Prosa

Il vizio dell’arte

Alan Bennett, Il vizio dell’arte

regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

Milano, Teatro Elfo Puccini, 14 maggio 2023

All’Elfo ritorna la esilarante commedia di Bennett

Wystan Hugh Auden e Benjamin Britten si ritrovano da vecchi nel 1973. Il poeta, sessantacinquenne, vive nel disordine e nell’ozio in una dépendance del Christ Church College, il compositore, di sei anni più giovane, sta completando Death in Venice, che sarebbe stata la sua ultima opera. Il battibecco immaginato tra questi due rancorosi e malati vecchi non potrebbe essere più vero: Alan Bennett maneggia con genialità i dialoghi tra questi due mostri sacri inserendoli in una finzione teatrale, le prove di un’opera che li vede protagonisti, e con un tentativo di intervista da parte di Humphrey Carpenter, che ha scritto sia la biografia di Britten sia quella di Auden.

I registi Ferdinando Bruni e Francesco Frangia avevano messo in scena nel 2014 con grande successo questo testo scoppiettante, un gioco di teatro nel teatro dove le battute si succedono in un ritmo infallibile.  In prima fila ci sono gli attori, le luci in sala sono accese quando non si “prova”, alcuni personaggi si rivolgono direttamente al pubblico: diventa difficile distinguere la finzione scenica dalla vita reale. 

La ripresa della pièce (Premio Ubu 2015) al Teatro Elfo Puccini di Milano vede come interpreti lo stesso Bruni (Fitz/Auden), Elio de Capitani (Henry/Britten), Ida Marinelli (la aiuto regista), Edoardo Barbone (Tim/Stuart), Roberto Antonio Dibitonto (pianoforte), Umberto Petranca (Humphrey Carpenter), Michele Radice (l’autore) e Vincenzo Zampa (l’attrezzista).

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Sei personaggi in cerca d’autore

foto © Luigi de Palma

Sei personaggi in cerca d’autore, da Pirandello

regia di Valerio Binasco

Torino, Teatro Carignano, 20 aprile 2023

Il Pirandello “tradito” di Valerio Binasco

Il 9 maggio 1921 il pubblico del Teatro Valle di Roma assisteva allibito al nuovo lavoro di Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore. Fu un «successo fra vivacissimi contrasti», come intitolò La Stampa il giorno dopo. Se il pubblico di allora si era sentito provocato, se non preso in giro, centodue anni dopo quello del Teatro Carignano risponde con compassata partecipazione alla riproposta di  un classico che ha perso la sua forza provocatoria. C’era curiosità nel vedere come un regista di oggi avrebbe affrontato un testo così particolare, un testo con cui si può dire che nasca il teatro moderno. 

Nella produzione di Valerio Binasco, che affronta Pirandello per la seconda volta dopo Il piacere dell’onestà di due anni fa sempre con lo Stabile torinese, della lingua originale molto si perde: il testo viene decisamente sforbiciato, si sentono espressioni del linguaggio di oggi, colorite, si sarebbe detto un tempo. In scena non abbiamo una compagnia di attori professionisti, ma i giovani allievi della scuola del Teatro Stabile torinese. Venuto a mancare l’effetto sorpresa, del dramma pirandelliano Binasco sottolinea la trama famigliare, la vicenda umana, il «dramma di personaggi che non [sono] funzioni narrative o drammaturgiche, ma cuori in pena». Non il gioco del teatro nel teatro nel teatro – addirittura tre livelli: i misteriosi personaggi, gli attori, i personaggi de Il giuoco delle parti che stanno provando – ma l’umanità disperata e sofferente la cui vicenda incide profondamente sui giovani che ascoltano il racconto. I primi dieci minuti dello spettacolo hanno poco a che fare col dramma di Pirandello: vediamo gli inesperti allievi di una scuola di recitazione con i loro problemi, le loro difficoltà, confrontarsi tra loro prima che con i Personaggi. Ecco il perché della scelta della proposizione da Luigi Pirandello del titolo dello spettacolo.

«Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’adoperi con ogni mezzo a ottenere tutto l’effetto che questi Sei Personaggi non si confondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere», scrive Pirandello, «che ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale»: il rimorso per il Padre, la vendetta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre. Nella sua messa in scena Binasco non usa maschere, ma un trucco pesante e abiti anni ’20 che contrastano nettamente con i jeans e le felpe dei giovani. Di certo non c’è pericolo di confonderli. I Personaggi arrivano dal passato ed è il contrasto tra questo passato e la contemporaneità dei giovani l’elemento essenziale dello spettacolo. Il regista non utilizza la platea per l’ingresso dei Personaggi: questi compaiono sul palcoscenico in maniera un po’ anonima, ma presto si prendono la scena, con una recitazione spesso sopra le righe –soprattutto Giordana Faggiano (la Figliastra), ma anche Valerio Binasco (il Padre), Sara Bertelà (la Madre), Giovanni Drago (il Figlio) – mentre come Capocomico Jurij Ferrini sembra sempre che improvvisi nel modo di porgere le sue battute per sollecitare il pubblico alla risata facile: il dramma cupamente tragico viene affrontato qui da un approccio piuttosto rilassato. «Nella mia rilettura ho un po’ tradito Pirandello,  ho alleggerito dei passaggi, ho reso la trama più marcata, ho aggiunto qualche invenzione, ho reso i personaggi meno saccenti e gli attori e il regista meno stupidi» scrive il regista. La scenografia di Guido Fiorato ambienta opportunamente la vicenda in una palestra adibita a sala prove invece che in un teatro.

Questo era il debutto in prima nazionale di uno spettacolo prodotto assieme al Teatro Nazionale di Genova e alla Fondazione Teatro di Napoli e che verrà replicato fino al 7 maggio. I tre atti sono fusi in un unico tempo di 1 ora e 45 minuti.

Straight

David “D.C.” Moore, Straight

regia di Silvio Peroni

Torino, Teatro Gobetti, 18 aprile 2023

Amicizia e pornografia

Che con la pornografia si combattesse la solitudine era chiaro, ma che servisse anche a risolvere problemi esistenziali non si sapeva. Ce lo racconta invece David “D.C.” Moore, drammaturgo inglese classe 1980. Autore di discreto successo – da Alaska (2007, Royal Court Theatre) a Common (2010, National Theatre London) – è più noto per il film Humpday (Un mercoledì da sballo, 2010) di Lynn Shelton da cui ha tratto la sua commedia Straight (2012, Bush Theatre).

Tradotta da Andrea Peghinelli Straight (Eterosessuale, in italiano) arriva sul palcoscenico del Gobetti per il Teatro Stabile di Torino. Quattro personaggi, un palco del tutto vuoto, bianco, nessun oggetto di scena. L’unico sarà una cinepresa che proietterà sul fondale, diventato schermo, le immagini riprese in diretta dei due personaggi maschili nella scena clou, quella del video porno, che comunque non ci sarà. 

La vicenda tratta di amicizia, o meglio dell’effetto che l’arrivo di un vecchio amico ha su un matrimonio. Lewis e Morgan sono una coppia abbastanza normale che vive la propria vita insieme in circostanze un po’ ridotte, un monolocale angusto, quando arriva Waldorf e mette a soqquadro tutto, portando la sua vita molto più frenetica e concitata in quella della coppia in cui però trova un terreno fertile: Lewis ha un che di inappagato, vuole provare qualcosa di cui ricordarsi e Waldorf glielo offre proponendogli di girare un video porno “artistico” per un certo festival fringe. E la scena del “porno” arriva dopo una prima parte piuttosto verbosa, ma anche qui saranno le parole più che i gesti a dominare per il divertimento del pubblico che ride a vedere i goffi gesti di due amici eterosessuali alle prese con un video gay di cui vogliono essere i protagonisti.

I quattro giovani attori – Daniele Marmi (l’impacciato Lewis), Giovanni Anzaldo (il disinibito Waldorf), Giulia Rupi (la perplessa Morgan) ed Eleonora Angioletti (la porno star “artistica”) – si immedesimano nei loro esili personaggi e il regista Silvio Peroni dirige con ritmo efficace.

 ⸪

Orestea

   

Eschilo, Orestea

regia di Davide Livermore

Torino, Teatro Carignano, 1 aprile 2023

Eschilo colossal

Ci è voluto molto coraggio nell’adattare uno spettacolo concepito per gli spazi all’aperto del Teatro Greco di Siracusa all’intimità del Teatro Carignano di Torino, ma Davide Livermore non si è lasciato intimorire dalla sfida e il risultato è nella risposta entusiasta del pubblico che affolla in questi giorni la sala dello Stabile torinese. Lo spettacolo è una coproduzione del Teatro Nazionale di Genova.

