Mese: luglio 2022

Don Checco

foto © Fabio Melotti

Nicola De Giosa, Don Checco

★★★☆☆

Torino, Cortile dell’Arsenale, 30 luglio 2022

«Qua Truvatore, fate Don Checco, m’aggia divertì»

Nello stesso anno in cui i fratelli Ricci presentavano Crispino e la comare, un altro compositore poco più giovane si cimentava con l’opera buffa, il barese Nicola De Giosa con il suo Don Checco (Teatro San Carlo di Napoli, 11 luglio 1850), l’ultimo frutto di quel glorioso genere: Donizetti era morto due anni prima, Rossini si era ritirato dalle scene già da vent’anni, con il Lohengrin iniziava ufficialmente il nuovo Wagner e Verdi sconvolgeva i benpensanti col suo Rigoletto.

La prima di Don Checco fu un successo clamoroso. Fu tra le preferite del re Ferdinando II, che amava sempre assistere alle sue rappresentazioni, tanto che nel 1859, durante una visita di Stato a Lecce volle che invece del previsto Verdi fosse messo in scena il lavoro di De Giosa: «Che Trovatore e Trovatore! voglio sentire Don Checco; mi voglio divertire». Sembra che il teatro riuscisse a organizzare una rappresentazione con poche ore di preavviso grazie alla presenza in città del basso buffo Michele Mazzara. Dopo ben 72 diversi allestimenti in Italia e all’estero, l’opera uscì di repertorio alla fine del XIX secolo e per la prima rappresentazione in tempi moderni bisogna arrivare al 2014 dove nel Teatrino di corte del Palazzo Reale di Napoli viene diretta da Francesco Lanzillotta, ripresa l’anno successivo a Martina Franca e registrata su cd.

Il libretto di Almerindo Spadetta ambienta la vicenda in un paesino dei dintorni di Napoli nel 1800 circa. La vicenda è la solita del padre burbero che si oppone all’amore della figlia per uno squattrinato.

Atto I. L’opera si apre all’interno della locanda di Bartolaccio. La strada per Napoli con le colline in lontananza può essere vista attraverso l’ingresso della locanda. La figlia di Bartolaccio, Fiorina, è al suo filatoio in sala da pranzo, mentre Bartolaccio e il suo capo cameriere Carletto si affrettano a servire gli ospiti. Roberto, un artista che soggiorna alla locanda, siede su un lato della stanza dipingendo al suo cavalletto ed è apparentemente disinteressato a ciò che accade. All’insaputa di tutti, in realtà è il ricco conte de’Ridolfi travestito. Bartolaccio accusa Fiorina di flirtare con tutti gli uomini presenti e le ordina di portare il suo filatoio in cucina. Roberto si lamenta con lui per il suo comportamento duro, cosa che fa anche Fiorina. Successivamente Fiorina e Carletto si dichiarano innamorati. Quando lo dicono a Bartolaccio, questi rifiuta categoricamente di acconsentire al matrimonio, giurando che permetterà a Fiorina di sposare solo un uomo ricco. Ordina a Carletto di uscire dalla locanda, ma il giovane riesce invece a intrufolarsi nella cantina. A questo punto Don Checco Cerifoglio irrompe nella locanda. Mal vestito e completamente esausto, è in fuga da un ufficiale giudiziario che lo insegue per i tanti debiti che deve al conte de’ Ridolfi. Durante un lungo scambio tra Don Checco e Bartolaccio, che va a prendere la sua ordinazione, Bartolaccio si convince che Don Checco è in realtà il Conte de’ Ridolfi. Il conte è noto per viaggiare nei suoi dominii sotto mentite spoglie per osservare i suoi sudditi. Poiché anche Bartolaccio deve del denaro al conte, tratta ossequiosamente l’ospite. Don Checco lascia credere a Bartolaccio di essere il conte, mentre Roberto (il vero conte) guarda con stupore questo volgersi degli eventi. Successivamente Fiorina e Carletto si avvicinano a Don Checco. Anche loro sono convinti che sia lui il conte e sperano che interceda presso Bartolaccio in loro favore. Fiorina inizia a raccontare la sua storia, ma Don Checco la fraintende e pensa che sia innamorata di lui. Quando lei e Carletto lo disingannano, lui si arrabbia. Fiorina corre in cucina e Carletto si rifugia ancora una volta in cantina.
Atto II. Fiorina e Carletto si avvicinano nuovamente a Don Checco. Gli chiedono perdono per il precedente malinteso e lui, a malincuore, concede di intervenire a loro favore. Dopo la partenza, Roberto, che ha ascoltato l’intero scambio dalla sua stanza, sollecita anche Don Checco ad aiutare la giovane coppia. Nell’attesa del suo pasto, Don Checco sente qualcuno che gli sibila dall’ingresso: è Succhiello Scorticone, l’ufficiale giudiziario che lo insegue. Ordina a Don Checco di uscire per poterlo arrestare. Don Checco rifiuta. A questo punto arriva Bartolaccio. Avendo parlato con Succhiello, è furioso che Don Checco lo abbia preso in giro e gli ordina di andarsene. Don Checco rifiuta ancora. Fiorina e Carletto aspettano all’osteria l’arrivo del notaio che li sposerà. Credendo ancora che Don Checco sia davvero il Conte de’ Ridolfi, i giovani sposi sono convinti che sia intervenuto presso il padre di Fiorina per permettere il matrimonio. In quanto potente nobile, non sarebbe stato rifiutato. Intanto arrivano i contadini che avevano saputo che il conte soggiornava all’osteria portando fiori e ghirlande per rendergli omaggio. Circondato dai contadini, con l’ufficiale giudiziario e due carabinieri che aspettano fuori, Don Checco si dispera. Le cose si aggravano per lui con l’arrivo di Bartolaccio che espone alla costernazione di tutti l’inganno di Don Checco. Un contadino poi consegna una lettera a Succhiello che la apre e ne legge il contenuto a tutti i presenti. È del Conte de’ Ridolfi. In essa perdona i debiti sia di Don Checco sia di Bartolaccio e dichiara il suo espresso desiderio che Fiorina e Carletto si sposino. Inoltre conferisce una dote di 1000 ducati a Fiorina e un dono di 3000 ducati a Carletto. Stupito, Bartolaccio chiede a Succhiello come il conte poteva sapere cosa stava succedendo alla locanda. Succhiello rivela che il conte era sempre stato lì travestito da artista. Bartolaccio acconsente volentieri al matrimonio e offre a Don Checco ospitalità gratuita presso la sua locanda. L’opera si conclude con Don Checco che canta sull’indebitamento e osserva che a volte può portare a una felicità imprevista. Poi saluta tutti: «Ricordatevi di me, debitore don Checco», al quale rispondono: «Sì, tutti ricorderanno il debitore fortunato».

