Prosa

Il crogiuolo

foto © Luigi de Palma

Arthur Miller, Il crogiuolo

Regia di Filippo Dini

Torino, Teatro Carignano, 13 ottobre 2022

La stagione dello Stabile di Torino si apre con uno spettacolo coinvolgente

Prodotto dal Teatro di Napoli, dal Teatro Stabile di Bolzano e dal Teatro Stabile di Torino di cui apre la nuova stagione, Il crogiuolo (in originale The Crucible: A Play in Four Acts) è uno dei testi teatrali più significativi del prolifico drammaturgo, saggista e sceneggiatore americano Arthur Miller.

Il titolo originale designa sì il recipiente per la fusione dei metalli, ma per traslato significa anche una situazione di sperimentazione in cui diversi elementi interagiscono per formare qualcosa di nuovo. In maniera simile alla locuzione melting pot definisce il multiculturalismo della società negli Stati Uniti: «America is God’s Crucible, the Great Melting-Pot where alle the races of Europe are melting and re-forming!» (L’America è il crogiolo di Dio, il grande crogiolo in cui tutte le razze d’Europa si fondono e si riformano) veniva entusiasticamente dichiarato nella commedia del 1908 di Israel Zangwill The Melting Pot.

Arthur Miller qui lo usa in termini sarcastici per denunciare le forme di intransigenza e intolleranza a cui è arrivata la società americana del suo tempo durante la fase più acuta del maccartismo, gli anni ’50 del secolo scorso, in cui gruppi e singoli vennero accusati e processati per atteggiamenti ritenuti anti-americani, filo-comunisti e quindi sovversivi. Come molti membri del mondo del cinema, dello spettacolo e dell’arte, anche Miller fu vittima di quello stato di persecuzione e isteria collettiva che fu l’attività della commissione presieduta dal senatore Joseph McCarthy. Una vera “caccia alle streghe”, come venne battezzata per le evidenti analogie con una vicenda del 1692 quando il comportamento disinibito di un gruppo di ragazzine adolescenti del villaggio di Salem nel Massachussets venne visto come possessione demoniaca e scatenò una serie di denunce e processi che condussero al patibolo decine di persone e altre  centinaia in prigione con l’accusa di stregoneria. Venivano in tal modo regolate col sangue faide, gelosie e rancori tra vicini in un contesto chiuso, bigotto e dominato dal terrore.

È quindi una metafora di scabrosa attualità quella della pièce che debutta nel gennaio 1953 al Martin Beck Theater di New York con alcune recensioni ostili che però non impediscono a The Crucible di vincere il Tony Award for Best Play pochi mesi dopo. La ripresa l’anno successivo segna il successo duraturo del lavoro che avrà poi due versioni cinematografiche (1957, 1966) e anche una versione operistica (1961). Nel 1955 arriva in italia nella messa in scena e traduzione di Luchino Visconti e nel 1971 è sul piccolo schermo, adattato e diretto da Sandro Bolchi.

Ma anche ai giorni nostri il tema non perde di sconvolgente contemporaneità: vittime sono ancora e sempre le donne nei regimi teocratici, dove dominano l’ottusa intolleranza e la repressione del libero pensiero, mentre nei regimi totalitari gli oppositori vengono ingiustamente denunciati e processati o più semplicemente eliminati,  se non con l’impiccagione o il rogo, veleno e “suicidi” dalle finestre sono i metodi più utilizzati. Anche calunnie e delazioni oggi hanno assunto nuova forma: la gogna sui social. Un inquietante risvolto della nostra libertà di espressione.

Il regista Filippo Dini utilizza il testo tradotto da Masolino d’Amico per una drammaturgia di grande impatto nello spettacolo ora al Teatro Carignano e arrivato dopo una lunga gestazione da parte del regista, quasi 17 anni dice lo stesso Dini. Dopo la prima scena in cui viene rappresentato l’ingenuo “sabba” delle ragazze, entra su una carrozzella il vecchio vice governatore Danforth che racconta la vicenda, rivissuta come un flashback da parte del maggior responsabile di quella assurda carneficina. Come in una nuova Spoon River Anthology vengono elencati i nomi e riassunti i ruoli dei personaggi, ora verosimilmente tutti  morti. I quattro atti hanno un ritmo teso e incalzante che le musiche esaltano in due momenti di grande impatto quando le note dell’inno americano diventano il grido lancinante della chitarra di Jimi Hendricks o nel finale quando tutti intonano la struggente The House of the Rising Sun, tema folk riscoperto e portato al successo dal gruppo The Animals nel ’64.

Ma non sono gli unici momenti di forte teatralità di uno spettacolo estremamente coinvolgente – una vicina di posto, tutta presa dalla vicenda, “suggeriva” a voce alta le risposte agli attori! – in cui il perverso congegno messo in moto dalla gelosia assassina di Abigail Williams, ragazza sedotta e abbandonata, procede con ritmo implacabile a colpi di calunnie e vendette in un crescendo inarrestabile. Le scene di Nicolas Bovey ricreano l’atmosfera oppressiva e claustrofobica del villaggio: alte strutture dalla superficie scabra ruotano per creare i vari ambienti, pochi ed essenziali sono gli oggetti di scena, di grande impatto visivo è una gigantesca bandiera americana sbiadita. Molto efficace il gioco luci di Pasquale Mari, mentre Alessio Rosati declina in tutte le sfumature di grigio i severi costumi dei personaggi.

