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Vincenzo Bellini, Norma
Torino, Teatro Regio, 26 marzo 2022
Norma al Regio: una gioia per le orecchie
Malgrado il clima non dei più sereni (1), uscito malconcio dalla purga del commissariamento, il Teatro Regio di Torino continua la sua stagione riservando una bella sorpresa: una Norma prodotta dal San Carlo di Napoli che riempie il teatro per sette sere ed entusiasma il pubblico per quello che sente. Un po’ meno per quello che vede.
Fin dalla sinfonia, eseguita con rara eleganza – stavolta non c’era la banda municipale che abbiamo ascoltato molte volte – la concertazione di Francesco Lanzillotta si distingue per leggerezza e sensibilità, con una tensione narrativa sempre viva e grande senso teatrale. Il direttore mette in luce una strumentazione, quella belliniana, che è stata impropriamente definita povera, ma che invece riesce a essere sempre cangiante con una grande economia di mezzi. Se c’è il bel canto, qui viene da dire che c’è il bel dirigere. Il direttore marchigiano fa tutto bene quello ch’ei fa, e finora non ne ha sbagliata una.
E poi ci sono i cantanti. Non avevo mai sentito Gilda Fiume prima d’ora e non pensavo che nascosta da qualche parte ci fosse una Norma perfetta. E invece c’è e dobbiamo ringraziare il direttore artistico Sebastian Schwarz per averla scovata e avercela portata. La sua non è una Norma al calor bianco, anche se di temperamento comunque ne ha. La Fiume è soprattutto una belcantista che esprime con la purezza della linea del canto, come un levigato marmo canoviano, le violente passioni che agitano la Medea belliniana. Il suo «Casta diva» è una lezione di tecnica vocale – fiati, mezze voci, legati, proiezione degli acuti – non fine a sé stessa, ma votata alla esaltazione della sublime bellezza di questa scena. Tutte le sfumature della donna innamorata e poi tradita, della madre che guarda i figli con uno sguardo che la spaventa e della sacerdotessa che si sacrifica, scorrono con il fiume in piena della sua voce, un fiume che rimane sicuro tra gli argini. Le è al fianco un altro personaggio femminile tormentato, Adalgisa, qui affidato alle sicure doti vocali e interpretative di Annalisa Stroppa, non bellissimo il timbro, ma fraseggio e intensità espressiva impareggiabili.
Chi fosse abituato ai Pollioni che poi vestono i panni di Otello e Turiddu (Del Monaco) o Radames e Andrea Chénier (Corelli) forse si stupirà nel trovarsi davanti Dmitrij Korčak, cantante rossiniano e donizettiano che, posata la bacchetta da direttore – un’esperienza non esaltante –, assume la parte del proconsole romano con risultati sorprendentemente positivi, riconsegnando al ruolo la sua vera vocazione vocale, quella del creatore originale della parte, il baritenore Domenico Donzelli. Con smaglianti acuti e puntature Korčak delinea efficacemente un personaggio che solo nel finale si riscatta dal ruolo di mascalzone che ha esibito fino a quel momento. Magnifico l’Oroveso di Fabrizio Beggi: ogni sillaba è scolpita nel bronzo e le note basse si fanno strada nei concertati con grande sonorità. Di ottimo livello anche i personaggi secondari: Joan Folqué dà insolito significato al breve intervento di Flavio, Minji Kim è una sensibile Clotilde.
Della regia non c’è molto da dire, visto che non c’è. Per Lorenzo Amato, come nel caso di un certo direttore d’orchestra, il suo unico merito sembra quello di essere “figlio di”. Se non altro la messa in scena non distrae dalla musica. Quasi commovente nella sua ingenua romanticità l’impianto scenografico dell’appena scomparso Ezio Frigerio: un fondale su cui vengono proiettate suggestive immagini di foreste che formano quasi una cattedrale gotica con in scena pochi elementi tridimensionali. Appropriati sono i costumi della moglie Franca Squarciapino, mentre le luci di Vincenzo Raponi immergono la vicenda in un chiaro di luna perenne.
Il pubblico è conquistato e si prodiga in grandi applausi per tutti i protagonisti, con autentiche ovazioni per Gilda Fiume e Francesco Lanzillotta.
(1) Ecco quanto è stato scritto a questo proposito da Orlando Perera:
Il nuovo sovrintendente del Teatro Regio: troppi rumori fuori scena
Nel giorno in cui il Consiglio d’indirizzo della Fondazione Teatro Regio di Torino è riconvocato, dopo la prima riunione dell’11 scorso, per procedere nell’esame delle manifestazioni d’interesse e dei curricula presentati per il ruolo di Sovrintendente, vorrei sottoporre alcune riflessioni in primo luogo al Sindaco Lo Russo, nella sua qualità di presidente dello stesso Consiglio, ma anche alle due Fondazioni Bancarie, CRT e Compagnia di San Paolo, fortemente impegnate nel teatro con ingenti risorse.
