Mese: dicembre 2017

Demetrio e Polibio

★★★★☆

La magia del primo Rossini

Il Demetrio e Polibio è il caso forse unico di un’opera commissionata da una famiglia di teatranti, i Mombelli: Domenico (compositore e tenore), Vincenzina Viganò (la seconda moglie, che scrisse il libretto), Ester e Anna (le figlie, soprano e contralto) e il fidato domestico Lodovico Oliviero nella parte di basso.

Sembra sia stata composta nel 1806 – Rossini avrebbe avuto 14 anni! (1) – ma fu rappresentata solo nel 1812 al Teatro Valle con un’ottima accoglienza. Dopo Roma l’anno successivo i Mombelli debuttarono al Carcano di Milano dove fu ascoltato dal Berchet che ne fece un’analisi minuziosa. A Como invece fra il pubblico ci fu Stendhal che gli dedicò quasi tutto il nono capitolo della sua Vie de Rossini. Il titolo del capitolo è “L’Aureliano in Palmira”, ma il Beyle premette subito: «Je ne parlerai pas beaucoup de L’Aureliano in Palmira: ma grande raison, c’est que je ne l’ai pas vu»! (2). E nel resto del capitolo racconta in maniera molto romanzata il viaggio notturno per vedere «les petites Mombelli», la locanda sul lago, l’architettura del teatro Sociale, il prezzo pagato per i palchi, l’entusiasmo del pubblico («La foule était immense. On était accouru des monti di Brianza, de Varese, de Bellagio, de Lecco, de Chiavena, de la Tramezina, de tous les bords du lac, à trente milles de distance») (3) e infine lo spettacolo. Nella sua entusiastica cronaca postuma («Je n’ai, je crois, jamais senti plus vivement que Rossini est un grande artiste. Nous étions transportés, c’est le mot propre. Chaque nouveau morceau nous présentait les chants les plus purs, les mélodies les plus suaves») (4) il Beyle coglie le caratteristiche di questo lavoro giovanile: «ce qui augmentait encore le charme de ces cantilènes sublimes, c’était la grace e la modestie des accompagnements, si j’ose ainsi parler. Ces chants étaient les premières fleurs de l’imagination de Rossini; ils ont toute la fraîcheur du matin de la vie» (5).

I soddisfacenti risultati musicali ottenuti da questa sua prima opera sono dimostrati dalla pratica dell’autoimprestito, in cui i temi melodici più riusciti venivano riutilizzati in opere successive. Qui è il caso della frase iniziale del duetto «Mio figlio non sei | pur figlio ti chiamo» che tornerà diversamente sviluppata nell’aria «T’abbraccio ti stringo | mio tenero figlio» nel Ciro in Babilonia; l’aria «Pien di contento il seno» diventerà il brindisi alternativo «Beviam, tocchiamo a gara» ne La gazza ladra; il duetto «Questo cor ti giura amore» finisce ne Il Signor Bruschino come «Quant’è dolce a un’alma amante». E così via. Secondo Zedda poi nel Demetrio e Polibio più che sentire il Rossini futuro, si sente il Rossini che non ci sarà più: l’opera contiene tutto quello che egli stava rifiutando e si sente nettissimo il trapasso: come il Guillaume Tell chiuderà un periodo, così invece il Demetrio e Polibio apriva a un mondo nuovo.