Lo spettacolo è magistralmente recitato dallo stesso Filippo Dini che delinea con entusiastica adesione la parte di John Proctor, l’«uomo buono», che invischiato nella vicenda preferisce salire al patibolo piuttosto che rinunciare a quel briciolo di onesta umanità che lo ha fatto vivere fino a quel momento. Ma tutto il resto del cast è da citare, ogni parte essendo realizzata con appassionata partecipazione. E  allora, come indicato sulla locandina e sul programma di sala, eccone l’elenco in ordine alfabetico e senza i ruoli assegnati: Virginia Campolucci, Gloria Carovana, Pierluigi Corallo, Gennaro Di Biase, Andrea Di Casa, Didì Garbaccio Bogin, Paolo Giangrasso, Fatou Malsert, Manuela Mandracchia, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi, Aleph Viola, quest’ultimo anche autore delle musiche suonate dal vivo.

Il pubblico ha risposto con lunghi ed entusiastici applausi e con una standing ovation piuttosto inusuale per i torinesi. Migliore avvio di una stagione che si prospetta di grande interesse non si poteva dare. Uno spettacolo che ci pone molte domande. Non è da perdere: c’è tempo fino al 23 ottobre.

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Ifigenia / Oreste

Ifigenia, Oreste
Due tragedie di Euripide attraverso il mito e la famiglia

Regia di Valerio Binasco

Moncalieri, Fonderie Limone, 28 maggio 2022

Euripide nostro contemporaneo

Estate, periodo di tragedie. Dopo l’Agamennone di Eschilo e l’Edipo re di Sofocle riletti rispettivamente da Davide Livermore e da Robert Carsen al teatro Greco di Siracusa, lo Stabile di Torino, a conclusione della sua stagione, presenta due lavori del terzo tragediografo ateniese riletti dal suo direttore Valerio Binasco.

Più giovane di tre lustri di Sofocle, Euripide nelle sue tragedie aveva tratteggiato le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi con più realismo, più attenzione ai sentimenti, maggiore evoluzione degli eventi narrati, quasi costante utilizzo del deus ex machina e la progressiva svalutazione del ruolo drammatico del coro. Queste peculiarità sono esemplate nella sua Ifigenia in Aulide (del 403 a.C., di dieci anni prima è l’Ifigenia in Tauride) e nell’Oreste (408 a.C.). Nella prima viene narrata la vicenda di Ifigenia che il padre Menelao deve sacrificare per propiziarsi gli dèi così che i venti tornino a soffiare e la flotta greca possa salpare alla conquista di Troia. Nella seconda ritroviamo alcuni di quei personaggi dopo che Clitemnestra è stata uccisa dal figlio Oreste per avere lei ammazzato il marito Menelao: Ettore ed Elettra ora sono in attesa della condanna a morte decretata dai concittadini, Ettore per di più tormentato dalle Erinni. In entrambe le tragedie i protagonisti principali vengono salvati in extremis: il corpo di Ifigenia è sostituito da quello di una cerva sull’altare del sacrificio, Apollo in persona invece viene a salvare i due fratelli imponendo il matrimonio di Oreste con Ermione (la figlia di Elena, appena trucidata) e di Elettra con Pilade, l’amico fedele di Oreste.

Niente di tutto questo avviene alle Fonderie Limone di Moncalieri nella interpretazione di Binasco: nessun deus ex machina viene a salvare la povera Ifigenia il cui cadavere insanguinato viene impietosamente caricato nel bagagliaio di un’automobile, mentre sul destino di Oreste, Pilade ed Elettra il regista non sembra porre molte speranze. In costumi attuali – Clitemnestra ed Elena su vertiginosi tacchi a spillo – con un testo molto attualizzato, talora fin troppo banalizzato nel registro, ed eliminato il coro, la vicenda è fatta rivivere nel corridoio tra due gradinate che si fronteggiano, una scelta spaziale che non sembra del tutto giustificata dall’azione che si vedrà e che pone grossi problemi di comprensione del parlato visto che la proiezione della voce non è da manuale per molti degli interpreti e quando si voltano verso una parte degli spettatori le parole arrivano con difficoltà all’altra. Né è d’aiuto il volutamente esibito accento dialettale di alcuni interpreti che trasforma l’Aulide nella Vucciria o in Secondigliano.

Per la prima volta il regista affronta la tragedia classica e lo fa «senza fronzoli stilistici» (queste le sue parole): lo spettacolo è «severo, spoglio di richiami visivi fini a sé stessi, semplice e a suo modo estremo». È vero, manca totalmente l’arcaica ritualizzazione del testo euripideo nella drammaturgia di Valerio Binasco e Micol Jalla. Lo stile recitativo ci porta in una vicenda contemporanea dove viene sottolineata la concretezza psicologica dei personaggi, qui affidati a un cast eterogeneo da cui si staccano le intense interpretazioni della Clitemnestra di Arianna Scommegna e dell’Oreste di Giovanni Drago, prima anche messaggero. Valerio Binasco delinea un inane Agamennone mentre parte degli altri attori hanno un doppio ruolo: Jurij Ferrini è prima Menelao poi Tindaro, Giordana Faggiano è Ifigenia/Elettra, Giovanni Calcagno Achille/Messaggero, Giovanni Anzaldo Messaggero/Pilade, Nicola Pannelli Soldato/Menelao. Sara Bertelà e Letizia Russo sono rispettivamente Elena e la figlia Ermione nell’Oreste.