Autore di una ventina di titoli per il teatro, De Giosa è ricordato quasi unicamente per questo Don Checco, epitome più che epigono, compendio più che imitazione, quasi un’ironica parodia – come scrive Marco Leo nel programma di sala – di una gloriosa stagione, quella appunto dell’opera buffa che, anche se era terminata con l’ultimo Donizetti e non destava più l’interesse né dei grandi compositori né del pubblico borghese, continuava però una sua vita parallela nei piccoli teatri di Napoli per un pubblico molto popolare – i cui gusti però erano condivisi dal loro sovrano!

Per mettere in scena un’operina dalla drammaturgia così debole – i nodi della vicenda vengono sciolti da un deus ex machina, il Conte de’ Ridolfi, che nel finale condona debiti ed elargisce ducati in quantità – il regista Mariano Bauduin, che l’anno scorso nel cortile dell’Arsenale aveva messo in scena i due atti unici settecenteschi La serva padrona e Pimpinone, questa volta prende in mano la vicenda con maggior decisione: «Ho provato a mettere in evidenza la prassi [della tradizione comica della commedia dell’arte napoletana] ripristinando, evocando o inventando dialoghi e situazioni comiche. In più ho chiesto alla scenografa Claudia Boasso di elaborare un esterno più che un interno: un vicolo di Napoli in cui ho immaginato che, oltre alla taverna di Bartolaccio, facesse da dirimpettaio anche l’ingresso del Teatro San Carlino, quasi come se quel teatro e la sua anima antica vivessero nella storia. Il personaggio di Don Checco è diventato lo stesso Antonio Petito e il suo Pulcinella, e così tutti gli altri personaggi a cui ho restituito quel linguaggio scenico e poetico del teatro di parodia di metà Ottocento. Ho aggiunto, inoltre, il personaggio di Don Mario Luzio, storico impresario del Teatro San Carlino, anch’egli una parodia di sé stesso, come si trova in moltissime commedie di “teatro nel teatro”». Bauduin ha lavorato per oltre un ventennio con Roberto de Simone al “Teatro dei Mendicanti” nella degradata periferia Est di Napoli e di quell’esperienza riporta qui lo stile recitativo con gag e lazzi assortiti, battute e improvvisazioni che ricreano l’anima di quel genere di spettacolo. Oltre ai dialoghi riscritti modernamente – che però contrastano con lo stile linguistico del libretto e un poco per le oscurità del dialetto e tanto per l’acustica del luogo non possono essere pienamente goduti – vengono inseriti nella rappresentazione due momenti musicali elaborati da Lorenzo Fico, che si è anche occupato della revisione musicale: all’inizio del secondo atto la canzone tradizionale La palommella interpretata dai personaggi trasformati in marionette (un bel momento di malinconica poesia) e nel finale una tarantella cantata da tutti quanti.

Francesco Ommassini debutta alla guida dell’orchestra del Teatro Regio di Torino con una direzione spigliata e trasparente, un passo avanti rispetto alla sua concertazione della Zenobia in Palmira  di sei anni fa a Napoli. Il direttore veneziano rende con brio una partitura che saccheggia allegramente motivi e stilemi dell’autore de L’elisir d’amore e del Don Pasquale ma che nel valzer che prelude al secondo atto sembra anticipare il Ponchielli ballettistico. In questi casi di affettuosa parodia di un genere sarebbe ingiusto però contare le note che sembrano ricordare questo e quell’altro compositore. Piuttosto, l’opera di De Giosa prepara a un nuovo genere, quello dell’operetta che proprio in quegli anni nasceva a Parigi per mano di Jacques Offenbach: le parti recitate, il gusto della parodia, la trama semplice, l’immediata godibilità e vivacità della musica rimandano a quei lavori che a Parigi e poi a Vienna incontreranno il gusto della borghesia. Qui siamo in un ambito molto più popolare e Napoli aveva vissuto più di altre città della dominazione francese per cui il modello dell’opéra comique è evidente, mentre la musica attinge al modello italiano, con cabalette e strette a ogni piè sospinto nei dieci numeri musicali. Questa abbondanza di momenti musicali, che nell’opera italiana hanno un notevole rilievo perché meno frequenti, qui porta presto a un senso di saturazione che neanche la brillante direzione di Ommassini riesce a mitigare.

Don Checco, l’unico personaggio a esprimersi in dialetto napoletano, oltre che in un italiano artefatto quando finge di essere il Conte, ha qui la voce e la figura di Domenico Colaianni, presente anche nella ripresa del 2014. Fin dal momento in cui entra in scena con la sua “cavatina buffa” tremando di freddo e vestito da Pulcinella («Ah! Ca… lli… dien… te… abballano… | È secca… tra… montana… | Io sto tre… tre… tremanno… | Si avesse la… terzana…») riviviamo un pezzo di vera commedia dell’arte innestata in una forma, quella dell’opera buffa napoletana, rimpianta e amorosamente ricostruita all’interno di una scena complessa (tempo d’attacco-tempo di mezzo-cantabile buffo-cabaletta) dove del baritono barese oltre che le doti vocali sono messe in evidenza le doti attoriali da caratterista di grande livello. Il vecchio burbero qui non si chiama Bartolo ma Bartolaccio e anche di Carmine Monaco si apprezzano le doti istrioniche giacché il belcanto e le agilità sono tutte appannaggio di Fiorina, il soprano Michela Antonucci, a suo agio nella vocalità richiesta dalla parte, un po’ Adina (L’elisir d’amore) un po’ Norina (Don Pasquale), con timbro squillante e buona proiezione della voce. Suoi i pochi numeri musicali solistici come la canzone «È vano credere che ad ogni amore» e il rondò e cantabile «Sento l’alma a tale idea | di contento delirar» pieno di fuochi d’artificio vocali.

