche perché è stato attore lui stesso prima di diventare regista.
AT – Appunto. Stimo molto anche Claus Guth e ultimamente Barrie Kosky, con la sua incredibile carica di fantasia.

RV – E adesso siamo alla domanda, ahimè, ineludibile: che cosa pensi della diatriba tra teatro di regia e teatro di tradizione?
AT – L’importante è dare ai registi lo spazio di creare liberamente senza sentire troppo il peso del passato. Se abbiamo paura del passato o ne abbiamo eccessiva reverenza l’opera nasce morta. Quello che non sopporto è quando non c’è il senso della musica nella regia, ma forse lo penso perché sono in parte musicista. Io faccio cose anche sperimentali, ma ci sono confni che non travalico. Per quanto riguarda la tradizione io ho provato con alcune produzioni a essere il più fedele possibili al passato, ma sono risultate le meno soddisfacenti. Quando qualche anno fa al Festival della Valle d’Itria ho fatto Margherita d’Anjou di Meyerbeer, un’opera la cui vicenda è diffcile da raccontare nell’ambiente originale, mi sono dovuto inventare un concetto ardito e sono stato buato da parte del pubblico, ma questo è stato il lavoro di cui sono più orgoglioso! Ma quello che mi ha convinto è quando il giorno dopo la prova generale un giovane barista, completamento digiuno d’opera, mi ha detto che quella era stata la sua prima opera che vedeva e che lo spettacolo gli era piaciuto immensamente. I registi hanno il dovere di ricreare. I compositori sono morti, siamo noi vivi che dobbiamo ridare vita alle loro opere e trasmetterle alle nuove generazioni. Non possiamo chiuderle in in museo.

RV – Come sono i tuoi rapporti con i direttori d’orchestra? Siete sempre in consonanza o talora ti è capitato che qualcuno non condividesse le tue idee?
AT – Raramente mi succede, forse perché già io sono musicista e capisco le esigenze del direttore d’orchestra. Quello che mi irrita è la pigrizia di un direttore che l’ha fatto già così e che vuole continuare a farla così… Se io voglio dare un colore particolare alla scena lo comunico nel mio meglio al direttore, ma c’è talora qualcuno che non risponde, è rigido, non si apre. Ma succede raramente e comunque non ho mai avuto grossi problemi.

RV – Ci sono parecchie tue produzioni in giro che vengono riprese con successo – la Tosca, il Roberto Devereux, L’amore delle tre melarance, The Turn of the Screw, per citarne qualcuna. Secondo te, che cos’hanno di così speciale da essere tanto richieste?
AT – Non ne ho la minima idea! Sono così diverse l’una dall’altra! C’è una certa componente di fortuna – o sfortuna perché tra le produzioni che hai nominato ci sono alcune di cui sono meno orgoglioso… Il successo de L’amore delle tre melarance è pienamente meritato, mentre il Roberto Devereux è forse meno vicino al mio istinto ed è anche diffcile da rendere in scena. È una produzione che ho fatto quand’ero molto giovane e forse non era l’opera per me o meglio non era il veicolo migliore per mostrare il mio talento.

RV – E poi c’è Tosca, che è un caso a parte. Un’operazione quasi museale.
AT – Per me non è stato così: l’ho affrontata come un esperimento con la tradizione. Ero curioso di vedere se seguendo tutte le indicazioni del compositore, dello scenografo e del costumista sarebbe stato ancora possibile creare qualcosa di vivo che parla al pubblico di oggi. Non si è trattato del mio omaggio al passato, ma di una sfda con me stesso. È gratificante il fatto che tutti la amino e che abbia girato il mondo, ma è una cosa un po’ a parte nel mio lavoro.

RV – Quali sono i tuoi progetti futuri?
AT – Riprendo Il giro di vite di Britten in Gran Bretagna all’Opera North. Poi ci sarà una nuova Traviata, la mia terza, ma questa sarà la prima Traviata veramente moderna. Ci sarà anche un Così fan tutte in Sud Africa e poi fra due anni Aida a Santa Fe.