Le due tragedie vengono messe in scena a sere alterne mentre nei fine settimana sono in sequenza nello stesso giorno per un’immersione totale nel delitto e nel suo rimorso. Se si scorrono i giornali, le vicende della famiglia degli Atridi hanno molto in comune con la cronaca nera. Ma ora non si può dare la colpa agli dèi.

Comme tu me veux

foto © Simon Gosselin

Luigi Pirandello, Comme tu me veux (Come tu mi vuoi)

Regia di Stéphane Braunschweig

Torino, Teatro Carignano, 29 maggio

Pirandello arriva da Parigi

Ispirato da una vicenda reale, quella di Canella-Bruneri ossia dello “smemorato di Collegno” che fu un famoso caso giudiziario degli anni 1927-1931, Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello turbò le coscienze degli spettatori di teatro nel 1930. Come il poveretto affetto da amnesia che fu identificato da due diverse famiglie sia come il professor Giulio Canella disperso durante la Grande Guerra, sia come il latitante Mario Bruneri, qui per “L’ignota”, amante dello scrittore Slater nella mondana Berlino che sta per essere travolta dalle camicie brune, si apre la possibilità di rifarsi una vita in Italia, il suo paese d’origine, come Lucia, moglie dell’ufficiale italiano Bruno Pieri, scomparsa nel corso della guerra. Il tema della doppia identità de Il fu Mattia Pascal, romanzo di Pirandello del 1904, riaffiora qui come una metafora del fare teatro, dove finzione e realtà sono indistricabilmente intrecciate: «Guardami! Qua negli occhi – dentro! […] Sono venuta qua; mi sono data tutta a te, tutta; […] in me non c’è nulla, più nulla di mio: fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi» dice L’ignota al “marito” Bruno «con lucidissima esasperazione» alla fine del secondo atto.

Pirandello è stato un autore molto frequentato nei teatri di prosa qualche decennio fa, ora lo è molto meno. Ci pensa un francese a portarlo sulle scene del Carignano per concludere la stagione del Teatro Stabile torinese: Stéphane Braunschweig, uscito dalla scuola di Antoine Vitez e fondatore del Théâtre-Machine, poi direttore del Teatro di Strasburgo e dal 2016 dell’Odéon parigino, da cui proviene questo spettacolo. Sono sue la traduzione del testo, la regia e la scenografia. Gli elementi salienti della sua lettura sono i danni psicologici irreparabili della violenza, la negazione dei fatti, l’ambiguità della verità.

Un’atmosfera vagamente onirica è quella che troviamo ad apertura di sipario: un cabaret berlinese, una femme fatale attorniata da giovani bon vivants in marsina e mezzo ubriachi, un amante esasperato che gira con una pistola in tasca, un uomo ancora col trucco di Mefistofele in cui si era mascherato. Le tre pareti sono chiuse da tendaggi, unici elementi di una scenografia semplice e rigorosa che comprende uno schermo su cui vengono proiettate immagini d’archivio delle distruzioni della guerra. Il crollo o il sollevarsi dei tendaggi sottolineano i momenti forti della vicenda. Nel secondo atto siamo a Venezia, l’ambiente è dominato da un grande ritratto di Lucia con lo stesso abito che l’Incognita indossa in scena. Per tutti i personaggi i costumi di Thibaut Vancraenenbroeck non sono troppo legati all’epoca, quasi senza tempo. Più connotati i divani déco che formano i pochi altri elementi di scena.

«Un corpo senza nome», in attesa che qualcuno se lo prenda: l’enigmatico personaggio dell’Incognita (Elma? Lucia?) è quello di una donna alla ricerca della libertà e si inserisce nel solco della Nora di Ibsen di Casa di bambola o della Signorina Giulia di Strindberg. Il personaggio trova in Chloé Réjon un’interprete dalla superba recitazione, asciutta ma efficace. Senza manierismi, l’attrice francese naviga sulle acque del dubbio con maestria e il suo tour de force – quante parole per una vita vuota! – non mostra mai segni di stanchezza. Notevole il resto del cast tra cui una solida Annie Mercier (Lena), Pierric Plathier (Bruno Pieri), Sharif Andoura (Boffi) e Claude Duparfait (Carl Salter).

Sala non gremita quella dell’ultima recita, ma pubblico soggiogato, malgrado qualche importuna suoneria di telefonino, e prodigo di applausi alla fine. Uno spettacolo che sarebbe stato un peccato  perdere. 