Sufficiente la performance di David Ferri Durà (Carletto), mentre di Vladimir Sazdovski (pittore Roberto alias Conte de’ Ridolfi) si nota la improbabile pronuncia del francese quando parla francese e dell’italiano quando parla italiano. Di Francesco Auriemma viene la voglia di ascoltare la profonda voce di basso in un altro ruolo meno caricaturale di questo di Succhiello Scorticone. L’attore Mario Brancaccio impersona l’irrequieto direttore di teatro. Tutti sembrano comunque divertirsi. Anche il coro, qui nei costumi di Laura Viglione che alludono alla parodia di Aida a casa di Donna Peppa con Policinella finto Aida in scena al San Carlino e a cui allude Don Mario Luzio. Chissà se il Maestro Verdi l’ha mai vista…

La pioggia, tanto invocata in questo terribile periodo di siccità, ha preso di mira questa produzione e le poche gocce l’hanno interrotta ben due volte mandando a casa gli spettatori della prima e della seconda senza arrivare alla fine. Solo a questa terza e ultima replica si è potuta concludere l’esecuzione fino alla gioiosa tarantella finale. Il pubblico, formato in parte da chi aveva cercato di assistere alle due precedenti rappresentazioni, si è divertito, si è prodigato in applausi a scena aperta e ancora più convinte chiamate finali ai protagonisti, particolarmente alla Fiorina di Michela Antonucci.

Con questo spettacolo è terminata la parte operistica del Regio Opera Festival, a settembre seguiranno serate di balletto. Si spera sia così conclusa questa provvisoria soluzione open air e si torni al chiuso, all’aria condizionata e all’acustica di una sala nuovamente recuperata.

Pubblicità

TEATRO VERDI

   

Teatro Verdi

Martina Franca (1920)

400 posti

Inaugurato nel 1920, come Teatro Comunale, nel 1932 subì il primo radicale intervento di ristrutturazione a causa di un incendio che distrusse il solaio ligneo, che fu poi ricostruito in pietra. Nel 1940 il Podestà del comune cedette la proprietà della struttura alla famiglia Miali, mentre nel 1950 venne venduta alla famiglia Dilonardo. La nuova proprietà restaurò il teatro nel 1951, adibendolo anche alle proiezioni cinematografiche. Iniziava così il lento declino della sala.

Un’altra più profonda ristrutturazione è avvenuta molto recentemente e il teatro è stato riaperto nell’ottobre 2020 dotato di una sala polifunzionale: un sistema di poltrone a scomparsa rende lo spazio versatile con capienze variabili da 400 a 1000 posti, l’unico teatro all’italiana con una tale tecnologia nel sud Italia.

Il Xerse

foto © Clarissa Lapolla

Francesco Cavalli, Il Xerse

★★★☆☆

Martina Franca, Teatro Verdi, 25 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Ce n’est pas le Serse de Handel que propose le Festival della Valle d’Itria, mais la version plus rare composée par Cavalli

La promenade à travers les siècles proposée par Sebastian Schwarz, directeur artistique du Festival della Valle d’Itria, nous ramène cette fois-ci au XVIIe siècle, le siècle qui a vu naître l’opéra, avec l’un des plus grands compositeurs de cette époque, et sans doute le plus populaire, Francesco Cavalli.

Il Xerse, drame musical en un prologue et trois actes sur un livret de Nicolò Minato librement inspiré du livre 7 des Histoires d’Hérodote, se situe exactement au milieu de la production opératique de Cavalli (il s’agit de son vingt-et-unième opéra). Comme presque tous les autres, il a été joué à Venise, au théâtre de Ss. Giovanni e Paolo, le 12 janvier 1655. L’histoire en est extrêmement compliquée : elle se concentre sur des histoires d’amour complexes, des intrigues de cour et des déguisements…

la suite sur premiereloge-opera.com

Beatrice di Tenda

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 26 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Superbe version concertante de Beatrice di Tenda à Martina Franca !

Beatrice di Tenda : c’est le titre du XIXe siècle choisi par Sebastian Schwarz, directeur artistique du Festival della Valle d’Itria, pour son tour d’horizon de l’opéra au fil des siècles, et disons tout de suite que du point de vue musical, c’est le choix le plus heureux pour cette édition du Festival della Valle d’Itria, celui en tout cas qui est le plus apprécié du public, et pas seulement pour le charme indéniable du bel canto, mais aussi pour la qualité des interprètes.

Ce n’est certes pas le titre le plus populaire du compositeur catanais : avant-dernier opéra de la courte carrière de Bellini, il souffre de prendre place entre ses deux plus grands chefs-d’œuvre : Norma (1831) et I puritani (1835). Beatrice di Tenda fut créée le 16 mars 1833 à La Fenice avec peu de succès, après une gestation agitée…

la suite sur premiereloge-opera.com

Beatrice di Tenda

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 26 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Il penultimo Bellini in forma di concerto entusiasma il pubblico

Si stenta a credere che Michele Spotti abbia sostituito con pochissimo preavviso (due giorni!) il previsto Fabio Luisi e che per di più nell’intervallo abbia vuto un malore con conseguente chiamata, rivelatasi per fortuna inutile, di un’ambulanza, tanta è la sicurezza con cui dirige l’orchestra del teatro Petruzzelli di Bari nella belliniana Beatrice di Tenda eseguita in forma concertistica.

È il titolo ottocentesco scelto da Sebastian Schwarz, direttore artistico del Festival della Valle d’Itria, per la sua carrellata dell’opera nei secoli e diciamo subito che dal punto di vista musicale è l’ascolto più felice dell’attuale Festival della Valle d’Itria, quello più apprezzato dal pubblico, e non solo per il fascino innegabile del bel canto, ma per la qualità degli interpreti messi in campo.

Titolo non dei più frequentati del compositore catanese, e penultimo della sua breve carriera, soffre del fatto di essere schiacciato tra i due massimi capolavori Norma (1831) e I puritani (1835). Beatrice di Tenda va infatti in scena il 16 marzo 1833 alla Fenice con scarso successo dopo una gestazione travagliata causata dal ritardo di Felice Romani nel consegnare la seconda parte del libretto o dal fatto che Bellini aveva cambiato idea sul soggetto che gli era stato proposto. Su queste due opposte giustificazioni partì la battaglia legale che pose fine alla collaborazione del compositore col poeta, collaborazione iniziata con Il pirata e andata avanti senza interruzioni fino a quel momento per ben sette opere. Il libretto della sua ultima opera, I puritani, fu affidato infatti a Carlo Pepoli.