Turandot

Foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Giacomo Puccini, Turandot

Roma, Teatro dell’Opera, 20 marzo 2022

★★★☆☆

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Turandot in tempo di guerra: l’opera lirica è sempre attuale

Il Teatro dell’Opera di Roma si tinge dei colori della bandiera ucraina, quelli del cielo sereno e dei campi di grano dorato. La facciata piacentiniana è illuminata da luci azzurre e gialle mentre all’interno i due responsabili della produzione sono una direttrice d’orchestra nata nel paese martoriato e un regista dissidente cinese che ha vissuto sulla pelle la repressione culturale nel suo paese. Anche l’interprete principale è nata in Ucraina. In scena una vicenda di immotivata violenza e crudeltà, il supremo sacrificio di sé per il prossimo e una massa manipolabile. Se qualcuno aveva ancora dubbi sull’attualità del teatro in musica…

A distanza di pochi giorni, la capitale assiste a due diverse Turandot: all’Accademia di Santa Cecilia il 12 marzo è avvenuta l’esecuzione in forma di concerto dell’ultima opera di Puccini diretta da Antonio Pappano con un cast stellare, di cui ha scritto Luigi Sebastiani. Ora al Costanzi va in scena un’edizione non meno eccezionale sia per la componente musicale sia per quella visiva.

Fin dai primi momenti, le note dissonanti, gli accordi strappati, secchi – e quegli ossessivi martellamenti dello xilofono basso – testimoniano il tono straussiano dell’ultima opera pucciniana: «inizia come Elektra», fa notare Oksana Lyniv che dirige l’orchestra del teatro. La prima donna a Bayreuth dopo 145 anni e 176 presenze maschili, la prima donna alla guida musicale di una fondazione lirica (il Comunale di Bologna), nel suo passato ha un Puccini, una Madama Butterfly diretta otto anni fa a Odessa. Tra i ricordi di quella rappresentazione, le telefonate con i parenti e gli amici rimasti in Ucraina – alcuni rifugiati in quei teatri che sono diventati bersaglio dei bombardamenti russi – e una dura lettera a Putin, la Lyniv riesce a trovare la forza d’animo per scendere in buca e affrontare questa vicenda di inutile crudeltà redenta dal sacrificio per amore qual è la storia della principessa di Turan della fiaba persiana ripresa dal Gozzi e dai librettisti Adami e Simoni. Il gesto deciso e ampio, la concertazione drammatica e serrata ma che lascia il giusto spazio alle voci, la nitidezza e lo splendore dei colori strumentali – che prendono tinte livide nel “notturno” con cui inizia il terzo atto – sono gli elementi che fanno meritare alla Lyniv i caldi applausi del pubblico romano. Sotto la sua bacchetta Turandot si conferma l’opera di un compositore italianissimo, che conosce Wagner e guarda alla musica d’oltralpe e al musical della sua epoca, consegnando al Novecento un capolavoro, seppure incompiuto.

Un’altra ucraina, Oksana Dyka, riprende la parte del titolo con cui aveva trionfato al Metropolitan: l’impressionante proiezione, il timbro di solidissimo acciaio, gli acuti sfolgoranti; è quasi un peccato che la sua performance sia così ridotta – personaggio muto nel primo atto, nel terzo ha appena modo di farsi sentire, ma che impressione i suoi imperiosi e impietosi interventi: «Io voglio ch’egli parli! Il nome! Strappatele il segreto!». L’opera termina infatti con la morte di Liù, quindi senza il finale che Puccini non ha scritto pur avendo a disposizione quasi un anno di tempo, dal novembre 1923, quando la partitura venne terminata fino a quel punto della vicenda, al 4 novembre 1924, data della partenza per Bruxelles per quell’intervento chirurgico che si sarebbe rivelato inutile se non fatale. C’è chi spiega l’incompiutezza della Turandot con l’impossibilità del compositore a trovare un convincente happy ending alla storia. D’altronde, finiscono forse con un lieto fine Elektra o Salome?

Il timbro solare, la pronuncia aperta, il leggero vibrato e gli acuti talora sforzati caratterizzano il Calaf di Michael Fabiano, ma il tono un po’ guascone del «Nessun dorma» non ha fatto scattare l’applauso del pubblico invitato alla rappresentazione fuori calendario di domenica pomeriggio. Sarà che Fabiano non riesce a dare grande rilevanza al suo Calaf, ma è davvero possibile fornire spessore a un tale personaggio? Come sempre, il maggior successo l’ha avuto l’interprete di Liù, l’unico carattere vero e umano della vicenda. Qui Francesca Dotto ha commosso e affascinato con la sensibile musicalità, i legati e le mezze voci di una performance inappuntabile. Antonio di Matteo si è dimostrato un autorevole Timur mentre nel trio di “maschere” cinesi si è fatto notare per presenza vocale il baritono Alessio Verna come il gran cancelliere Ping. La parte del vecchio Imperatore Altoum è affidata a un giovane cantante del progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera, Rodrigo Ortiz. Diplomato dallo stesso progetto è anche Andrii Ganchuk, il mandarino che legge gli editti al «popolo di Pekino». Impegnativa ma efficace la presenza del coro del teatro istruito dal maestro Roberto Gabbiani.