L’antefatto è così narrato nel libretto: «Demetrio e Cleopatra, la figlia di Tolomeo re d’Egitto, regnarono nella Siria pacificamente lo spazio di sei anni, sin che furono obbligati fuggirsi per salvamento da una terribile sollevazione della città di Antiochia e della maggior parte delle sue province, eccitata dai raggiri e dalle simulazioni di Trifone, che si fece credere a quei popoli un superstite figlio di Alessandro Bala re di Siria antecessore di Demetrio, che fu detronizzato da Tolomeo per sospetto che attentasse alla di lui vita. In questa sollevazione perì tutta la real famiglia di Demetrio, salvo un piccolo suo figlio, chiamato egli pure Demetrio, che fu trasportato da Mintèo, antico ministro regio, a titolo di proprio figlio sotto nome di Siveno, nella corte di Polibio re de’ Parti, cui era sommamente caro Mintèo, e dove ricevettero tutti i favori e furono sempre teneramente amati. Dopo tre anni venne a repentina morte Mintèo, sicché scuoprire non poté l’arcano né al re, né al giovinetto, il quale fu ritenuto poi in questa reggia per Siveno, figlio adottivo di Polibio re de’ Parti. Trifone dall’altra parte, dopo aver fatto assassinare il supposto figlio di Alessandro, si dichiarò re della Siria. Demetrio quindi, col soccorso di Tolomeo suo suocero e de’ suoi vassalli che avevano scoperta la perfida trama di Trifone, ricuperò il suo regno, ed avendo fatto premurose ricerche di Mintèo e del figlio penetrò trovarsi questo nella reggia di Polibio: quindi colà si porta egli stesso per il ricuperarlo sotto la figura di ambasciatore».

Atto primo. Sala di udienza nella reggia di Polibio. Polibio conferma a Siveno tutto il suo affetto ed esprime il desiderio che nel corso della stessa giornata Siveno possa convolare a nozze con Lisinga, il che riempie Siveno di contentezza. Uscito Siveno, giunge Demetrio (II) sotto le vesti di Eumene accompagnato da ricchi doni e da un seguito, per chiedere, in nome del re di Siria, la restituzione del figlio di Mintèo alla patria in quanto Mintèo era sommamente caro a Demetrio. Polibio rifiuta recisamente, e alle minacce di Eumene afferma di non temere le ritorsioni della Siria. All’interno di un tempio Siveno pronto alla cerimonia nuziale attende Lisinga. Polibio avverte i due che l’ambasciatore di Siria ha minacciato di guerra il regno dei Parti se Siveno non tornerà in patria. Siveno si schiera dalla parte del suocero, Lisinga dice che anch’essa saprà, all’occorrenza, scendere in campo. Uscita Lisinga, Siveno conforta Polibio. Eumene arringa i suoi in quanto, dopo il rifiuto di Polibio, ha deciso di rapire Siveno ed ha all’uopo corrotto le guardie. È notte, Lisinga sta per addormentarsi, piena di preoccupazioni. Eumene, entrato, la sorprende nel sonno credendo che si tratti di Siveno e decide comunque, una volta scoperto l’equivoco, di prenderla in ostaggio. Nella confusione scoppia un incendio e il clamore richiama Siveno e Polibio. Però non possono far altro che assistere al rapimento di Lisinga, svenuta, da parte di Eumene.
Atto secondo. Polibio si aggira disperato, ma Siveno ha scoperto dove Eumene tiene prigioniera Lisinga e chiama tutti a raccolta per liberarla. Eumene sta conducendo via Lisinga scortato dai suoi fidi. Fa in tempo a rassicurare Lisinga sulle proprie intenzioni (in sostanza che rispetterà in lei l’amata di Siveno) quando viene sorpreso dall’arrivo di Polibio e Siveno con il loro seguito. Eumene minaccia di uccidere Lisinga se non avrà Siveno, Polibio fa lo stesso con Siveno: piuttosto che lasciarlo a Eumene, lo ucciderà. Eumene nota allora una medaglia appesa al collo di Siveno e riconosce in lui suo figlio. I due contendenti si scambiano gli ostaggi. La momentanea concordia viene però interrotta, giacché Lisinga e Siveno mal sopportano di essere separati. A nulla valgono le proteste: le due coppie prendono direzioni opposte. Rimasto solo con Siveno, Eumene gli rivela che gli è padre. Siveno gli chiede perdono, ma chiede di poter essere riunito a Lisinga. La quale ha propositi bellicosi e vuole vestire le armi per riprendere Siveno, ricevendo l’assenso di Polibio. Tiene una concione ai Grandi del regno e tutti partono. Eumene racconta come Siveno abbia insistito per allontanarsi alla volta di Polibio onde convincerlo a far sì che Lisinga possa riunirsi a lui. Sopraggiungono Lisinga e i suoi per uccidere Eumene, il quale pensa di essere stato tradito dal figlio. Quand’ecco che Siveno compare e si interpone tra la spada di Lisinga e il petto del padre. Eumene commosso abbraccia entrambi i giovani. Stanno per andare tutti insieme a dare la notizia a Polibio, quando si imbattono in lui. Le ultime perplessità vengono fugate da Eumene che si fa subito riconoscere come re di Siria e padre di Siveno e immediatamente dopo propone un’alleanza a Polibio, saldata dal matrimonio dei rispettivi figli.