Eliminata la gigantesca parete a specchio che rifletteva gli spettatori sulle gradinate del Teatro Greco, così come il video circolare sul pavimento che raddoppiava quello sulla parete di fondo e rinunciando all’automobile nelle Coefore, il palcoscenico della sala di velluto rosso è ora ingombro degli oggetti che si perdevano là nell’immensità della scena di pietra: il divano, le poltrone, i tavolini, la pedana centrale rialzata, i pianoforti. Invece del cielo stellato e delle silhouette degli alberi, qui si vedono la graticciata e i ponti con le luci. Ma nessuno li nota: lo sguardo è calamitato da quello che avviene sul palcoscenico in uno spettacolo colossal non tanto per la lunghezza, ma per i contenuti e i molti strati espressivi utilizzati dal regista.

Di seguito e nella stessa giornata, le tragedie che formano la trilogia Orestea di Eschilo sono rappresentate in due parti: la prima contiene Agamennone, la seconda Coefore ed Eumenidi. Il personaggio di Oreste, che nella prima parte è solo menzionato, diventa il protagonista assoluto nella seconda parte.

Come in un libro di Agatha Christie quando l’assassino viene scoperto e confessa le ragioni del suo crimine, in Agamennone Clitennestra spiega che ha ucciso il marito appena ritornato vittorioso dalla guerra per vendicare il fatto che dieci anni prima Agamennone avesse sacrificato la figlia Ifigenia per placare gli dèi del mare e consentire così alle navi di salpare per Ilio. Da tempo la donna ha preparato l’assassinio con la complicità di Egisto, anche lui assetato di vendetta contro gli Atridi in quanto figlio di quel Tieste costretto dal fratello Atreo, con cui si contendeva il trono di Micene, a cibarsi della carne degli altri suoi tre figli. Si veniva a innescare allora quella faida famigliare – ma Eschilo la definisce “giustizia” –  che forma la vicenda di questa trilogia.

In Coefore ha luogo la vendetta di Oreste e della sorella Elettra, ossia l’assassinio di Clitennestra e di Egisto. Questa catena di sangue andrebbe avanti all’infinito se Atena in Eumenidi non istituisse il primo processo per giudicare Oreste dove si decide se è più grave uccidere la madre, come ha fatto appunto il giovane, o il marito, come ha fatto Clitennestra. Con il voto di Atena Oreste viene assolto e le Erinni, eccitate dal fantasma della regina assetata di vendetta e che hanno perseguitato implacabili il giovane, si adeguano al giudizio e diventano Eumenidi, le benevole.

Ambientato in un dopoguerra, con costumi come sempre elegantissimi di Gianluca Falaschi che alludono agli anni ’30, la trilogia eschilea diventa una saga sul potere nella lettura di Livermore, una lettura quanto mai attuale nel nostro clima bellico: a distanza di migliaia di anni da quel lontano V secolo a.C. la storia è sempre contemporanea. Così come i guasti della democrazia, qui esemplati dalle immagini della Moby Prince, degli assassinii di Falcone e Borsellino, della strage della stazione di Bologna, del crollo del ponte Morandi, mentre la D-Wok trasforma lo schermo circolare in un pianeta a tre dimensioni in rotazione continua. 

La maratona teatrale si avvale di interpreti di eccellenza: dalla lucida e spietata Clitennestra di Laura Marinoni, alla intensa Cassandra, profetessa inascoltata, di Linda Gennari, dal breve ma memorabile intervento dell’Agamennone di Sax Nicosia al tormentato Oreste di Giuseppe Sartori, dalla gelida Elettra di Anna della Rosa alla maestosa dea Atena di Olivia Manescalchi, ma sarebbero tutti da citare i trenta interpreti. Le voci sono amplificate e distorte in tempo reale per trasformarle in una sorta di canto che raggiunge un effetto straniante. Nella prima parte le musiche di Mario Conte, dalla Musikalisches Opfer di Johann Sebastian Bach alla dodecafonia, sono realizzate in scena da Diego Mingolla e Stefania Visalli e si mescolano ai fragorosi cluster realizzati direttamente sulle corde di uno dei pianoforti. Nella seconda parte quelle di Andrea Chenna virano al pop con i vocalizzi di tre cantanti. I due finali sono poi affidati a brani dei Portshead e di David Bowie: «una celebrazione finale, una festa che coinvolge tutti. I concerti rock sono stati una nuova trasformazione del rito attorno all’arte e oggi sono il linguaggio musicale più diretto. E io voglio parlare a tutti» dice il regista. 