Beatrice si affianca alle altre donne ingiustamente perseguitate fino alla morte da mariti infatuati di un’altra, accecati dalla gelosia o condannate dalla ragion di stato, come le eroine dei drammi storici di Donizetti. E molto simile alla vicenda dell’Anna Bolena del bergamasco è quella di Beatrice Lascaris di Ventimiglia contessa di Tenda: adducendo false accuse di adulterio e cospirazione, il marito Filippo Maria Visconti – ultimo duca di Milano definito dal librettista «giovane dissoluto, simulatore, ambizioso» – invaghito della sua dama di compagnia Agnese e sospettoso di un certo Orombello che ronza attorno alla moglie, non trova di meglio che denunciare la donna e il supposto amante e farli giustiziare dopo averli torturati. Diversamente da Anna Bolena, che comunque ha amato Percy, Beatrice è sposa del tutto fedele e innocente delle attenzioni di Orombello, dettate queste dalla pietà più che dalla passione. Diversa anche dalla ambiziosa Giovanna Seymour è Agnese del Maino, innamorata non corrisposta di Orombello, vendicatrice consapevole della rovina di Beatrice, salvo poi pentirsene troppo tardi. La sofferenza per i sudditi schiacciati dal giogo dei Visconti e il rimpianto di aver portato in dote una grande ricchezza a un marito crudele solo gli altri elementi che distinguono la figura di Beatrice, donna integerrima che anche sotto tortura trova la forza di non cedere e confessare colpe che non ha commesso, cosa che non succede all’uomo che invece parla pur di evitare i tormenti. Nell’opera le eventuali titubanze del marito cedono di fronte alle notizie che i sudditi fedeli di Beatrice stanno marciando in sua difesa. Il che lo convince ad affrettare l’iniqua sentenza e Beatrice muore come una santa al martirio al di là delle bassezze terrene.

Prima interprete di Beatrice di Tenda – come della Sonnambula e della Norma, di Imogene ne Il pirata e Romeo ne I Capuleti e Montecchi – fu Giuditta Pasta, la più celebre cantante lirica dell’Ottocento assieme a Maria Malibran. Opera le cui rappresentazioni si fecero sempre più sporadiche nell’Ottocento, è solo negli anni sessanta del secolo scorso che Beatrice di Tenda ritornò in auge grazie a interpreti del calibro di Joan Sutherland e Leyla Gencer. Sul palcoscenico allestito nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca coglie la sfida del confronto Giuliana Gianfaldoni, giovane soprano tarantino dalla elegante figura che cesella le note dell’eroina belliniana con sicurezza, con attacchi in piano che sfumano in un pianissimo e in un altro ancora “più” pianissimo di stupefacente bellezza. La cantante si compiace di filati e mezzevoci stupefacenti facendo del personaggio una figura fuori da questo mondo. Teresa Kronthaler è un’Agnese forse anche troppo sgradevole, mentre Celso Albelo, che assomiglia sempre più vocalmente ad Alfredo Kraus, non impone il personaggio che rimane piuttosto sbiadito. Magnifico invece il Filippo Maria Visconti di Biagio Pizzuti, splendido timbro, fraseggio preciso, parola scolpita e colori cangianti per un personaggio molto sfaccettato. Il suo momento più tormentato quello della firma della sentenza, dove su un bellissimo accompagnamento orchestrale esprime il suo inutile rimorso («Ah! nel mondo maledetto | condannato in ciel sarò»). Nella parte di Anichino e Rizzardo del Maino si è distinto Joan Folqué. Un po’ troppo a briglia libera è sembrato il coro, che ha un importante ruolo in questo lavoro.

E infine Michele Spotti, il giovane direttore che non solo ha salvato la produzione, ma dà un’interpretazione sensibilissima della partitura: ripristinati i tagli di tradizione, utilizza dinamiche sempre efficaci che esaltano la bellezza di certe pagine come il sublime terzetto e negli altri pezzi di insieme che in quest’opera superano in numero le arie solistiche. Il pubblico ha risposto con grande entusiasmo nei suoi confronti e in quelli dei due interpreti principali.

Le joueur

 

foto © Clarissa Lapolla

Sergej Prokof’ev, Le joueur

★★★★☆

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 24 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Ouverture du Festival della Valle d’Itria avec la version française du Joueur de Prokofiev

Près de 450 ans se sont écoulés depuis ce 14 janvier 1573 où la Camerata de’ Bardi s’est réunie pour la première fois à Florence pour expérimenter une nouvelle forme d’art alliant musique et scène. Ainsi est né l’opéra tel que nous le connaissons aujourd’hui.

Sebastian Schwarz, le nouveau directeur du Festival della Valle d’Itria (qui fête cette année sa 48e édition) se propose d’offrir un tour d’horizon de quatre siècles d’opéra, lequel s’ouvre par un opéra du XXe siècle, Le joueur de Sergueï Prokofiev, présenté ici dans la version française dans laquelle l’œuvre a vu le jour à la Monnaie de Bruxelles le 29 avril 1929, treize ans après sa composition : la première prévue au théâtre Mariinsky de Saint-Pétersbourg en 1917 avait en effet été annulée et le compositeur avait quitté son pays peu après…

la suite sur premiereloge-opera.com

Il Xerse

foto © Clarissa Lapolla

Francesco Cavalli, Il Xerse

★★★☆☆

Martina Franca, Teatro Verdi, 25 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Cavalli al galoppo al Festival della Valle d’Itria

La cavalcata dell’opera nei secoli proposta da Sebastian Schwarz, direttore artistico del Festival della Valle d’Itria, ci fa ritornare al Seicento, il secolo in cui era nata, con uno dei massimi compositori di quell’epoca, il più popolare, Francesco Cavalli.

Il Xerse, dramma per musica in un prologo e tre atti su libretto di Nicolò Minato  vagamente basato sul libro 7 delle Storie di Erodoto, sta esattamente a metà delle opere di Cavalli, essendo la ventunesima delle sue circa quaranta. Come praticamente tutte le altre venne rappresentato a Venezia, nel teatro dei Ss. Giovanni e Paolo, il 12 gennaio 1655. Anche in questa la storia è quanto mai complicata e centrata su intricate vicende amorose, intrighi di corte e travestimenti: due coppie (il re Xerse e Amastre; il fratello di Xerse Arsamene e Romilda), la sorella di Romilda (Adelanta), il loro padre (Ariodate), un eunuco (Eumene), un balio (Aristone), un ambasciatore (Periarco), un paggio (Clito), un servitore (Elviro) e due maghi (Sesostre e Scitalce) popolano la scena (1).