Appena convalescente dalla terapia, per forza ruvida, del commissariamento, il nostro teatro lirico sembra lungi dal trovare pace. A scadenza ravvicinata giungono segnali, appelli, grida di dolore sempre anonimi e sempre più accorati, da cui traspare un grande malessere, anzi, per dirla tutta, una vera paura, da parte dei dipendenti, dei lavoratori, che parlano apertamente di un clima di terrore instaurato nei rapporti di lavoro. Ultimo documento proprio in questi giorni. Sintomi tanto più preoccupanti in un momento in cui il nostro teatro lirico attende la nomina del nuovo sovrintendente per uscire da una lunga, pesante emergenza. Negli ultimi due anni – forse tre – disastro finanziario, naufragio della gestione 5Stelle, crolli della scena e infine Covid hanno giocato come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, arginati appunto con la nomina ministeriale della commissaria Rosanna Purchia, l’11 settembre 2020 e scaduta a norma di legge dopo un anno, lo scorso autunno. Ora con il nuovo Consiglio d’Indirizzo, seguito al rinnovo dell’amministrazione comunale, si sperava di recuperare un minimo di ritorno alla normalità, ristabilendo i normali meccanismi di gestione e di programmazione dell’attività artistica. Purtroppo non sembra così. Cercando di analizzare con oggettività i motivi di questo clima inquietante sembra che non ci sia da cercare lontano e sia lecito identificarne la fonte nella figura del direttore generale dottor Guido Mulè. Fortemente voluto da Purchia all’atto della sua nomina a commissario, è rimasto contrattualmente al suo posto anche dopo la fine del regime commissariale, e il passaggio della commissaria ad assessore alla cultura del comune. Lei stessa sostiene del resto che l’operazione di risanamento è ancora ben lontana dall’essere compiuta, e che è quindi indispensabile garantire la continuità della gestione. Evidente che per Purchia Mulè dovrebbe al più presto passare al ruolo di Sovrintendente. Nulla da eccepire, e non c’è dubbio che il risanamento sia tuttora al livello di auspicio: come la mettiamo però con un certo trionfalismo della comunicazione ufficiale? Ad esempio, risulta che dei 20 milioni promessi come intervento straordinario (in realtà è un prestito) del fondo di rotazione per gli enti lirici (ex-legge Bray) non sia arrivato un centesimo, e che il pareggio di bilancio sia stato ottenuto durante la pandemia più che altro grazie alla cassa integrazione per i dipendenti, al blocco degli spettacoli e ai tagli dei contratti precari. Ma di questo si potrebbe parlare a lungo. Di fatto al momento il dottor Mulè tiene in pugno tutto il teatro e da quello che si percepisce mai la parola pugno fu più acconcia. Non intendo addentrarmi nel labirinto delle voci di corridoio, dei lamenti, delle accuse anonime di arroganza, e peggio. Terreno scivoloso e forse sterile. Penso però che non sia prudente fare finta di nulla e che nascondere sotto il tappeto la forte tensione che attanaglia quadri e maestranze (le masse artistiche, per loro fortuna non sono coinvolte nella gestione), non sia il miglior viatico per il futuro del teatro. Da cronista cerco però di attenermi ai fatti, richiamando due decisioni della gestione commissariale assunte entrambe poco prima della propria scadenza. Primo, la modifica dello Statuto della Fondazione Teatro Regio nella parte riguardante la figura del Sovrintendente. All’articolo 9 lettera F è scritto ora che “può essere scelto tra persone dotate di specifica e comprovata esperienza di tipo gestionale non solo nel settore dell’organizzazione musicale e/o culturale”. Tradotto dal burocratese, vuole dire che per fare il Sovrintendente al Regio di Torino non occorre più avere esperienza specifica nel settore musicale-culturale, basta una generica esperienza “gestionale”. Tutto questo in contrasto con il Decreto legislativo 29 giugno 1996 sulla trasformazione degli enti musicali in fondazioni. All’art. 13 si legge “Il sovrintendente è scelto tra persone dotate di specifica e comprovata esperienza nel settore dell’organizzazione musicale e della gestione di enti consimili”, dettato di legge interamente recepito dall’art.10 del precedente Statuto del 2014. Domanda: cosa è prevalente sul piano giuridico-legale, il nuovo Statuto o il precedente Decreto avente valore di legge? Sarebbe interessante avere una risposta su questo punto che mi pare non secondario. Perché, a pensar male, come è noto, si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, e la nuova dizione sembra costruita su misura per Mulè.