I manezzi pe maiâ na figgia

Nicolò Bacigalupo, Gilberto Govi, I manezzi pe maiâ na figgia

Regia di Tullio Solenghi

Camogli, Teatro Sociale, 26 maggio 2022

Un genovese come Orlando Perera non poteva perdersi uno spettacolo come questo. Ecco infatti la sua recensione.

Solenghi e la resurrezione di Govi

Da tempo il genovese Tullio Solenghi coltivava il sogno e alla fine l’ha realizzato, spazzando via ogni dubbio: resuscitare un’icona sacra del teatro della sua città come Gilberto Govi, nel suo cavallo di battaglia I manezzi pe maiâ na figgia (I maneggi per maritare una figlia) testo in dialetto genovese di Nicolò Bacigalupo. Andata in scena nel 1957 al Teatro Augustus di Genova, la commedia due anni dopo fu registrata, in italiano, dalla neonata RAI-TV con la regia di Vittorio Brignole, messa in onda più volte su diversi canali, e infine distribuita in VHS e DVD di enorme successo. Così è diventata un vero e proprio cult della comicità, che gli appassionati hanno imparato a memoria – e lo si è visto l’altra sera allo spettacolo nel delizioso Teatro Sociale di Camogli, con il pubblico che recitava insieme agli attori. Una sfida dunque di quelle che si affrontano solo con parti uguali di passione e di incoscienza, e che forse solo uno come Solenghi poteva raccogliere, essendo a sua volta, dai tempi del Trio televisivo, un protagonista del teatro comico. Lo ha sostenuto nell’impresa la comproduzione fra il Sociale di Camogli con il Teatro Nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore, e il Centro Teatrale Bresciano.

Il problema di fondo è che il genere si è ovviamente molto evoluto, e ricostruire un registro comico così potente poteva sembrare un’impresa quasi impossibile. Gilberto Govi, nato nel 1885 a Genova nel popolare quartiere di Oregina, e morto nella sua città nel 1966, affondava le radici artistiche nel teatro popolare e dialettale, era l’estremo erede di Baciccia della Radiccia, tipica maschera del teatrino genovese dei burattini. I suoi copioni non avevano grande spessore letterario, ma lui li riscriveva, o meglio ci improvvisava largamente (con gli autori spesso furibondi), secondo il genio ribaldo della commedia dell’arte. I manezzi non sfugge alla regola. Nessun autore del resto poteva misurarsi con l’istinto infallibile di Govi per i tempi teatrali, la sua mimica inesauribile, soprattutto un’umanità schietta nella quale lo spettatore s’identificava immediatamente. Pochi altri sommi come Macario a Torino, Cesco Baseggio a Venezia, Eduardo a Napoli (che però sinceramente va collocato qualche gradino più in alto) hanno saputo riassumere sul palcoscenico lo spirito di una città. Non era un solo un attore, ma una vera maschera popolare, come Arlecchino o Pulcinella – ricorda lo stesso Solenghi, che ha curato anche la regia, e spiega: «Mi sono trovato a un bivio, imitarlo o fare qualcosa di totalmente diverso. Ho scelto una terza via, l’ho clonato. Govi è ormai una maschera ligure e se non ho problemi a rifare Arlecchino non debbo averne a riprendere Govi….». Il risultato è impressionante: la regia, le scene e i costumi di Davide Livermore hanno ricalcato nei più minuti particolari le immagini della versione televisiva, la disposizione degli arredi, le sedie, gli ingressi e le uscite, persino il bianco e nero di allora è stato evocato con tinte smorzate tra il grigio e il mauve. Quasi inquietante poi il realismo del trucco di Solenghi, un vero capolavoro che all’ingresso in scena del mitico Steva, “sensale da droghe” (oggi diremmo “spezie”), appare quasi un’evocazione spiritica. Accanto a sé nella parte della moglie Giggia, che fu di Rina Gaioni, a scià Rina, vera moglie di Govi, Solenghi ha voluto una grande signora del teatro italiano come Elisabetta Pozzi, genovese anche lei, apprezzata tra l’altro poche settimane fa al Teatro Gustavo Modena di Sampierdarena in un’altra evocazione orchestrata da Davide Livermore, l’attrice ottocentesca Adelaide Ristori. Il compito per la Pozzi era doppiamente difficile, venendo lei dal cinema d’autore e dal grande teatro drammatico, dove è stata diretta da giganti come Luca Ronconi e Peter Stein. A memoria, credo sia la prima volta che si cimenti con il registro comico-popolare. L’ulteriore sfida, forse la più difficile, è stata dunque l’inserimento degli stilemi propri del teatro classico in un canovaccio popolarissimo, condito di smorfie e movenze marionettistiche.