La personalità piuttosto peculiare del monarca, che innamoratosi di un platano lo coprì di ornamenti d’oro e fece “fustigare” e “marchiare a fuoco” le acque dell’Ellesponto colpevoli di aver distrutto il ponte di barche da lui costruito per collegare Europa e Asia, qui si riscontra nella labilità dei suoi sentimenti ondivaghi, con ritorni di fiamma improvvisi o furiosi eccessi d’ira che si alternano a momenti di abissale tristezza. Il libretto di Nicolò Minato, che cinque anni prima aveva già scritto per Cavalli L’Orimonte e ne scriverà in seguito altri sei, verrà riadattato nel 1694 da Silvio Stampiglia per l’opera di Giovanni Bononcini e nuovamente riadattato, sfoltendo ulteriormente il numero di personaggi, da un anonimo e intonato da Georg Friedrich Händel nel 1738 per il suo Serse. Quello di Cavalli fu un lavoro di grande successo alla sua epoca, tanto da essere scelto per i festeggiamenti nuziali di Luigi XIV con l’Infanta di Spagna nel 1660 a Parigi.

Anche Il Xerse di Cavalli inizia con l’aria «Ombra mai fu» che nella versione di Händel fu una delle poche pagine settecentesche di grande popolarità, con l’immancabile versione per organo utilizzata durante le celebrazioni nuziali in chiesa. A questa segue una serie di lunghissimi recitativi e poche arie, anche se memorabili quali il lamento di Xerse «Lasciatemi morire, stelle spietate». Proprio per questo l’accento su questi recitativi dovrebbe avere la massima attenzione sulla parola, e invece questi vengono sciorinati a grande velocità e con scarsa cura alla dizione da parte degli interpreti, alcuni non di lingua italiana. Francesco Maria Sardelli è alla guida di un’Orchestra Barocca Modo Antiquo dal suono non sempre perfettamente a fuoco e con alcuni strumenti, come il cornetto, predominanti nell’equilibrio fonico. L’opera è sfrondata in molti punti – il pubblico di oggi non è quello del Seicento e non ha le stesse libertà e agevolazioni di quello – e la scelta dei tempi, sempre piuttosto rapidi, porta lo spettacolo alle tre ore  con un intervallo.

Il tono semi-comico dell’intricata vicenda, non esattamente quello voluto dagli autori, viene esaltato dalla regia di Leo Muscato, nativo di Martina Franca, che trasforma il “dramma per musica” nei toni della commedia dell’arte con una recitazione marcata e costumi, di Giovanna Fiorentini, caricaturali, come quello stile Bollywood del personaggio eponimo, quello da bambola di pezza di Romilda o il pigiama con tutù del paffuto Amore. Per i numerosissimi “a parte”, indicati tra parentesi nel testo, il regista sceglie di bloccare in stop motion gli altri personaggi con un battito di mani, cosa che si traduce molto presto in una trovata estremamente fastidiosa e diventa il tormentone del pubblico durante l’intervallo e dopo lo spettacolo. Non proprio l’effetto che ci si aspettava. Di tono fiabesco è la scenografia di Andrea Belli illuminata dalle luci di Alessandro Carletti: una visione da libro illustrato per ragazzi di una città orientaleggiante. Unico elemento di scena una serie di lanterne che scendono oscillando dall’alto.

Cast non omogeneo che ha la punta di eccellenza nel Xerse di Carlo Vistoli: le due arie citate sono un esempio di fraseggio ed espressività rese con timbro di velluto e morbidezza di suono. Del resto si salva l’Arsamene di Gaia Petrone, grande personalità scenica e vocalità sicura, ma non la Romilda di Carolina Lippo dall’intonazione incerta, l’Ariodate di Carlo Allemano, insopportabilmente manierato, l’Adelanta un po’ sguaiata di Dioklea Hoxha e il caricato Elviro di Aco Bišćević. Pubblico plaudente con ovazioni per Vistoli e Sardelli.