L’altra decisione assai meno sottile, anzi piuttosto clamorosa, riguarda la retribuzione dello stesso sempre firmata dall’allora Commissaria. Queste le cifre: per la prima parte dell’incarico, dal 25 settembre ’20 al 9 settembre ’21, circa un anno, il direttore generale ha percepito 110 mila euro. Per il rinnovo di sei mesi dal 10 settembre ‘21 al 16 marzo ‘22 la cifra rimane la stessa, sempre 110mila euro, ma per metà impegno. Come chiamarlo, se non un raddoppio secco? Decisione tanto più singolare, di fronte della montagna tuttora incombente di 20 milioni di debito strutturale e ancor più in faccia ai dipendenti che, a causa dei tagli della spesa, si sono visti falcidiare le loro buste paga, oggi a un livello medio di 1500 euro, quindi a spanne un decimo rispetto a quello che prende Mulè. Risulta che il contratto a Mulè sia stato rinnovato fino al 30 giugno: è possibile sapere a quali condizioni retributive?
A norma di Statuto il Sovrintendente, unico organo di gestione, è nominato dal Ministro della Cultura su proposta del Consiglio di Indirizzo. Non è prevista dunque alcuna forma di concorso pubblico. Ma il nuovo CdI del Regio, insediatosi il 16 febbraio scorso, anche su pressione politica della Regione e della Fondazione CRT, ha preferito – saggiamente – di non procedere d’imperio, e ha scelto di ripercorrere la strada già battuta dai predecessori attraverso lo strumento dell’invito alla manifestazione di interesse da parte degli aspiranti all’incarico. Il termine è scaduto lo scorso 4 marzo, sono state presentate 25 candidature, tra le quali non c’è quella divisiva di Mulè. Insomma la linea scelta dagli amministratori della Fondazione Teatro Regio sembra di assoluta oggettività. Ma, c’è un ma: nell’ “invito” si precisa che “Qualora il Consiglio di Indirizzo della Fondazione non individui, fra le manifestazioni di interesse pervenute, il soggetto idoneo, può proporre per la nomina un diverso soggetto in possesso dei requisiti richiesti”. Oplà! Un notevole salto doppio carpiato, con il quale la non-candidatura di Mulé potrebbe rientrare trionfalmente in campo dalla porta principale, avendo di fatto sbaragliato nel giudizio dei vertici gli altri concorrenti. I membri del CdI sono sette. La maggioranza a favore di Mulè sulla carta è più che ampia. Il sindaco Lo Russo, Francesca Ramondo espressa dallo stesso Comune di Torino, Giuseppe Navello designato dal Ministero della Cultura, dunque dalla stessa filiera di Purchia e Mulè, Giuseppe Bergesio dell’Iren, allineato con il Comune, e infine, ma dopo il sindaco è la voce di maggior peso, Michele Coppola della Compagnia di San Paolo. Non favorevoli sono soltanto l’avvocato Roberto Pani dalla Regione Piemonte e l’ex-assessore comunale e regionale Giampiero Leo dalla Fondazione CRT. Cinque a due, non c’è storia dunque, e il risultato non dovrebbe mancare. Tanto che forse il nuovo sovrintendente potrebbe essere nominato già oggi. Da semplice cittadino e, se si vuole, da appassionato, mi assilla però una domanda, se davvero è già tutto deciso, non viene il sospetto che tutta la manovra della manifestazione d’interesse sia solo una foglia di fico issata davanti alla città, per coprire un’atto di forza, una scelta già scritta, sulla quale è inutile discutere? I consiglieri pensano di incontrare almeno una parte dei candidati come sarebbe lecito attendersi, o pensano di basarsi solo sui curricula e di procedere senza perdere altro tempo? In questo caso, non avremmo tutti diritto di sentirci presi per il naso?
Vista la situazione del Regio, che deve in qualche modo risorgere un’altra volta dalle proprie ceneri – come dopo l’incendio del 1936 (a proposito, non si offenda per l’ironia dei nomi Guido Mulè, ma l’opera in scena la sera della sciagura era Liolà di Giuseppe Mulè), se il Regio deve risorgere non sarebbe più saggio convogliare il più largo consenso possibile attorno a questa nomina, invece di creare divisioni e polemiche, sicuramente destinate a protrarsi nel tempo? Siamo sicuri che fra le candidature avanzate non ci siano opzioni che offrano tutte le garanzie di competenze specifiche (superando quindi le difficoltà giuridiche poste dalla modifica dello Statuto), e anche meno divisive, meno foriere di tensioni che potrebbero complicare non poco la vita del Regio? La lista dei candidati non è ovviamente pubblica, ma qualche nome è trapelato. […] Signor Sindaco, signori Consiglieri d’indirizzo, devo ricordare che la scelta cui siete chiamati non è reversibile per i prossimi cinque anni, che il nome dai voi scelto non può prestare il fianco a dubbi o incertezze? Oppure quella del nuovo sovrintendente del Regio è solo un’operazione di potere? Un dubbio non solo mio, che sperò verrà presto dissipato. Altrimenti i rumori fuori scena rischiano di diventare assordanti.
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