Esperimento riuscito? La risposta è duplice: sicuramente sì per chi vede I manezzi per la prima volta in questa versione solenghiana, uno spettacolo di grande divertimento e di qualità attoriali e registiche impeccabili. Meno riuscito per chi, come chi scrive, ho visto I manezzi originali da bambino, non all’Augustus ma al Margherita, come sua prima volta a teatro con mamma e papà, e poi da decenni se lo rivede continuamente nelle registrazioni. Per questa categoria, qualche rimpianto c’è, perché Solenghi ha deciso di comprimere lo spettacolo in due atti invece che i tre originali, falciando quasi interamente il secondo atto che pure conteneva spunti comici irresistibili: la scena della tabacchiera del signor Venanzio; la pantomima innescata dalla signora Giggia per contrabbandare inesistenti doti canore della figlia Metilde, oggetto dei suoi maneggi matrimoniali; il surreale dialogo imposto ancora dalla signora Giggia a Steva con l’ambìto signor Riccardo. Rimangono per fortuna scambi immortali, come quello celeberrimo di gassetta e pomello tra Steva e Giggia, e l’altro tra Steva e il nipote Cesarino «venuto in campagna con le braghe dell’anno passato». Inutili i confronti con i ritmi, i colori vocali, il fraseggio originali, impossibili da riprodurre. Solenghi e Pozzi si sono giustamente tenuti lontani da imitazioni pedestri osservando invece una linea di grande eleganza e finezza teatrale, che restituisce se non lo scintillio dei dialoghi originali, almeno il loro profumo evocativo. Nessuna “Nostalghia” invece per i sette comprimari del 1959, che Solenghi ha affidato ad altrettanti giovani interpreti di invidiabile freschezza, e di professionalità che a noi è parsa mediamente non inferiore ai predecessori. A cominciare dal giovane amoroso Cesarino che ha il faccino da impunito di Federico Pasquali, e si confronta con quello storico di Gianfabio Bosco, poi diventato celebre nel duo Ric e Gian. Nel 1959 recitava con la madre Anna Caroli nel ruolo della domestica Colomba, ora affidata a Stefania Pepe… Riccardo Livermore, figlio d’arte, con la sua invidiabile zazzera, è il conteso signor Riccardo, scapolone benestante; la bella Laura Repetto, di fresca sensualità è Matilde, la figlia da maritare spasmodicamente; Isabella Loi la più fortunata Carlotta; Pier Luigi Pasino Pippo e infine Roberto Alinghieri (anche assistente alla regia) ha restituito con leggerezza la figura dell’avvocato Venanzio.

Ma il bello è nel finale inedito, dove la vecchia volpe del teatro Davide Livermore (quattro prime consecutive alla Scala, uno dei più richiesti registi d’opera nel mondo) affibbia alla platea un colpo sotto la cintura. Il misterioso pacco del «cugino Gilberto» che compare a un certo punto, viene aperto, contiene un vecchio apparecchio radio che Steva accende subito. Ne esce la voce di Gilberto Govi con un declamato lancinante di Ma se ghe pensu. Lucciconi, fragore di applausi senza fine, sipario, kleenex. Che serata figgeu!

Edipo re

Sofocle, Edipo re

Regia di Robert Carsen

Siracusa, Teatro Greco, 18 maggio 2022

Parole come pietre: Carsen debutta nella tragedia greca e crea uno spettacolo memorabile

Nel silenzio scandito da un funebre rintocco di timpani, il popolo di Tebe, ottanta tra corifei e comparse nei loro abiti neri occupano la “piazza” della polis portando degli stracci che depongono per terra: sono i cadaveri della peste che devasta la città. Vengono a chiedere aiuto al loro re, Edipo, che ha sconfitto la Sfinge dieci anni prima e che ora governa assieme alla moglie Giocasta e al cognato Creonte. Il re compare dall’alto di una  monumentale scalinata che occupa tutta la larghezza dell’orchestra e che collega la reggia con la città. È di Radu Boruzescu l’unico elemento scenografico che è anche lo specchio della cavea con noi spettatori, così da chiudere tutti quanti in un cerchio da cui, come dal destino, non possiamo sfuggire.

In questo secondo spettacolo della stagione dell’INDA, Carsen si affida totalmente alla nuda parola del testo sofocleo, nella versione di Francesco Morosi, esaltato dalla drammaturgia di Ian Burton. La parola è personaggio, scenografia, anche musica: c’è una labile colonna sonora, ma è quasi impercettibile. Lode a Cosmin Nicolae per averla resa tale.

Parola, silenzio, e spazio: i corpi disegnano figure geometriche nere sul grigio chiaro delle pietre: i vertici di triangoli scaleni i tre personaggi reali, cerchi e semicerchi il coro, oppure lunghe file o grumi scuri, prima compatti poi disgregati. Non ci sono colori, solo il contrasto tra il nero dei costumi (di Luis F. Carvalho) e il bianco dei volti e delle mani che disegnano le studiate coreografie di Marco Berriel. E avrà l’effetto di un urlo nel silenzio l’apparizione del corpo nudo di Edipo solcato dal rosso del sangue sgorgante dagli occhi trafitti dalla fibbia della cintura della moglie/madre. È nel suo abito bianco che coprirà il corpo martoriato.

La transizione dalla luce del giorno al buio notturno è resa impercettibile dalle luci di Carsen stesso e Giuseppe di Iorio. A un certo momento, senza essercene accorti, siamo passati alle tenebre: come Edipo anche noi siamo ciechi e ci scostiamo al suo passaggio mentre nel finale sale i gradini della cavea verso un immaginario Citerione aiutandosi con il bastone appartenuto a Tiresia, l’altro cieco che però aveva “visto” tutto.