Agamennone

Coefore

Eumenidi

Riccardo III

foto © Luigi de Palma

Riccardo III, da Shakespeare

regia di Kriszta Székely

Torino, Teatro Carignano, 14 marzo 2023

Il cattivo più cattivo di tutti

La regista ungherese Kriszta Székely ritorna per la seconda volta al Carignano per la Stagione del Teatro Stabile di Torino allestendo un adattamento di The Life and Death of King Richard III, il lavoro con cui Shakespeare concludeva il ciclo Lancaster. Riccardo III viene ucciso dal conte di Richmond e Shakespeare scrivendo per Elisabetta I, discendente di Richmond, per compiacere la sovrana dipinge un quadro totalmente negativo del suo avversario, esagerandone la brama di potere e  costruendo così uno dei personaggi più perfidi del teatro di tutti i tempi, andando anche contro alla verità storica. Ma per noi Riccardo III è questo del Bardo: la mostruosità morale del tiranno al centro del lavoro è tale che l’intento profondamente denigratorio conferisce al personaggio una statura di maestosa tragicità. E sconvolgente attualità.

Ed è su questa attualità che puntano la regista e l’adattatore del testo Ármin Szabó-Székely, i quali cautamente intitolano lo spettacolo “da Shakespeare”, anche se poi il loro adattamento consiste sostanzialmente nel ridurre il numero di personaggi (nell’originale più di  quaranta) e la loro verbosità – assieme a Hamlet questo è il testo più lungo del teatro shakespeariano – oltre ovviamente ad ambientarlo nella  contemporaneità e ad attualizzarne il linguaggio con l’introduzione di termini dei nostri giorni. Ma forse è proprio questo il punto debole dello spettacolo che oscilla tra la contemporaneità e l’adesione al testo originale con momenti poco convincenti, come l’espressione «Un cavallo! Il mio regno per un cavallo», qui del tutto fuori contesto, tanto che l’interprete non può non ammiccare agli spettatori con una battuta però poco felice:  «Devo averla lenta da qualche parte questa frase!».

Quella della Székely è la rappresentazione di una sanguinosa parabola di potere in chiave social: le immagini teletrasmesse, le calunnie, le fake news, la gogna mediatica sono i mezzi abilmente gestiti da Riccardo con i quali riesce a manipolare gli avversari, praticamente tutti gli altri al di fuori di lui, nella sua salita al trono senza scrupoli e per puro piacere del potere, senza uno scopo preciso.

La scenografia è quella di un elegante chalet di montagna che diventa anche sala di riunioni. A destra si apre una porta scorrevole verso un esterno che non vediamo mai, a sinistra si ammucchiano i sacchi di plastica nera con i cadaveri delle vittime del tiranno. Uno schermo televisivo trasmette le immagini che vengono spesso proiettate a misura gigante sul velario che a tratti scende a separare la scena dal pubblico. La regista dimostra si saper fare teatro con efficaci tagli di luci, movimenti precisi degli attori e la scelta di una recitazione molto espressiva, talora forse un po’ troppo gridata. Paolo Pierobon delinea con simpatica ironia il personaggio eponimo sottolineandone il cinismo, il talento seduttivo e la sfrontata volontà di sopraffazione; Elisabetta Mazzullo è Elisabetta, la regina spodestata a cui vengono uccisi marito e figli ma che alla fine ritorna sul trono. Sarà migliore del tiranno caduto? Mah.

Jacopo Venturiero è Buckingham, quello più fedele perché incantato dalle false promesse; Francesco Bolo Rossini punta sui tratti quasi grotteschi dei due ruoli di Edoardo e di Presidente della Corte Suprema; Stefano Guerrieri passa con abilità da Clarence a Vescovo; Lisa Lendaro è la Anna a cui Riccardo ha ucciso figlio e marito ma che casca nella sua rete e lo sposa: nell’originale sparisce dopo le prime scene, qui rimane «per mostrare il destino di una donna costretta a vivere come oggetto di rappresentanza in una dinamica di potere» dice la regista. Matteo Alì (Hastings), Nicola Pannelli (Stanley, quello che capisce tutto ma non si oppone), Manuela Kustermann (Cecilia), Marta Pizzigallo (la furente Margherita, inascoltata Cassandra), Alberto Boubakar Malanchino (nei tre personaggi di Rivers, secondo sicario e Tyrrell) e Nicola Lorusso (Catesby, primo sicario ma anche vedova en travesti per la propaganda televisiva del tiranno) completano un cast calorosamente applaudito dal folto pubblico. Dopo questa prima nazionale, lo spettacolo si trasferisce nei teatri di Bolzano e dell’Emilia Romagna che l’hanno coprodotto.