L’idea di affidare a un artista cinese la messa in scena di un’opera ambientata in Cina non è così peregrina: ricordiamo ad esempio la Turandot di Zhang Ymou ambientata nella Città Proibita di Pechino. Ma qui non si è trattato di coinvolgere un regista, seppure cinematografico, bensì un artista poliedrico come Ai Weiwei: performer, documentarista, scultore, architetto (è suo il disegno dello Stadio Nazionale di Pechino), poeta e attivista politico che ha pagato col carcere la sua dissidenza e la sua ribellione al regime. Non è la prima volta che ha a che fare con la Turandot: 35 anni fa fece la comparsa (l’assistente del boia…) in alcune delle 202 riprese dello spettacolo di Zeffirelli a New York, ma è la prima, «e ultima volta» tende a precisare, che è impegnato nella messa in scena di un’opera lirica. Questa produzione era stata prevista due anni fa, ma le vicende pandemiche ne hanno fatto ritardare il debutto ad oggi. Dopo il Covid e la guerra in Ucraina lo spettacolo però non poteva essere lo stesso, dice il regista, che concentra la sua lettura sulla scenografia e sugli interventi video trascurando la regia – i personaggi principali non hanno un ruolo attoriale definito, il coro è immobile, gli unici interventi originali sono quelli dei movimenti mimici dell’artista cinese Chiang Ching e di quelli ritmici di un gruppo di giovani. «È un’opera immersa nel mondo contemporaneo, nelle attuali lotte culturali e politiche», spiega l’artista, «Turandot è la forza e il potere, Calaf un rifugiato politico». Il palcoscenico è trasformato in un planisfero – cosa tutt’altro che evidente per gli spettatori della platea – con i contorni dei continenti scavati in una grande scalinata. In questi buchi prende posto il coro quasi onnipresente, metà in costumi “tradizionali”, disegnati dallo stesso Ai Weiwei, metà in moderne divise militari. Sotto il gioco luci di Peter van Praet torreggiano rovine stilizzate che richiamano quelle della città che ospita lo spettacolo mentre sul fondo vengono proiettate immagini della Cina di oggi con i suoi grattacieli, le sue autostrade, ma anche di cariche della polizia che si accanisce sui giovani che chiedono libertà a Hong Kong, di profughi che guadano fiumi per fuggire dai loro paesi in guerra, di migranti in recinti di filo spinato. E poi le tute anti contaminazione dei medici di Wuhan, la città da cui è partito il Corona virus.

La gelida principessa è vestita come una minacciosa crisalide bianca, in cinese il colore della morte; Timur e Liù si presentano come profughi stracciati, Calaf porta un grande rospo sulla schiena (spero che a quest’ora qualcuno ne avrà scoperto il significato e lo possa finalmente comunicare). Elementi vagamente fantascientifici si mescolano ad altri tradizionali cinesi, come le maschere orripilanti delle guardie di Liù o le lanterne bianche con forme zoomorfe o strane come i copricapi di Ping (una bomba), Pang (due mani che fanno il dito medio) e Pong (due telecamere). Lo stesso dito medio è mostrato da un gruppo di giovani al canto di «Gloria a te» rivolto al vecchio imperatore. Vedremo lo stesso gruppo mimare il cammino verso un orizzonte si spera più radioso nel finale, qui senza apoteosi amorosa.

Le immagini video nel secondo atto e in quello che rimane del terzo diventano più grafiche, piene di simboli di guerra, oppure mostrano vedute tristanzuole di Venezia, Parigi, Roma, New York durante il terzetto in cui Ping, Pong e Pang nostalgicamente ricordano la casa nell’Honan, le foreste dello Tsiang e il giardino di Kiu mentre fanno esercizi di stretching. Nel terzo atto la parte centrale della scalinata ruota su sé stessa e mostra un muro con uno scheletro dipinto e la scritta in greco «Conosci te stesso».