Giuseppe Sartori si immedesima in un Edipo per il quale lo svelamento della verità avviene con la suspense di un thriller e la sua traiettoria discendente negli abissi tocca con continuità tutti gli stati espressivi dell’emozione. Maddalena Crippa è una devastata Giocasta, il corpo piegato, la schiena al pubblico, la voce che prima era sicura, quasi arrogante, ora viene a mancare quando comprende la tremenda verità. Paolo Mazzarelli è un Creonte di grande nobiltà;  Graziano Piazza uno straordinario Tiresia che dà i brividi quando Apollo si esprime tramite la sua voce. Eccellenti gli altri interpreti.

Innumerevoli applausi a scena aperta, quasi un quarto d’ora per quelli finali di un pubblico con moltissimi giovani totalmente soggiogati. Questa volta la catarsi è avvenuta.

Agamennone

 

Eschilo, Agamennone

Regia di Davide Livermore

Siracusa, Teatro Greco, 17 maggio 2022

L’Agamennone di Livermore: un sontuoso horror in scena al teatro greco di Siracusa

Come sempre sontuoso e ricco di rimandi cinematografici lo spettacolo messo in scena da Davide Livermore al Teatro Greco di Siracusa nella 57esima stagione organizzata dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Agamennone è la prima tragedia della trilogia Orestea (le altre due sono Coefore ed Eumenidi) che a luglio verrà presentata nella sua interezza in una sola giornata.

Il testo di Eschilo, quasi un compendio di tutte le tragedie antiche, nella moderna versione di Walter Lapini, trova un adattamento ricco di spunti visivi di grande teatralità: il fondo del palcoscenico nella scenografia dello stesso Livermore e di Lorenzo Russo Rainaldi è una parete a specchio che riflette il pubblico sulle gradinate – anche noi siamo protagonisti della vicenda – ma incastonato nell’immensa parete c’è un video wall circolare, un altro è orizzontale sul pavimento. Gli eleganti costumi di Gianluca Falaschi richiamano gli anni ’40, con le donne in abiti lunghi, un sofà, mobili e carrelli colmi di coppe di champagne. È la fine della guerra e vecchi generali in sedie a rotelle vengono spinti da infermiere e infermieri che qui assumono il ruolo del coro. Un doppio spettro di Ifigenia si aggira sul palcoscenico, il trucco deforma la bocca come il Joker di Tim Burton. Sul pavimento barchette di carta alludono alla flotta partita per distruggere Ilio. Tre pianoforti forniscono la componente sonora formata dal tema bachiano dell’Offerta musicale rielaborato da Diego Mingolla e Stefania Visalli assieme a violenti cluster suonati direttamente sulle corde del terzo pianoforte verticale. Il rosso cremisi è il colore che domina nella scenografia: l’abito di Clitennestra, i fiori caduti dall’alto che tappezzano il passaggio di Agamennone vittorioso, il sangue che sgorga dalle ferite degli assassinati.

Mirabile sintesi di antico e modernità tecnologica, la forte lettura di Livermore è quasi una rappresentazione lirica, dove le parole si fanno musica. Gli stessi forti sentimenti dei melodrammi muovono i personaggi interpretati qui da splendidi attori: l’eccezionale Agamennone di Sax Nicosia si imprimerà nella memoria per molto tempo; la Clitennestra di Laura Marinoni, vamp appassionata e infida che ha atteso con fredda determinazione il ritorno del marito per dieci anni per compiere la sua vendetta, naviga abilmente tra i marosi di questo personaggio debordante; Cassandra trova in Linda Gennari un’intensa interprete che con la voce e il corpo traduce gli spasimi delle inascoltate profezie, dono e maledizione del dio Apollo. Come corifea si fa notare un’incisiva Gaia Aprea, ma anche tutto il resto del cast è tale da infiammare il teatro al completo, che risponde con applausi a scena aperta e alla fine si unisce in Glory Box dei Portishead («I’m so tired of playing | Playing with this bow and arrow») intonata inaspettatamente da Maria Grazia Solano (la Sentinella) e dagli altri interpreti alla fine della rappresentazione. Un tocco pop, congruo con l’atteggiamento giocoso di Livermore, che è piaciuto molto al pubblico di giovanissimi che hanno riempito la cavea. È stata una lezione si storia greca, di casa qui fuori, diversa dalle solite.

 

Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Davide Livermore, Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Genova, Teatro Gustavo Modena, 3 aprile 2022

Con Adelaide Ristori Livermore celebra il teatro stesso

Ma quando un attore/attrice muore, che cosa ne rimane? Liberamente tratto da Macbetto di Giulio Carcano, con la drammaturgia di Andrea Porcheddu in collaborazione con Sara Urban, il nuovo spettacolo di Davide Livermore Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori cerca di rispondere alla angosciosa domanda. Per un attore/attrice del nostro tempo rimangono le testimonianze audio e video, ma per un attore dell’Ottocento, a parte qualche ritratto, se va bene fotografico, che cosa resta della sua arte se non le parole di chi ha assistito a un suo spettacolo?