1) L’opera, preceduta come nelle consuetudini dell’epoca da un prologo allegorico con le antiche divinità, è ambientata ad Abydos, città dell’Ellesponto sul versante dell’Asia Minore, intorno al 480 a.C., che Xerse, re di Persia, utilizza come piazza d’armi per la guerra che ha intrapreso contro gli Ateniesi. Xerse vuole passare in Grecia per combattere contro Atene e ha scelto la città di Abydos come punto d’appoggio alle sue imprese belliche.
Atto I. Alla periferia della città, in un luogo piacevole che si affaccia su un boschetto. Xerse trova un platano ombroso che gli piace così tanto da adornarlo d’oro. Ariodate ha due figlie, una di nome Romilda e l’altra Adelanta. Arsamene, fratello di Xerse, è innamorato di Romilda e lei di lui. Ma Xerse, che la sente cantare deridendo la folle passione del re dei Persiani per un albero, si innamora di lei. Arsamene finge di non conoscerla. Quando Xerse viene a corteggiare Romilda, Arsamene si nasconde e rifiuta l’amore del re. Il re scopre Arsamene e il suo paggio Elviro e in preda alla gelosia li bandisce dalla sua corte. Nonostante Eumene e Adelanta la esortino ad amare il re, Romilda rimane ferma nel suo amore per Arsamene. Cortile. Amastre, figlia di Ottane, re di Susa, che Xerse aveva promesso di sposare, entra in scena vestita da uomo. È fuggita dalla fortezza del padre. Con lei c’è Aristone, il suo vecchio precettore. Si fingono pellegrini. Sentendo le trombe di Ariodato e dei suoi soldati che tornano dalla battaglia, si nascondono. Arrivano gli eserciti vittoriosi. Xerse saluta Ariodate, ed è così soddisfatto della vittoria che gli dice che Romilda «avrà sposo reale | de la stirpe di Xerse, a Xerse eguale». Aristone chiede ad Amastre di andarsene, ma lei insiste per restare ancora un po’. Amastre ascolta la conversazione tra Xerse ed Eumene che gli rivela che Xerse in realtà ama un’altra, Romilda. Quando Xerse ed Eumene scoprono Amastre e Aristone, si fingono stranieri in cerca di notizie. Da solo, Aristone cerca di convincere Amastre a tornare ad Arax. Ma è decisa a rimanere vicino a Xerse, anche da sola. Clito, il paggio di Romilda, passa di lì e cerca di scoprire chi è Amastre, ma Amastre si sottrae alle sue domande. Ariodate, Romilda e Adelanta si chiedono chi sia il marito a cui si riferiscono le parole di Xerse. La sorella cerca di convincerla a sposare il suo Xerse, perché in fondo Arsamene se n’è andato e lei perderebbe il re per un amante perduto. Romilda dice che il suo amore non finirà mai.
Atto II. Elviro, travestito da venditore di fiori, incontra Amastre e gli rivela che il re ama Romilda, ma che lei in realtà ama Arsamene. Più tardi, entra Adelanta ed Elviro rivela incautamente la sua identità e che sta portando una lettera di Arsamene a Romilda. Adelanta si offre di dargliela lei stessa. Elviro se ne va ed entrano Xerse ed Eumene. Xerse legge la lettera che Adelanta dice che Arsamene le ha inviato, poiché il suo amore per Romilda è solo finto. Quando Adelanta parte e Romilda arriva, Xerse glielo mostra per dimostrare che Arsamene non è degno del suo amore. Ma dice che, nonostante tutto, ama ancora Arsamene. Sull’Ellesponto con il ponte di navi. Eumene canta l’umanità infelice, che piange appena nata e, se non ha altre cose a tormentarla, è l’amore a tiranneggiarla. Aristone impedisce ad Amastre di suicidarsi e decide di andare da Xerse, per dirgli che è un traditore. Da parte sua, Elviro ha detto ad Arsamene che, secondo Adelanta, Romilda ama davvero il re. Xerse va a vedere il ponte steso sull’Ellesponto, pronto a passare in Europa. Scopre Arsamene che ha deciso di annegarsi; Xerse accetta di sposare la persona che ama, credendola Adelanta. Arsamene lo dissuade, chiarendo che la persona che ama è Romilda. Più tardi, Xerse dice ad Adelanta che Arsamene non la ama e che lei non deve amare l’uomo ingrato. Adelanta risponde che non sa come non amarlo, che non amarlo è impossibile come non morire. Elviro si pente di aver tradito il suo padrone, ma non sa se confessarlo o meno. Inizia ad attraversare il ponte ma cade in acqua. Per la disperazione di Amastre, Xerse corteggia Romilda. Romilda rifiuta di essere la sua regina. Il re ordina l’imprigionamento di Amastre, ma Romilda lo rilascia dopo la partenza del re. Cleito ha salvato Elviro mettendolo sulla sua nave. Adelanta, sola, si lamenta, chiedendosi come possa amare così tanto quando non prova amore. Periarco, amico di Aristone, arriva come ambasciatore di Ottone. Riconosce Aristone e Amastre, ma loro gli dicono che si sbaglia. È venuto a offrire a Xerse il matrimonio con Amastre. Romilda incarica Eumene di chiedere a Xerse di non inseguirla, perché non è opportuno che un re molesti le fanciulle. Eumene esita, perché chi dice la verità perde il suo amico. Clito fa i preparativi per la sfilata delle truppe a cui Xerse intende partecipare in compagnia di Periarco. Xerse dice che con un tale coraggio, se combatteranno gli Ateniesi in questo modo, vinceranno.
Atto III. Romilda e Arsamene si incontrano. Ognuno rivendica una fedeltà incrollabile e accusa l’altro di tradimento. Quando l’inganno viene chiarito, si riconciliano. Xerse rinnova la sua offerta d’amore e Romilda rifiuta, dicendo di non avere il consenso del padre. Quando Xerse se ne va, Arsamene, che ha origliato, rimprovera a Romilda la sua tiepidezza nei confronti del re. Eumene va a consegnare a Romilda un diadema come futura regina di Persia. Quando l’ambasciatore Periarco lo scopre, chiede di vedere il re. Xerse dice ad Ariodato che troverà il promesso sposo nelle stanze di Romilda, ma non gli dice il nome. Delizioso villaggio appena fuori città, affacciato sulla foresta. Eumene consegna a Romilda la corona. Ammette che preferirebbe essere un’amante piuttosto che una regina. Xerse la corteggia di nuovo. Obietta che Arsamene l’ha amata, abbracciata e baciata. Xerse dice che sta mentendo ma, in ogni caso, dovrà giustiziare Arsamene. Romilda accetta di fare come dice il re, a patto che non uccida Arsamene. Entra Amastre, ancora travestito da uomo, e Romilda gli chiede di avvertire Arsamene che il re ha ordinato la sua morte. In cambio, Romilda consegnerà la lettera di Amastre a Xerse, tramite Cleitus. Appartamenti reali del palazzo di Ariodate. Ariodato trova Arsamene nelle stanze di Romilda e gli dà Romilda in moglie, «come il re comanda». Entrambi accettano, anche se sono sorpresi dal cambiamento d’opinione del re. In riva al mare. Aristone attende invano Amastre. Xerse dice all’ambasciatore Periarco che si rifiuta di sposare Amastre. Ariodate esce per incontrare Xerse e gli dice che ha già esaudito il suo desiderio. Xerse è furioso quando scopre che Arsamene e Romilda sono sposati. Decide che moriranno tutti: Romilda, Ariodato, Arsamene e lo stesso Xerse. Clito gli consegna la lettera di Amastre. Galleria di arazzi e piatti. Palazzo di Abydos. Xerse desidera morire, ma Eumene ritiene che il suo atteggiamento non sia consono a un eroe. Arsamene arriva per ringraziarlo e Xerse gli dà una spada con cui uccidere Romilda e poi uccidersi. Ma Amastre prende la spada dicendo che solo lei deve morire. Lei rivela la sua identità e Xerse sente rinascere il suo amore per lei. Xerse risparmia le vite di Arsamene e Romilda. L’opera si conclude con un quartetto di Romilda, Amastre, Arsamene e Xerse: «Non ci sarà amante più felice di me, né lo è mai stato, né lo sarà mai».

