Calcedonio Reina, Amore e morte, 1883
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Sergej Prokof’ev, L’angelo di fuoco
★★★★☆
Roma, Teatro dell’Opera, 23 maggio 2019
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Ossessioni demoniache nell’Angelo di fuoco di Emma Dante
Definita «l’opera più strana e inquietante mai scritta», L’angelo di fuoco fu composta da Prokof’ev tra il 1919 e il 1927, ma l’autore non la vide mai in scena: la trama del romanzo di Brjusov da cui è tratto il libretto venne ritenuta così blasfema e l’intensità della musica così allucinata che l’opera debuttò in teatro solo nel 1955, due anni dopo la morte del compositore e a quasi trent’anni dal suo completamento.
Il pubblico e la critica non compresero allora la profondità del messaggio: “Una specie di Carmen del XVI secolo con guarnizioni soprannaturali” fu definita dal critico di The New Statesmen. Ne L’angelo di fuoco il compositore aveva voluto mettere in campo la complessità dei rapporti fra bene e male, reale e sovrannaturale, sacro e profano, intelletto e follia, intrecciati in un’elaborata e ardita forma musicale, un “dramma etico” in cui è difficile discernere il naturale dall’innaturale. Ambientato nella Germania del XVI secolo, è il dramma di Renata, giovane che fin da bambina si crede guidata dal suo angelo custode Madiel’ per essere avviata a una vita di castità. Ma la donna si innamora però dello stesso angelo il quale, furente, si trasforma in una colonna di fuoco. La vicenda della donna si svolge tra solitudini conventuali e visioni demoniache fino alla condanna al rogo da parte dell’Inquisizione.
Nelle sue messe in scene la regista Emma Dante non rinnega le sue origini aggiungendo spesso un tocco di sicilianità alle sue produzioni, che siano i quartieri di Palermo (il Feuersnot di Strauss), il teatro dei pupi (il Macbeth di Verdi) o le processioni religiose (nella Cavalleria rusticana di Mascagni). Per l’opera di Prokof’ev sceglie di ambientarne l’inizio nelle cosiddette Catacombe dei Cappuccini, il cimitero sotterraneo di un convento di Palermo dove sono esposti i resti mummificati di quasi 8000 cadaveri, in piedi o coricati e vestiti di tutto punto, che costituiscono una macabra attrazione per i turisti della città. Con caustico umorismo quando Ruprecht cerca alloggio nel primo atto gli viene offerto proprio un loculo!
Quello della Dante è un teatro di corpi, di fisicità, ecco perché la figura dell’angelo qui è affidata a un muscoloso danzatore di break dance che invece delle ali usa le gambe e le braccia per… volare. La regista spinge molto sul pedale del grottesco, comunque ben presente nel lavoro: tra i numerosi personaggi ci sono anche un Mefistofele in vena di burle e un trio di scheletri beffardi. Nel finale l’ultima acrobazia del danzatore di break dance termina quando egli viene trapassato da una delle spade della Madonna dei Sette Dolori in cui è stata trasformata Renata prima di essere mandata al rogo. Non funziona sempre a meraviglia, però, questo trasferimento dal cupo misticismo della Germania del Cinquecento alla religiosità sfarzosa del Mediterraneo, e spesso una sorta di horror vacui spinge la regista a riempire la scena con figuranti e acrobati non necessari. Il meglio Emma Dante lo dà nel quadro della taverna con una perfetta coreografia di movimenti. Gustosi siparietti separano i vari atti e qui il tocco della regista è infallibile, che siano i due storpi che fanno la parodia del duello che si è appena svolto tra Rupert e Heinrich – ma con le stampelle! – o la coppia di monaci che passano e ripassano davanti al sipario con un leggero tintinnio dei loro campanelli, una gag sottilmente surreale. Heinrich ha spesso le movenze di un burattino di legno e il Cristo crocefisso che campeggia nell’ultima scena è una figura scheletrica con viso di donna: questa è quasi un’allegoria della morte quale vediamo negli affreschi medievali dei cimiteri italiani. Ma nel complesso manca il mistero nella sua messa in scena.
Il direttore argentino Alejo Pérez fa propria la musica di questa complessa partitura. Inquietanti ostinati ritmici rappresentanti il demoniaco si alternano con le struggenti sezioni liriche dell’appassionate dichiarazioni d’amore di Renata. Nel quinto atto Pérez riproduce l’antico contrappunto medievale, inserito da Prokof’ev in un linguaggio moderno. Talora però, la sua veemenza copre i cantanti.
Ewa Vesin si piega con duttilità alle differenti richieste dell’impegnativa parte di Renata, costituita da soliloqui allucinati, slanci lirici, momenti urlati. Gli altri 21 personaggi sono affidati a interpreti efficaci. Vigoroso Ruprecht è Leigh Melrose, baritono di bel timbro e decisa personalità che riprende il ruolo dopo il debutto a Zurigo due anni fa. Il Mefistofele di Maxim Paster è il vero mattatore della serata: il tenore russo riempie la scena con la sua presenza sia fisica che vocale. L’Inquisitore de L’angelo di fuoco è meno minaccioso di quello del Don Carlos verdiano, ma Goran Jurić riesce comunque a renderlo potente, mentre l’Agrippa forse troppo cesellato di Sergej Radčenko supera invece con difficoltà il muro dell’orchestra. Dei tanti altri interpreti una menzione va al giovane italiano Domingo Pellicola, un vivace Jakob Glock, il procacciatore di libri proibiti.




⸪