Amore

 

Pippo Delbono, Amore

Moncalieri, Fonderie Limone, 1 marzo 2023

«Amar, malamar, desamar»

Dopo La rabbia (1995), La gioia (2018), ecco L’amore: sono le passioni primarie l’essenza del teatro di Pippo Delbono. Nel 2011 c’era anche stato Amore e carne.

Debuttato allo Storchi di Modena nell’ottobre 2021, l’ultimo spettacolo di Pippo Delbono ora alle Fonderie Limone per la stagione del Teatro Stabile di Torino è stato concepito in Portogallo, il punto di partenza. Portoghese è il fado le cui nostalgiche note ne formano l’ossatura, portoghesi sono le parole («amar, malamar, desamar») del poeta Carlos Drummond De Andrade che Delbono sussurra nell’intimità di un microfono, invisibile fuori scena, assieme a quelle di Eugénio De Andrade, Daniel Damásio Ascensão Felipe, Jacques Prévert e altri.

Amore nasce da una necessità, da un grande dolore ancora non superato dell’autore, esule della vita. Lo spettacolo alterna pieni e vuoti: una vivace parata, un tableau vivant, una lenta processione, un fado. Le immagini affidano alla musica quello che le parole non possono dire. Amore si avvale della presenza di vecchi amici (Gianluca Ballarè, Dolly Albertin, Nelson Lariccia…), della musica di bravissimi interpreti (il fadista Miguel Ramos, i chitarristi Pedro Jóia e Pepe Robledo negli struggenti Fado menor e Morrer de amor, la cantautrice angolana Aline Frazão) e di altri nuovi compagni di scena.

La scena nuda di Joana Villaverde comprende un solo albero sbilenco e stecchito. Il resto lo fanno le luci di Orlando Bolognesi e i costumi di Elena Giampaoli. Potrebbe essere quella di En attendant Godot, e infatti a un certo punto vediamo due figure che si legano e si tirano come i personaggi di Pozzo e Lucky nella pièce di Beckett. Alla fine l’albero si riempie miracolosamente di fiori e sotto di lui viene a sdraiarsi, per morire, l’autore vestito di bianco, come bianchi erano stati i morti del ballo della scena precedente. Amore e morte sono indissolubili e la vita ci scorre via come la sabbia nel sacco che una figura stringe al petto.

Amore è un viaggio musicale e lirico attraverso una geografia esterna – oltre al Portogallo, l’Angola, il Capo Verde – e una interna, quella delle corde dell’anima. È il tentativo di portare la vita dentro al teatro: quello che ha sempre fatto con disarmante sincerità e onestà Pippo in questi oltre vent’anni di attività.

Rivage à l’abandon – Médée-Matériau – Paysage avec Argonautes

foto @ Pascal Gély

Heiner Müller, Rivage à l’abandon – Médée-Matériau – Paysage avec Argonautes

Regia di Matthias Langhoff

Torino, Teatro Astra, 23 febbraio 2023

La trilogia di Müller per il TPE

Personaggio di spicco della cultura del dopoguerra, Heiner Müller (1929-1995) è stato anche un prolifico autore di teatro con oltre trenta drammi in cui sia il mito greco sia Shakespeare sono stati oggetto di adattamento o traduzione. Il suo dramma postmoderno Hamletmaschine aveva fatto scalpore in Italia quando la compagnia teatrale I Magazzini l’aveva messo in scena al Teatro dell’Arte a Milano nel 1988. Basato su Les liaisons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos è invece Quartett, che è stato messo in musica da Luca Francesconi e presentato alla Scala nel 2011 dove è stato ripreso otto anni dopo.

Médée-Matériau, ora al Teatro Astra per il TPE, appartiene a quei «pezzi enigmatici e frammentari» (secondo la definizione della Cambridge Guide to Theatre) che costituiscono il lavoro di questo particolare autore. Assieme ad altri due brevi lavori formano lo spettacolo prodotto dalla Comédie de Caen con la regia di Matthias Langhoff. La scena di Medea è incorniciata infatti da due paesaggi: Rivage à l’abandon e Paysage avec Argonautes, paesaggi desolati che, suggeriti allora dalle rovine del dopoguerra, adesso rispecchiano la natura devastata e contaminata del mondo di oggi. Il mito è dunque osservato attraverso le rovine della storia, ma soprattutto della nostra contemporaneità.