Il giocatore

 

foto © Clarissa Lapolla

Sergej Prokof’ev, Le joueur

★★★★☆

Martina Franca, Cortile Palazzo Ducale, 24 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Inaugurazione del Festival della Valle d’Itria con la versione francese de Il giocatore

Quasi 450 anni sono passati da quel 14 gennaio 1573 in cui per la prima volta a Firenze si riuniva la Camerata de’ Bardi per sperimentare una nuova forma d’arte che riuniva musica e scena. Nasceva così l’opera come la conosciamo noi oggi.

E una carrellata di quatto secoli d’opera è quella approntata da Sebastian Schwarz, nuovo direttore del Festival della Valle d’Itria giunto quest’anno alla sua 48esima edizione. Inaugura la manifestazione un’opera del Novecento, Le joueur (Il giocatore) di Sergej Prokof’ev, presentata qui nella versione in francese con cui il lavoro aveva visto la luce alla Monnaie di Bruxelles il 29 aprile 1929, ben tredici anni dopo la sua composizione: il previsto debutto al Mariinskij di San Pietroburgo nel ’17 era infatti saltato e poco dopo il compositore avrebbe abbandonato il suo paese. Questa seconda versione de Il giocatore non poteva non risentire delle esperienze compiute da Prokof’ev con L’amore delle tre melarance e soprattutto con L’angelo di fuoco che nel frattempo aveva composto. «L’esperienza dell’Angelo di fuoco ebbe anche una benefica influenza sull’andamento delle parti vocali, che divennero nella seconda versione del Giocatore più liriche, flessibili, agili, spontanee, nel momento in cui prendevano le distanze dalle asperità del modernismo gratuito e alla moda», scrive Franco Pulcini sul programma di sala, «la coscienza dello stile e dell’espressione drammatica portarono Prokof’ev ad attenuare il peso dell’orchestra e a disegnare con maggior precisione lirica i profili di un canto sempre più protagonistico».

Un’umanità disperata – amanti non riamati, solitudini, cambiali incombenti, debiti di gioco, carriere interrotte – pone tutte le sue speranze sulla fortuna al gioco, ma non nelle carte com’è nella Dama di Picche di Puškin/Čajkovskij, bensì nell’ancora più aleatorio movimento della pallina della roulette che però non salva dal fallimento amoroso con un’inaspettata enorme vincita, mentre produce il tracollo finanziario della vecchia nonnetta che si è lasciata tentare dal gioco, ne è rimasta prigioniera e ha definitivamente deluso le aspettative di chi contava sulla eredità che avrebbe lasciato alla sua morte per risolvere i propri problemi finanziari.

Il racconto di Dostoevskij da cui è tratto il libretto si sarebbe potuto intitolare “La giocatrice”, essendo la figura della vecchia al centro della vicenda. Ed è anche la figura di svolta nell’opera: è infatti con il suo ingresso che cambia anche la musica, fino ad allora sviluppata sull’accompagnamento di un generico declamato. È come se Prokof’ev avesse bisogno di uno stimolo per rinnovare il tono del suo lavoro e da quel momento è tutta un’altra musica, un crescendo inarrestabile fino alla fragorosa fanfara che accompagna l’apparizione in scena della fantomatica roulette, fino a quel momento evocata ma sempre assente dalla nostra vista. Il motivo del gioco diventa puro vitalismo ritmico che tocca qui un vertice di pura follia musicale, scandito dal movimento inesorabile della pallina, dai richiami del croupier, dal nervoso commento dei giocatori.

Tutto è reso con efficacia da Jan Latham-Koenig alla guida dell’ottima orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari. Le linee febbrili e talora dissonanti scaturiscono con sicurezza e fluidità, i momenti grotteschi si alternano felicemente a quelli lirici, i colori acidi e gli spigoli della complessa partitura sono resi con maestria e la non facile concertazione dei cantanti in scena non ha intoppi. La voce migliore di tutti è quella del soprano Maritina Tampakopoulos, una Pauline di bel timbro, bella proiezione vocale e sicura presenza scenica. L’interprete più in tono con l’aspetto satirico e caricaturale dell’opera è invece il tenore Paul Curievici, un Marquis che sembra uscito da una farsa di Labiche. Ottima anche la Grande-Mère di Silvia Beltrami, poi anche la donna che sospetta frodi al tavolo da gioco. Sergej Radčenko, l’Agrippa dell’L’angelo di fuoco della Dante a Roma, qui è un Alexis talora in difficoltà vocali, ma bisogna dire che la parte è veramente impegnativa. Manca di sonorità nel registro grave il Général/Directeur di Andrew Greenan e incomprensibile è la Blanche di Xenia Chubunova, ma in generale la dizione del francese non si può certo dire sia il punto di forza di questa produzione. Tra i tanti altri personaggi ricordiamo almeno il Mr. Astley di Alexander Ilvakhin e il Croupier di Joan Folqué.

Come rendere visivamente l’ossessione del gioco che domina quest’opera? Sir David Pountney e la scenografa Leila Fteita costruiscono un ambiente a cuneo le cui pareti convergenti riportano la gigantografia di una roulette. Uno specchio a 45° riflette la scena e i personaggi che si muovono nervosamente, come burattini, tutti vittime della ludopatia. Belli i costumi e i tessuti delle sedie disegnati dalla stessa Fteita che gioca con motivi del futurismo russo mentre le luci di Alessandro Carletti che inonda la scena di colori primari – rosso, blu, verde. Il successo della serata, oltre che dalla parte musicale, è stato garantito anche dall’aspetto visivo dello spettacolo.

  

Tosca

 

foto © Luna Simoncini

Giacomo Puccini, Tosca

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 22 juillet 2022

 Qui la versione italiana

Tosca dans l’Amérique maccarthyste

Le contexte historique précis de l’opéra de Sardou dans le livret de Giacosa et Illica – précis jusqu’à la date du 17 juin 1800, immédiatement après la bataille de Marengo, dont l’issue a consolidé le pouvoir de Napoléon – constitue la toile de fond d’une affaire de passions amoureuses qui voit finalement la mort violente des trois personnages. Cette toile de fond historique a souvent été abandonnée par certains réalisateurs, qui ont préféré situer l’histoire à des époques différentes comme celles du fascisme (Jonathan Miller), certains étant allés jusqu’aux « Années de plomb » (Barbara Wysocka) ou à notre propre contemporanéité (Calixto Bieito). Valentina Carrasco choisit l’Amérique maccarthyste du début des années 1950, mais conserve les références historiques puisque celles-ci font l’objet d’un film en costumes tourné à cette époque et dont la chanteuse Floria Tosca est l’une des interprètes…

la suite sur premiereloge-opera.com

Tosca

 

foto © Luna Simoncini

Giacomo Puccini, Tosca

★★★☆☆

Macerata, Arena Sferisterio, 22 luglio 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Tosca, la donna che  visse due volte

Inaugurazione all’Arena Sferisterio del Macerata Opera Festival con Tosca, un nuovo allestimento che era in standby da due anni a causa delle vicende pandemiche e che solo oggi ha visto la luce.