Nel 2010, lo stesso anno del Sigismondo di Damiano Michieletto, il ROF presenta quest’opera prima di Rossini affidandola con grande coraggio agli studenti di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Urbino sotto la supervisione di Davide Livermore. L’intrigante allestimento è così raccontato da Elvio Giudici: «Si alza il sipario nel silenzio, e noi spettatori ci si trova in fondo a un palcoscenico dove è appena terminata una recita e vediamo gli artisti di spalle che ringraziano inchinandosi al pubblico invisibile. Sulle prime note dell’ouverture le scene sono smontate dai tecnici […], i cantanti si salutano, cominciano a svestirsi mentre i pompieri […] spengono le luci. Buio. Ma pian piano, una penombra luminosa fa discernere i bauli di scena che si aprono facendone sortire dei fantasmi: quelli della famiglia Mombelli che ogni notte, nel palcoscenico silenzioso e deserto, rimettono in scena la “loro” opera popolandola anche di “doppi” di sé stessi coi quali dialogano nelle arie, magari imprigionandoli momentaneamente entro uno specchio illuminato dal tremolare di candele invisibili. La scena è del tutto vuota eccezione fatta per una catasta di bauli-contenitori entrata in scena su di un carro che, se si vuole restare al Pirandello (neppure è il caso di citare l’ovvio riferimento che l’impianto dello spettacolo fa ai Sei personaggi), evoca la carretta dei comici dei Giganti della montagna ma anche il monte Hatelma dei brechtiani Puntila e Matti: s’accendono fuochi fatui sui palmi delle mani, che si riflettono in specchi magici mentre pianoforti, candelabri, singole candele scendono, salgono e vagano per l’aria […] in un proliferare di trucchi teatrali [del] mago Alexander». I quattro interpreti hanno il viso dipinto di bianco dei fantasmi e i doppi che appaiono e scompaiono in punti diversi della scena servono a rendere l’immaterialità dei corpi, allo stesso modo del trucco del braccio che li attraversa mentre il coro è una distesa di abiti appesi».

L’atmosfera di magia di Livermore dà così vita all’evanescente drammaturgia di un libretto definito da Giovanni Carlo Ballola «assemblaggio metastasiano rabberciato parte dal semiomonimo melodramma [Demetrio, 1731], parte da L’eroe cinese [1752] e dalla Didone [Didone abbandonata, 1724]». Anche musicalmente l’opera non ha una grande unitarietà di concezione dovuta al fatto che Rossini metteva in musica i brani che la Viganò gli passava di volta in volta senza averne quindi una visione d’insieme.

Solo quattro i personaggi. Lisinga, la parte più difficile, è disimpegnata correttamente da Maria José Moreno, ma niente di più. Qui ci voleva una fuoriclasse. Meno impegnativo il ruolo en travesti di Demetrio-Siveno interpretato da una convincente Victoria Zaytseva. Vocalmente generoso ma piuttosto manierato e dal timbro non piacevole il Demetrio-Eumene di Yijie Shi. Con la sua solita eleganza di emissione Mirco Palazzi come Polibio si dimostra il più aderente alle intenzioni interpretative. L’equilibrio tra scena e buca orchestrale è mantenuto in modo eccellente dalla attenta e sensibile direzione di Corrado Rovaris.