Adelaide Ristori è stata una delle maggiori artiste di teatro della sua epoca. Nata  nel 1822 a Cividale del Friuli, figlia d’arte ha respirato l’aria del teatro fin dalla nascita. Divenuta la più celebre attrice italiana, fu anche promotrice degli ideali patriottici risorgimentali vedendo i suoi spettacoli spesso interrotti dalla polizia. Molto nota anche all’estero, dove recitava correntemente in francese, spagnolo e inglese, il suo matrimonio con il marchese Giuliano Capranica del Grillo destò molto scandalo in una società che considerava le attrici al limite della morale. Prima nella storia, la Ristori si occupò personalmente dei costumi e della regia dei suoi spettacoli. Visse gli ultimi anni nel palazzo Capranica a Roma dove morì nel 1906.

Alla figura di questa artista è dedicato lo spettacolo che celebra il bicentenario della sua nascita nella città che ne accoglie il lascito nel Civico Museo Biblioteca dell’Attore e che ha fornito la preziosa documentazione. In scena la grande Elisabetta Pozzi rivive la parte di Lady dal Macbetto del Carcano grazie alla realtà aumentata ideata da Davide Livermore e realizzata dalla D-Wok, con la partecipazione in video di Alberto Mattioli e i trucchi ed effetti speciali di Edoardo Pecar. Livermore ha immaginato uno studio televisivo in cui inserire l’intervento dell’attrice. «Un contenitore, un caleidoscopio, un accumulatore di immagini e di esperienze visive. Un meccanismo scenico che ci offre il pretesto per un gioco ironico e auto-ironico». Si passa quindi dall’investigazione storica alla performance ardimentosa affidata a una delle più grandi attrici del nostro teatro. «È come fare una seduta spiritica collettiva per godere ancora della luce di Adelaide e celebrare il teatro tutto» dice il regista.

Pour un oui ou pour un non

Nathalie Sarraute, Pour un oui ou pour un non

Regia di Pier Luigi Pizzi

Torino, Teatro Carignano, 9 marzo 2022

Le parole non dette

Le sue opere sono pubblicate nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade; negli anni ’70 i suoi “antiromanzi” erano la lettura obbligata dei sessantottini; a teatro le sue pièces mettevano in discussione quell’usage de la parole che era stato anche il titolo di un suo lavoro del 1980; come saggista furono fondamentali le sue riflessioni teoriche sulla narrativa iniziate nel 1956 con L’Ère du soupçon, centrato sulle figure della Woolf, di Kafka, Proust, Joyce e Dostoevskij.

Nathalie Sarraute (Natal’ia Černiak) ha incluso con la sua esistenza tutto il Novecento: nata il 18 luglio 1900 in Russia, è morta a Parigi, dove aveva vissuto fin dall’età di otto anni, il 19 ottobre 1999. A riportarla in scena in Italia con Pour un oui ou pour un non sono due grandi attori, sono due “manipolatori della parola” come Franco Branciaroli e Umberto Orsini, ora al Teatro Carignano.

Due vecchi amici si rivedono dopo un lungo immotivato distacco e si interrogano sui motivi della loro separazione, scoprendo che è stata l’ambiguità dell’“intonazione” di alcune parole a incrinare il loro rapporto. Nel raffinato e allo stesso tempo spietato gioco verbale intessuto dai due attori brillano i loro diversi stili recitativi, più ironico quello di Branciaroli, più analitico quello di Orsini. Entrambi fanno della misura e della rarefazione del gesto la chiave interpretativa di questo gioco al massacro.

Un altro grande mostro sacro del teatro, Pier Luigi Pizzi, si occupa della traduzione del testo, della regia e della scenografia, in bilico quest’ultima tra realismo – gli iconici pezzi di design del Novecento – e stilizzato simbolismo: per un  crudele/ironico contrappasso Pizzi sceglie dei libri totalmente bianchi per far rivivere il mondo di parole scritte di questa femme de lettres del XX secolo.

I due gemelli / I due gemelli veneziani

Natalino Balasso da Carlo Goldoni, I due gemelli

Regia di Jurij Ferrini

Torino, Teatro Gobetti, 12 dicembre 2021

Carlo Goldoni, I due gemelli veneziani

Regia di Valter Malosti

Torino, Teatro Astra, 22 dicembre 2021

Opposte letture della cupa commedia goldoniana

Due spettacoli sullo stesso testo che le vicende pandemiche hanno portato in scena quasi nello stesso momento a Torino.

Il primo ha perso nel titolo l’attributo geografico: approdato al Teatro Gobetti I due gemelli è infatti una libera riscrittura di Natalino Balasso del lavoro che Carlo Goldoni aveva presentato nel 1747 a Pisa per esaltare le capacità istrioniche dell’attore Cesare D’Arbes nel doppio ruolo di Zanetto e Tonino, i due gemelli che le vicende della vita hanno separato. Una commedia degli equivoci e degli scambi di persona che ha il suo modello nei Menecmi di Plauto, ma che qui ha un finale con ben due cadaveri. Balasso trasferisce la vicenda negli anni di piombo italiani e trasforma Zanetto in un cantante pop che vuole sposarsi per scongiurare i sospetti di una sua omosessualità e Tonino in un boss malavitoso in fuga dalla legge. L’umorismo carico di doppi sensi e battute, la recitazione, i molti siparietti musicali, i costumi dell’epoca e i momenti che coinvolgono anche il pubblico danno alla rivisitazione un tono al limite del goliardico. Ferrini non si preoccupa degli aspetti scuri della commedia e procede con indubbia speditezza sul versante di una comicità schietta in presa diretta sul pubblico divertito.