Il pubblico entra dal palcoscenico allestito come una esposizione in cui campeggiano tre tele di Catherine Rankl in grande formato che mescolano montaggi fotografici ed interventi pittorici per mostrare tre diverse rive fatiscenti: una barca spiaggiata, una statua abbattuta dal suo piedestallo, un albero scheletrico, le tristi icone femminili della danzatrice di Muybridge. In questa breve sosta il pubblico ascolta frammenti dell’opera radiofonica Verkommenes Ufer (Riva putrida) del compositore Heiner Goebbels prima di entrare nella platea del teatro e prendere posto. Le grandi tele su carrelli formeranno la scenografia mobile di questo trittico che inizia con l’attore argentino Marcial di Fonzo Bo (il Picasso di Midnight in Paris di Woody Allen) che recita un testo in cui descrive la riva del lago nei pressi di Strausberg diventata approdo di Argonauti «dalla fronte bassa» e tra immondizia sparsa ovunque. Senza soluzione di continuità appare poi Medea, l’attrice Frédérique Loliée, che nel suo terribile monologo ci racconta dell’abito letale che regala alla giovane di cui si è invaghito il suo Giasone («l’oro della Colchide le ostruisce i pori | pianta una foresta di coltelli nella carne») e premedita l’uccisione dei figli («ridatemi il sangue dalle vostre vene | voi viscere ritornate dentro di me») maneggiando due scatole di cibo per cani («carne del mio cuore […] non avete più sangue | adesso solo silenzio | anche le grida della Colchide si sono azzittite | e poi più niente»). Un altro monologo è quello finale con Marcial di Fonzo Bo steso dentro una barca arenata, non più l’eroe del vello d’oro ma un naufrago senza patria, che racconta di un paesaggio in cui l’umanità è paesaggio desolato essa stessa. Una visione tremendamente attuale: «ricordo di una battaglia tra carri armati | la mia camminata in periferia | io tra rovine e macerie». Quello che vediamo sugli schermi dei nostri televisori da un anno esatto.

Ma non si tratta di possedere particolari doti divinatorie: basta immaginarsi gli scenari peggiori e prima o poi la realtà farà in modo di superarne l’immaginazione.

Uno sguardo dal ponte

Arthur Miller, Uno sguardo dal ponte

Regia di Massimo Popolizio

Torino, Teatro Carignano, 8 febbraio 2023

Hanno ammazzato Eddie Carbone

Secondo lavoro di Arthur Miller della stagione dello Stabile di Torino, Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge) andò in scena come atto unico nel 1955 a New York con scarso successo, così l’autore ne fece una revisione in due atti presentata l’anno successivo a Londra con la regia di Peter Brook e da allora è entrato nella rosa dei maggiori lavori del drammaturgo, scrittore, sceneggiatore e giornalista newyorchese.

La commedia è ambientata nell’America degli anni Cinquanta, in un quartiere italo-americano vicino al ponte di Brooklyn a New York. È presente un narratore nel personaggio di Alfieri, un avvocato italo-americano, che racconta di Eddie, il tragico protagonista che ha un’ossessione per Catherine, la nipote orfana di sua moglie Beatrice, per cui non approva il corteggiamento da parte del cugino di Beatrice, Rodolfo. La gelosia lo porterà a denunciarlo come immigrato illegale e poi a diventare vittima della collera del fratello Marco.

L’interesse di Miller per la scrittura sul mondo dei moli di New York era nata da un fatto di cronaca nera che divenne una sceneggiatura non prodotta sviluppata con Elia Kazan all’inizio degli anni Cinquanta intitolata The Hook (L’uncino) che trattava della corruzione sui moli di Brooklyn. In seguito Kazan diresse On the Waterfront (Fronte del porto) su un argomento simile. Nel 1958 Luchino Visconti metteva in scena la versione italiana di Uno sguardo dal ponte e nel successivo film Rocco e i suoi fratelli affrontava un vicenda analoga.

Coprodotto con la Compagnia Umberto Orsini, il Teatro di Roma e l’ERT (Emilia e Romagna Teatro) lo spettacolo ora sul palcoscenico del Carignano porta la firma registica di Massimo Popolizio che riserva per sé la parte di Eddie. La scenografia di Marco Rossi è ingombra di vecchi mobili, la memoria della Sicilia lasciata dagli immigrati, che si confondono con le casse e i sacchi scaricati dalle navi sull’East River. Popolizio così racconta il suo spettacolo: «Tutta l’azione è un lungo flash-back: Eddie Carbone, il protagonista, entra in scena quando tutto il pubblico già sa che è morto. Per me è una magnifica occasione per mettere in scena un testo che chiaramente assomiglia molto a una sceneggiatura cinematografica e che, come tale, ha bisogno di primi, secondi piani e campi lunghi. Alla luce di tutto il materiale che questo testo ha potuto generare dal 1955 ad oggi – film, fotografie, serie televisive – credo possa essere interessante e “divertente” una versione teatrale che tenga presente tutti questi “figli”. Una grande storia raccontata come un film, ma a teatro».