Nella sua messa in scena Ai Weiwei mescola elementi della cultura popolare cinese con quelli del mondo occidentale – cartoni animati, pitture vascolari, La pietà di Michelangelo… – per esprimere l’inestricabilità della globalità che viviamo. Turandot diventa un manifesto di protesta ma tutto questo profluvio di immagini, che rispecchia il bombardamento di notizie che stiamo subendo, sulla scena finisce per distrarre dalla musica. Come il decorativismo di Zeffirelli aveva prevalso sulla drammaturgia, qui nella Turandot di Ai Weiwei è il Konzept a prevalere, senza riuscire a fornire una drammaturgia convincente all’opera di Puccini. In fondo lo scopo sempre quello è.

Chi non ha visto lo spettacolo potrà verificare giovedì 24 marzo nella trasmissione di RAI 5.

Icons of light

Bill Viola, Martyrs

Bill Viola, Icons of Light

Roma, Palazzo Bonaparte, 20 marzo 2022

Il tempo sospeso di Bill Viola

Dopo due anni di chiusura Palazzo Bonaparte a Roma riapre le sue porte come spazio espositivo di Generali Valore Cultura con una mostra dedicata all’artista americano e pioniere della videoarte Bill Viola. Sono presenti 15 lavori che spaziano nei quarant’anni della sua attività dedicata alla sperimentazione video, un luogo di riflessione per la contemporaneità, una tecnologia con cui Viola ha unito la dimensione spirituale orientale con quella occidentale, la storia dell’arte con la riflessione sulla cristianità e con lo zen.

Da The Reflecting Pool del 1979 a Martyrs del 2014, ai visitatori è chiesto di immergersi nella visione ipnotica di eventi dilatati a dismisura nel tempo per riflettere sulla vita e mettere in discussione la concezione del proprio io rispetto al resto del mondo, o semplicemente di entrando in un mondo alternativo stupefacente. La dilatazione del tempo e la sua inversione sono alla base di lavori come Ascension (2000) e Water Portraits (2013), una meditazione sulla sofferenza umana è invece il tema di Unspoken (Silver & Gold) dove le immagini di due visi che esprimono un’indicibile angoscia sono proiettati su due lastre, una d’argento e una d’oro.

Chi volesse visitare la mostra, aperta fino al 26 giugno, vi dedichi il massimo del tempo per goderne appieno l’intensa emozione.

Bill Viola, Water Portraits

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Roma, Parco della Musica, 12 marzo 2022

(esecuzione in forma di concerto)

Luigi Sebastiani è stato alla Turandot romana eseguita in forma di concerto. Ecco il suo resoconto.

La Principessa di gelo infiamma il pubblico di Roma

È andata in scena al Parco della Musica di Roma l’attesissima Turandot di Puccini che segnava il debutto nel titolo del più pucciniano dei direttori d’orchestra oggi in carriera, Antonio Pappano, oltre che dei due divi protagonisti, Sondra Radvanovsky e Jonas Kaufmann. Questa produzione, che provvidenzialmente si è deciso di affidare anche al disco (per i microfoni di Warner Classics), si annunciava già sulla carta come una produzione leggendaria, come una di quelle serate che i presenti avranno modo di ricordare alle future leve di melomani con un fulminante «io c’ero!» generando in loro invidia e meraviglia in parti uguali, per una serie di motivi dei quali uno solo già sarebbe bastato a giustificare il viaggio e l’acquisto del biglietto, ma la cui somma faceva di questa serata un must: dalla scelta del finale Alfano detoscaninizzato, all’atteso approdo di Tony Pappano alla più controversa delle partiture del genio lucchese, fino allo scialo fin quasi esibito dei mezzi coinvolti, con il dispiegamento sontuoso di un cast a dir poco stellare dalle primissime parti fino a quelle di contorno. E i fatti, lo dichiariamo fin da subito, non hanno smentito le attese.