(1) Studi recenti hanno postdatato di 4 anni l’avvenimento.

(2) Non parlerò molto dell’Aureliano in Palmira per la semplice ragione che non l’ho visto.

(3) La folla era enorme. Erano arrivati dai monti della Brianza, da Varese, Bellagio, Lecco, Chiavenna, dalla Tramezzina, da tutte le rive del lago, fino a trenta miglia di distanza.

(4) Non credo di aver mai sentito in maniera più evidente quanto Rossini sia un grande artista. Ne siamo stati soggiogati, questa è la parola giusta. Ogni nuovo pezzo presentava il canto più puro, le melodie più soavi.

(5) Quello che accresceva ulteriormente il fascino di queste melodie sublimi era la grazia e la modestia degli accompagnamenti, se posso dire. Questi canti erano i primi fiori dell’immaginazione di Rossini e avevano tutta la freschezza della mattina della vita.

 

Le Devin du village

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Jean-Jacques Rousseau, Le Devin du village

★★★☆☆

Parigi, Petit Théâtre de la Reine,1 luglio 2017

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La reine s’amuse

Il 19 settembre 1780 nel teatrino che si era fatto costruire al Petit Trianon, Maria Antonietta canta nel ruolo della pastorella Colette ne Le Devin du village, unico lavoro di cui Jean-Jacques Rousseau abbia scritto sia il testo sia la musica – e anche il primo della storia dell’opera francese in cui librettista e compositore sono la stessa persona. Era stato originariamente presentato a Fontainebleau il 18 ottobre 1752.

Questo intermezzo evidenzia le contraddizioni di un intellettuale che appena un anno dopo scriverà nella sua Lettre sur la musique française della superiorità della musica italiana in quanto «il n’y a ni mesure ni mélodie dans la musique française, parce que la langue n’en est pas susceptible; que le chant français n’est qu’un aboiement continuel, insupportable à toute oreille non prévenue; que l’harmonie en est brute, sans expression et sentant uniquement son remplissage d’écolier; que les airs français ne sont point des airs; que le récitatif français n’est point du récitatif. D’où je conclus, que les Français n’ont point de musique et n’en peuvent avoir; ou que si jamais ils en ont une, ce sera tant pis pour eux» (1). Lo stesso Rousseau però nel 1774 scriverà a Gluck dopo aver assitito alle prove della sua Iphigénie en Aulide manifestandogli tutta la sua ammirazione per l’opera appena ascoltata.

Se la rappresentazione a corte fu un successo, le cose andarono altrimenti quando Le Devin du village nel marzo 1753 fu dato al Théâtre du Palais Royal, in un città in preda alla “Querelle des Bouffons”, con i partigiani di Rousseau e di Rameau che si scambiavano invettive durante la rappresentazione. In seguito comunque l’opera ebbe un grande successo rivelandosi come il punto di contatto tra la musica italiana e quella francese: le melodie semplici e naturali, facili da cantare, con un’armonia ben appoggiata alla melodia e con un perfetto accordo tra parole e musica evidenziano l’unità di concezione del lavoro la cui notorietà indusse il dodicenne Mozart a scriverne una parodia, Bastien und Bastienne.

Colin e Colette si amano, ma si sospettano l’un l’altro di infedeltà. Entrambi chiedono consiglio all’indovino del villaggio che, grande conoscitore dei sentimenti umani, con vari espedienti riesce a far riunire felicemente i due amanti.

237 anni dopo, lo spettacolo rivede una seconda volta la scena nello stesso luogo, occasione per aprire al pubblico il delizioso Petit Théâtre de la Reine di Versailles e ammirarne sì la sala, ma soprattutto la scena con i suoi macchinari originali. Distribuiti infatti su cinque piani (di cui due sotterranei e due superiori) pulegge e tamburi con corde di canapa azionano i movimenti orizzontali delle quinte e quelli verticali dei fondali dipinti che in perfetta sincronia permettono sorprendenti cambi di scena, apparizioni di demoni dal basso e dèi che scendono dall’alto su nuvole che si aprono. Tre sono le scene che si sono conservate: il tempio, la foresta e l’interno rustico, tutti perfettamente restaurati e utilizzati per la mise en espace di Caroline Mutel. I costumi sono storicamente riprodotti da Jean-Paul Bouron.