E così è nella sua regia di taglio quasi cinematografico, con scene che hanno la brevità di una sequenza da film muto, e nella recitazione, dove il dialetto siciliano dei nuovi arrivati è ancora così forte rispetto a quello dei “merigans” che si sono ormai adattati, primi fra tutti i giovani Catherine e Rodolfo. Popolizio non calca la mano sugli aspetti più morbosi della storia, la passione incestuosa del vecchio zio per la nipote, ma preferisce evidenziarne gli aspetti di scottante attualità: la fuga dalla povertà, le tensioni fra gli immigrati, la caccia allo straniero, la brutalità della polizia. Son passati quasi settant’anni dal 1955 ma tutti questi  problemi sono ancora tragicamente attuali, come ci ricordano i bravi attori in scena: oltre al fuoriclasse Massimo Popolizio che delinea un Eddie Carbone quasi rassegnato al suo tragico destino, Valentina Sperlì (Beatrice), Michele Nani (l’avvocato Alfieri), Raffaele Esposito (Marco), Lorenzo Grilli (Rodolfo), Gaja Masciale (Catherine), Felice Montervino (Tony), Marco Mavaracchio e Gabriele Brunelli (i poliziotti), Marco Parlà (Louis). Il folto pubblico che ha disdegnato la seconda serata di Sanremo li ha applauditi con calore.

Maria Stuarda

 

Friedrich Schiller, Maria Stuarda

regia di Davide Livermore

Torino, Teatro Carignano, 25 gennaio 2023

Scambio di regine

Due donne, due cugine, due casate, due destini diversi: una sul trono, l’altra al patibolo. Chi decide queste sorti così diverse? Il caso, una piuma che cade.

Con questa immagine inizia lo spettacolo con cui Davide Livermore torna a Torino in un grande teatro – l’ultima volta era stata al Regio per I vespri siciliani  delle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, dodici anni fa – con Maria Stuart di Friedrich Schiller. Le attrici che interpretano le parti delle due donne hanno preparato entrambi i ruoli e fino all’ultimo non sanno chi vestirà i panni della scozzese Maria e chi quelli dell’altera Elisabetta: la candida piuma dell’angelo del destino questa sera sceglie Laura Marinoni come la Stuart ed Elisabetta Pozzi come la Tudor e le due attrici hanno solo pochi istanti per entrare nei rispettivi personaggi. Questo è solo uno dei momenti più pregnanti di uno spettacolo che a Genova aveva affascinato il pubblico l’anno scorso e che ora si presenta al giudizio degli spettatori del Teatro Carignano, che ne risultano altrettanto soggiogati.

Maria Stuart è del 1801 e si inserisce nella sterminata serie di opere dedicate alla figura della sventurata regina: da Campanella (1598, appena undici anni dopo i fatti storici) alla Reina di Scotia del Ruggeri (1602), dalla Corona trágica, vida e muerte de la Serenisima Reina de Escocia di Lope de Vega (1627) a The Island Queen di John Banks (1684), dalla Maria Stuarda dell’Alfieri (1778) a quella del Lebrun (1820), da Juliusz Słowacki (1832) a Swinburne (1881), per citare solo le maggiori.

Il primo dei cinque atti del dramma di Schiller è incentrato sulla figura della regina cattolica prigioniera nel castello di Fotheringay; il secondo, nel palazzo di Wesminster, è dominato dalla regina protestante; nel terzo c’è il fatale incontro fra le due donne, con la vittoria morale di Maria su Elisabetta e contemporaneamente la sua definitva condanna quando allo scherno della regina d’Inghilterra risponde col rinfacciarle la macchia della sua nascita; nell’atto quarto si scopre il complotto ideato da Mortimer e nel quinto si svolge la straziante morte della Stuart.