Antonio Pappano sente e vive questa musica come pochi altri tra i suoi – nostri – contemporanei. Ma soprattutto è in grado di farla vivere e di mostrarcela anche laddove l’esecuzione abbia luogo in forma di concerto. Le agogiche dettagliatissime imprimono un ritmo da cinematografo alla fiaba della principessa di gelo riesumata dalle cineserie settecentesche di Gozzi, definendone climax e snodi narrativi in un arco drammaturgico tesissimo dalla prima all’ultima nota. Allo stesso modo dinamiche e impasti sonori hanno il pregio da un lato di ricongiungere la musica di Puccini a quella Mitteleuropa alla quale era apparentata per tributo di sangue (forse solo Sinopoli in passato era riuscito a fare altrettanto) e dall’altro a tingerne e profumarne l’ordito, che si fa sgargiante e ieratico al tempo stesso – a metà tra un Puccini in technicolor e un’antichissima cerimonia orientale. E se Pappano può permettersi di plasmare la massa sonora come la creta più malleabile, grande merito va riconosciuto ai complessi di Santa Cecilia che, una volta di più, si confermano i migliori che abbiamo in Italia.

Sondra Radvanovsky, Turandot, entra in scena fasciata da un abito color verde-speranza-che-delude-sempre con grande mantella barocca della stessa tinta, ma per conto suo non delude affatto. Passato lo shock uditivo del primo istante dovuto all’impennata dei decibel, ci si trova davanti a una cantante estremamente rifinita sul piano tecnico, in grado di oltrepassare tutte le asperità della parte senza palesare il minimo sforzo. Più prossima al modello belcantistico di Joan Sutherland che non a quello verista di Rosa Raisa (prima interprete del ruolo) o all’antica tradizione che lega Turandot alle grandi voci wagneriane, da Birgit Nilsson a Nina Stemme, pone le basi del proprio magistero su un’emissione nitida e costantemente a fuoco e nell’uso spericolato della dinamica: la doppia forcella (fppff) sulle parole «il suo nome è Amor!», con cui Turandot si rimette alla vita e all’amore del principe (non più) ignoto, lascia l’ascoltatore stordito e commosso, più che per il virtuosismo funambolico per la forza evocativa, innervata di sottile erotismo, con cui viene delineato il disgelo della principessa più anaffettiva della storia del teatro lirico, apice drammaturgico dell’opera.

Il ruolo del principe tartaro scioglitore degli enigmi è affidato invece alla voce e alla bella presenza di Jonas Kaufmann, il cui bacio farebbe la felicità, oltre che di Turandot, di tutta la platea femminile e di buona parte di quella maschile. Kaufmann, che ha passato ormai le cinquanta primavere, appare leggermente appannato in termini di brillantezza sonora e rischia più di una volta di finire mangiato dai fortissimo a tutta orchestra di Pappano. Ciò non di meno resta il più sottile e il più fascinoso dei fraseggiatori oggi in circolazione e ogni accento si ammanta di chiaroscuri timbrici capaci di ridefinire una parte che, da Corelli a Pavarotti, abbiamo sempre sentito risolvere, a suon di si naturali, con il puro e semplice squillo tenorile. Insomma, va bene il metallo ma il velluto non è certo meno virile o seducente.

Ermonela Jaho è una Liù sinuosissima e charmante, nella voce come nella figura. Se vogliamo, persino troppo per una schiava. La verità però è che il personaggio di Puccini di servile ha ben poco, apparentato piuttosto a certe icone del liberty che fecero la fortuna a quel tempo di attrici come Lyda Borelli o Francesca Bertini. Così la Jaho coi suoi fraseggi eleganti e i suoi preziosissimi filati ci restituisce una figura assai più raffinata di quel che il suo rango vorrebbe.

Il resto del cast, dal Timur stilizzato e severo di Michele Pertusi alle tre maschere capeggiate dal bravissimo Mattia Olivieri, si rivela un lusso persino eccessivo. Si segnala soltanto la defezione del divino Spyres, scappato a Berlino subito dopo le sedute di registrazione, che avrebbe dovuto prestare la sua voce per le poche ma significative frasi dell’imperatore Altoum – degnamente sostituito dal tenore italiano Leonardo Cortellazzi. Il concerto si è concluso in gloria, tra salve di applausi e chiamate agli artisti, nell’entusiasmo generale di un pubblico consapevole del fatto che serate come questa si ripetono, quando va bene, una volta ogni dieci anni.