Il puntuale contesto storico dell’opera di Sardou nel libretto di Giacosa e Illica – preciso fino alla data, il 17 giugno 1800, subito dopo la battaglia di Marengo il cui esito consolidava il potere di Napoleone – fa da sfondo a una vicenda di passioni amorose che alla fine vede la morte violenta di tutti e tre i personaggi. Questo quadro storico è stato spesso dribblato da certi registi che hanno preferito ambientare la vicenda in tempi diversi come quelli del Fascismo (Jonathan Miller), c’è chi si è spinto agli Anni di Piombo (Barbara Wysocka) o alla nostra contemporaneità (Calixto Bieito). Valentina Carrasco sceglie l’America maccartista dei primi anni ’50 della caccia alle streghe del comunismo, ma mantiene i riferimenti storici in quanto questi sono il soggetto di un film in costume che viene girato all’epoca e in cui la cantante Floria Tosca è una delle interpreti.

In scena abbiamo a sinistra la roulotte di Scarpia, che è produttore della casa cinematografica ma anche agente di controllo delle “attività antiamericane” – vedremo infatti l’arresto del sagrestano “regista” e di altri lavoratori del film e si spiega così anche l’arresto dell’attore Cavaradossi – a destra il set cinematografico con la ricostruzione degli ambienti nei colori saturi del technicolor, mentre la realtà è grigia, in bianco e nero, come gli spezzoni documentari che vengono proiettati o le scene riprese in tempo reale da una telecamera mobile. E qui ci sono cose inutili come la vista delle torture a Cavaradossi – con l’involontario (?) omaggio a Buñuel del rasoio e dell’occhio di Un chien andalou – e altre più intriganti, come la ripresa fatta da Scarpia del «Vissi d’arte» di Tosca, o di humour nero, come quando Tosca finisce lo stesso Scarpia a colpi di cinepresa dopo averlo debitamente accoltellato: il voyeur viene punito con la sua stessa arma. Con il video è realizzato anche il teatrale suicidio della donna: dopo la fucilazione – vera, finta? qui comunque l’attore ci rimette la pelle! – Tosca scompare dietro la gigantografia di Castel sant’Angelo, sullo schermo la vediamo salire delle scale di legno e poi precipitare nel vuoto (questa volta chiaro omaggio allo Hitchcock di Vertigo, in italiano La donna che visse due volte) per poi giacere priva di vita sul palcoscenico.

L’espediente del “teatro nel teatro” talora funziona a fatica e non è sempre drammaturgicamente efficace: alcune cose sono inutili (la relazione di Scarpia con l’attrice che interpreta la marchesa Attavanti, con conseguente prole), altre sono inspiegabili. È condivisibile l’idea di «conservare epoca e arredi senza essere in quell’epoca e in quei luoghi, di avere quadro, cappella e acquasantiera senza essere in chiesa» come dice la regista intervistata da Jacopo Pellegrini sul programma di Sala, ma è la realizzazione che non sempre convince. Soprattutto è il primo atto il meno riuscito, il secondo e il terzo funzionano meglio. Scarsa la regia attoriale, con i cantanti lasciati a loro stessi senza una precisa indicazione interpretativa. Lo scenografo Samal Blak dissemina lo sterminato palcoscenico di oggetti significativi e Peter van Praet si occupa del gioco luci con efficacia. Silvia Aymonino disegna opportunamente i due generi di costumi: quelli settecenteschi com’erano visti dalla Hollywood degli anni ’50, e gli abiti di quella stessa epoca.

La realizzazione musicale è affidata al direttore musicale dell’Associazione Arena Sferisterio e decano interprete di quest’opera, ossia Donato Renzetti, che dà una lettura precisa e analitica del lavoro di Puccini con tempi dilatati che permettono sì di assaporare le qualità di una partitura modernissima – lo spettrale fruscio dei piatti durante «E lucevan le stelle» qui ha un effetto mai notato prima – ma difetta di tensione narrativa. Mancanza voluta e cercata dal maestro concertatore, che nel programma dichiara la necessità di «non lasciarsi prendere la mano da un eccesso di drammaticità» che qui però manca quasi totalmente. Nella sua lettura si scoprono raffinatezze armoniche e strumentali, ma non si viene presi dalla musica e per un’opera come Tosca non è cosa trascurabile. Dopo un attacco avventuroso degli ottoni, l’Orchestra Filarmonica Marchigiana riesce a mantenere un suono omogeneo e trasparente per il resto dell’esecuzione sotto la guida di Renzetti più attento però a quello usciva dalla buca che da quello che proveniva dal palcoscenico.

Nessuna grande rivelazione tra gli interpreti: Carmen Giannattasio è una Floria Tosca vocalmente efficace, a parte un vibrato un po’ largo, e rende molto bene «Vissi d’arte», ma è la personalità che manca, non c’è la teatrale presenza del personaggio. Lo stesso si può dire del Cavaradossi di Antonio Poli: bello il suo attacco di «E lucevan le stelle», però il cantante dopo le finezze vocali termina la romanza con il singulto di una cattiva tradizione mentre non particolarmente fascinoso è il suo  «Recondita armonia». Claudio Sgura è un autorevole Scarpia anche se un filino monocorde. Niente più che passabili gli interpreti secondari. Buona la resa del Coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini” istruito da Martino Faggiani e dei Pueri Cantores “D. Zamberletti” istruiti da Gianluca Paolucci. L’emozione di Sofia Cippitelli (pastorello) qui è resa realistica dal fatto che la regia presenta la scena come il provino cinematografico di una giovane.

Applausi non particolarmente calorosi per lo spettacolo, qualcosa di più per i tre interpreti e il maestro concertatore, ma il pubblico elegante della prima non sembra sia stato particolarmente coinvolto.