Con l’accurata traduzione di Carlo Sciaccaluga, lo spettacolo di Livermore dura tre ore compreso un intervallo, ma il ritmo impresso dai dialoghi e dall’avvicendarsi delle scene tiene lo spettatore avvitato alla poltrona e con il fiato sospeso. La qualità attoriale non è solo delle due attrici principali, ma è dimostrata anche da tutti gli altri cinque interpreti, impegnati in più ruoli anche di generi diversi: ecco quindi Gaia Aprea come Anna Kennedy la nutrice di Maria, ma anche come il vecchio Gerge Talbot conte di Shrewsbury e come un Ufficiale; Linda Gennari come Mortimer, Angelo del destino e un Paggio; Giancarlo Judica Cordiglia come Cecil barone di Burleigh e Melvil il maggiordomo di Maria; Olivia Manescalchi è il cavaliere Paulet, l’ambasciatore di Francia conte di Aubespine e il segretario di stato William Davison; Sax Nicosia è Robert Dudley conte di Leicester. Un sesto personaggio è quello della chitarra, e voce, di Giuia che con i suoi riff al basso elettrico e le sue nostalgiche ballate inglesi da lei rivisitate – e c’è anche l’addio della Didone di Purcell – trasforma il dramma di Schiller in un’opera pop che Livermore riveste di immagini sontuosamente barocche ma contemporanee. L’allestimento scenico di Lorenzo Russo Rainaldi costruisce un ambiente a più piani con passerelle praticabili a cui le luci di Aldo Mantovani danno profondità. Dei costumi di Dolce & Gabbana per la Marinoni e la Pozzi si può solo immaginare l’opulenza che si riflette in quella degli altri personaggi disegnati da Anna Missaglia. Il sound avvolgente e la direzione musicale si devono a Mario Conte.

Alla fine si esce col desiderio di rivedere lo spettacolo con le attrici nei ruoli scambiati, ma bisognerebbe ritornare ogni sera e sperare che la piuma cada dalla parte giusta. Geniale crudeltà del regista.

Festen

Festen

regia di Marco Lorenzi

Torino, Teatro Astra, 13 gennaio 2023

C’è del marcio in Danimarca

Dopo Hedda Gabler e Spettri, con Festen facciamo conoscenza di una famiglia che fa sembrare quelle di Ibsen quasi famiglie modello.

Siamo nuovamente al Nord, in Danimarca questa volta, dove i Klingenfeld sono riuniti nella loro lussuosa villa per festeggiare i sessant’anni di Helge, magnate dell’acciaio. Tra gli ospiti troviamo i figli Christian, Helene e Michael. La quarta, Linda, è morta suicida l’anno prima. Durante il brindisi il primogenito Christian raggela l’ambiente festaiolo rivelando che il padre ha ripetutamente abusato sessualmente di lui e della sorella gemella quando erano bambini e lo accusa inoltre di essere colpevole del suicidio di Linda, la figlia che non ha sopportato quel peso. I rapporti famigliari ne risultano devastati, ma con questo gesto Michael si è liberato e può andarsene via definitivamente da quella casa e ritornarsene alla sua Parigi.

Film di grande successo del 1998 diretto da Thomas Vintenberg, Festen (Festa in famiglia in italiano, The Celebration in inglese) riprende una più idonea forma teatrale – la vicenda è caratterizzata infatti da unità d’azione, di tempo, di spazio ed è ambientata praticamente tutta in interni – in questa produzione di Marco Lorenzi che ha adattato in italiano il testo di Mogens Rukov e Bo Hr. Hansen. Coprodotto con Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Solares Fondazione delle Arti, è ora al Teatro Astra per la stagione del Teatro Piemonte Europa uno spettacolo che deve il suo grande successo alla affiatata compagnia di attori e alla inedita tecnica rappresentativa con uno schermo su cui vengono proiettate le immagini riprese in tempo reale. Questo non solo richiama il mezzo cinematografico dell’originale, ma evidenzia il parallelismo tra realtà percepita e realtà vera su cui si basa il dramma. Dietro un telino semi-trasparente vediamo la ripresa il cui risultato appare sullo schermo: la realtà manipolata ad uso dello spettatore. I temi dei tabù, dei rapporti con la figura paterna, del potere, dell’ipocrisia sociale vengono spietatamente messi a nudo. Un misto di tragedia greca,  Amleto e fiabe dei fratelli Grimm: i riferimenti ai piccoli Hänsel e Gretel portati nel bosco dai genitori sono frequenti e rendono lo spettacolo di grande impatto emotivo anche grazie alla efficacia degli interpreti: Danilo Nigrelli (il patriarca Helge), Irene Ivaldi (la moglie che sapeva e ha taciuto), Yuri D’Agostino (il maestro di cerimonie Helmut), Elio D’Alessandro (l’intenso interprete del primogenito Christian), Roberta Lanave (la cameriera Pia e il fantasma di Linda), Carolina Leporatti (la moglie di Michael), Barbara Mazzi (la seconda figlia Helene), Raffaele Musella (il giovane Michael), Angelo Tronca (il domestico Kim e il nonno), tutti calorosamente applauditi dal folto pubblico.

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