Unione Musicale

Unione Musicale

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 16 marzo 2022

Lucas Jussen, Arthur Jussen, pianoforti

Wolfgang Amadeus Mozart, Sonata in Re K 448 per 2 pianoforti
Franz Schubert, Allegro in la D 947 per pianoforte a 4 mani
Maurice Ravel,  La valse, poème choréographique per 2 pianoforti
Igor Stravinskij, Le sacre du printemps. Quadri della Russia pagana per 2 pianoforti

Se il sogno di un pianista è di avere quattro mani, nel caso dei fratelli Jussen questo sogno è quasi realizzato: fin dalla tenera età i due olandesi di Hilversum – ora Lucas ha 29 anni e Arthur 26 – hanno condiviso la passione per il pianoforte a tal punto che ora sembrano un organismo unico per unità di intenti. Bambini prodigio e figli di musicisti, sono stati invitati a corte per esibirsi davanti alla regina Beatrice e sono stati allievi della grande Maria João Pires. Idoli di youtube, sono una delle colonne della Deutsche Grammophon di cui sono artisti esclusivi.

Nella loro tournée italiana si presentano sul palco del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino  per la stagione dell’Unione Musicale con un programma impegnativo e variegato che comprende tre secoli di musica per pianoforte. Iniziano con Mozart, la sonata K 448 del 1781 scritta per le esibizioni con la sorella Nannerl, uno dei due soli pezzi per due strumenti a tastiera della sua produzione. Affrontata con grande slancio e vigore, la loro interpretazione sottolinea soprattutto l’aspetto virtuosistico della scrittura a scapito di una certa leggerezza di tocco. Nessuna riserva invece per il pezzo successivo:  assieme sulla stessa tastiera i due giovani pianisti esaltano gli aspetti Sturm und Drang di un lavoro che Schubert compose nel 1828, l’ultimo anno di vita, e che verrà pubblicato dodici anni dopo col significativo titolo Lebensstürme (Tempeste della vita).

Novant’anni dopo tutto è cambiato. La Vienna di Schubert dopo la Grande Guerra è solo più un ricordo nostalgico e Maurice Ravel prende il valzer come spunto per una pagina che sembra descrivere con toni allucinati un mondo in frantumi. Se si perdono i colori della rutilante orchestrazione, nella versione per soli pianoforti viene implacabilmente messa a nudo la struttura compositiva: nella versione orchestrale gli strumenti creano all’inizio una nebbia indistinta da cui sorge lo spettrale tema di danza, ma al pianoforte questo stesso inizio è un magma materico che anticipa gli esperimenti pianistici di tre decenni dopo di musicisti quali ad esempio Karheinz Stockhausen. L’impatto sonoro ottenuto dai due Jussen sulle tastiere non ha nulla di meno rispetto alla piena orchestra nel doppio crescendo con cui si sviluppa il pezzo.

Dopo un intervallo in cui viene controllata l’accordatura dei Fazioli messa a dura prova dal pezzo di Ravel, si rimane nello stesso periodo per affrontare quella che forse è la composizione musicale più significativa della musica del Novecento, Le sacre du printemps di Stravinskij, che in questa versione per due pianoforti mostra tutta la sua spigolosità e asprezza di invenzione. Sui tasti bianchi e neri rivive «l’impressione terrificante» provata dall’autore nella sua lettura al pianoforte assieme a Claude Debussy nel 1912, prima che fosse approntata la versione orchestrale per il balletto di Nižinskij. E in verità l’effetto dirompente del suono sulla tastiera supera, anche se sembra impossibile, quello della piena orchestra. Qui i talenti dei due esecutori hanno avuto modo di rifulgere: tecnica impeccabile, precisione (tutti i brani sono stati eseguiti a memoria), tocco vigoroso e, perché no, grande senso del teatro. La loro performance ha conquistato il pubblico del Conservatorio, molti i giovani presenti, che ha chiesto e ottenuto due bis: un Bach depuratissimo e una virtuosistica fantasia.

La dama di picche

foto @ Brescia Amisano / Teatro alla Scala

Piotr Ilitch Tchaïkovski, La dame de pique

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 13 mars 2022

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Les obsessions de Tchaïkovski sur scène à La Scala

La dame de pique, formellement, s’apparente à une série de « boîtes chinoises » qui contiendraient des citations et des styles différents : au sein d’une œuvre  romantique et passionnée à souhait se nichent le folklore russe et le XVIIIe siècle, l’opéra français et Mozart. Tout cela forme un opéra d’une grande modernité, adoré de Stravinsky ou Janáček.

Le texte de Pouchkine dont est tiré le livret, joue également avec les styles et le livret de son frère Modeste l’a transformé d’un conte moral en une histoire de passions incontrôlées. Plus encore que l’obsession du jeu, c’est le thème de la mort qui domine ici – dans le livret, les mots faisant référence à la mort sont répétés pas moins de 26 fois…

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