Tutt’altro tono quello de I gemelli veneziani di Valter Malosti al suo debutto con Goldoni, produzione dello Stabile Veneto presentata originariamente in streaming e ora proposta dal Teatro Piemonte Europa all’Astra. Qui prevale il lato tenebroso di una opprimente e cupa vicenda che si dipana in maniera inquietante: lo spettacolo inizia e termina con il cadavere di Zanetto in scena vegliato da un infero Pulcinella. Deuteragonista qui è quel Pancrazio che da personaggio episodico diventa il motore dell’azione, prepara e compie la catastrofe. Le scene e l’impianto luci di Nicolas Bovey raccontano di vicoli bui e piazze immerse in una notte perenne. Il lavoro sulla lingua qui è più attento: che sia il veneziano spigoloso e minaccioso dell’originale goldoniano, o il napoletano di Pulcinella che tutto osserva e commenta, quest’ultimo un’invenzione degli adattatori del testo, Angela Dematté e Malosti stesso. Eccellente il cast dominato da un superlativo e camaleontico Marco Foschi che dà corpo e voce ai due gemelli, e a Danilo Negrelli, il tartufesco Pancrazio che fa della parola un mezzo ingannevole prima di caderne vittima egli stesso. Non si può dimenticare il duplice Arlecchino/Pulcinella di Marco Manchisi. Memorabili sia i costumi di Gianluca Sbicca sia il progetto sonoro di Gup Alcaro

Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico

Eduardo de Filippo, Dolore sotto chiave / Sik Sik l’artefice magico

Regia di Carlo Cecchi

Torino, Teatro Gobetti, 26 novembre 2021

In una serata condensato il teatro di Eduardo

Due atti unici di Eduardo per la stagione del Teatro Stabile di Torino. Sik Sik l’artefice magico è del 1929 e appartiene alla “Cantata dei giorni pari” (quelli fortunati in cui alla fine tutto fila liscio), la raccolta di atti unici per il teatro di rivista napoletano scritti tra il 1920 e il 1942. Sik Sik l’artefice magico è la vicenda di un illusionista da strapazzo in un teatro di infimo ordine, a cui poco prima di andare in scena viene a mancare la spalla, il complice “scelto” tra il pubblico. Il Rafele che riesce a  rimediare all’ultimo momento, «tipo di uomo malandato e misero», scombinerà un po’ i suoi piani ma alla fine l’astuto guitto la sfangherà: nessuna delle sue routine riuscirà, ma l’artefice magico riuscirà a dare un senso ai suoi giochi.  «Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato, questo è Teatro» disse una volta Eduardo. La comicità della pièce oltre che nelle situazioni sta nelle invenzioni linguistiche del protagonista quando abbandona il suo verace dialetto napoletano per esprimersi in termini che vorrebbero essere colti: «Faccio il prestigiatore e lavoro in questo tiatro. Il mio aiutante… il mio sigritario non è venuto, ha mancato all’appuntamento… Io avrebbe bisogno di una persona che lo rimpiazzerei…».

Alla “cantata dei giorni dispari” (quelli negativi), i drammi scritti dopo la guerra, appartiene invece Dolore sotto chiave, radiodramma del 1959 in cui Lucia Capasso nasconde al fratello Rocco la morte della moglie Elena, fingendo di occuparsi della donna malata, per non farlo soffrire. Ma la scoperta della verità porta a galla rancori celati da mesi e il fratello accusa la sorella di una cattiveria inspiegabile: l’uomo è arrivato a odiare la moglie che con la sua malattia gli rovinava l’esistenza. Il dramma vira nel grottesco di un irresistibile humour macabro con la visita dei vicini di casa che vengono per “confortare” il vedovo. Nella messa in scena di Carlo Cecchi il finale è modificato e, se possibile, ancora più amaro: Rocco non corre a fermare la donna di cui si era nel frattempo innamorato e che lo lascia con il suo figlio in grembo. Qui si accascia catatonico sulla sedia mentre la sorella gli ripete la domanda dell’inizio: «Ti ho preparato il brodo di pollo. Ci metto dentro un uovo?».

L’allestimento è essenziale nelle efficaci scenografie di Sergio Tramonti (Dolore sotto chiave) e Titina Maselli (Sik Sik l’artefice magico) e punta giustamente sulla recitazione: la bravissima Angelica Ippolito, l’intenso Rocco di Vincenzo Ferrara, l’irresistibile vicina Signora Paola e il maldestro Rafele di Dario Iubatti, Remo Stella e Marco Trotta, fotografo e scultore in Dolore sotto chiave. Per sé Cecchi si riserva la parte dell’invadente Professor Ricciuti di Dolore sotto chiave e dell’Artefice magico, il personaggio con cui Eduardo aveva significativamente concluso la sua carriera di attore nel 1981.