Dei tre interpreti – Caroline Mutel, Cyrille Dubois, Frédéric Caton – il secondo, l’haute-contre che dà voce a Colin, è quello stilisticamente più adeguato. Les Nouveaux Caractères sotto la direzione di Sébastien d’Hérin dipanano le piacevoli melodie mentre le danze della compagnia Les Corps Éloquents si avvalgono dei passi coreografati da Hubert Hazebroucq.

(1) «Nella musica francese mancano la melodia e la misura perché la lingua non è adatta; il canto francese non è che un abbaiamento continuo e insopportabile per un orecchio non avvezzo; l’armonia è rozza, senza espressione e sa di esercizio scolastico; le arie francesi non sono arie; il recitativo francese non è per nulla un recitativo. Da tutto ciò si conclude che i francesi non hanno una loro musica e non la possono avere e che se mai ne avessero una, peggio per loro».

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TEATRO SOCIALE

Teatro Sociale

Como (1813)

900 posti

Nel 2013 vennero festeggiati i duecento anni del Teatro Sociale di Como con la pubblicazione di un fascicolo, reperibile in rete, che narra dettagliatamente la storia di questo insigne monumento. In sintesi, fu nel 1764 che nasceva la Società del Teatro che si attivò per far costruire un teatro in legno nel Broletto che già ospitava un locale alla bisogna, ma era una «ben misera cosa». La nuova struttura fu utilizzata fino al 1808 prima di diventare sede dell’archivio notarile. Come sede per un nuovo teatro il prefetto propose alla Società del Teatro, in cambio della rinuncia ai diritti sul salone del Broletto, un’area di proprietà del Demanio, quella del Castello, del luogo delle Rovine, con la fossa adiacente. Dopo molte discussioni e sotto la presidenza di Alessandro Volta nel 1809 venne firmata la concessione e nel 1811 fu bandito l’appalto per i lavori cui seguì l’abbattimento delle due torri del Castello.

In tre anni l’edificio venne completato con i disegni dell’architetto Luigi Canonica che già aveva steso il progetto del Carcano di Milano. Il teatro visto dall’esterno, con la facciata legata alla più stretta tradizione lombarda e il portico esastilo comprendente i due piani e il timpano culminante, non sembrava preannunciare alcuna novità. Anche la sala era assolutamente consona ai dettami della pianta a ferro di cavallo con tre ordini di palchi e gli immancabili camerini, il loggione e ben quattro sale di ridotto. Stando ai documenti dell’epoca, tanto l’interno fece prorompere il pubblico in esclamazioni d’entusiasmo, tanto l’esterno lasciò scettica buona parte degli osservatori.

Nell’anno in cui nascevano Verdi e Wagner veniva dunque inaugurato il teatro il 28 agosto con il metastasiano Adriano in Siria, musica di Marco Antonio Fousera Portugal, cui seguì Li pretendenti delusi, dramma buffo di Giuseppe Mosca, e poi ancora un balletto e una pantomima. La stagione continuò col Demetrio e Polibio di Rossini di cui rese conto Stendhal nel IX capitolo della sua Vie de Rossini. Sull’architettura del teatro il Foscolo scrisse una lettera molto critica firmata Didimo Chierico apparsa sul “Giornale del Lario” il giorno stesso della sua inaugurazione.

Nel 1819 il teatro ospitò una rappresentazione della Cenerentola di Rossini e successi-vamente si esibirono al Sociale di Como Paganini, che soggiornava a Cernobbio, e Liszt, che stava a Bellagio. Nel 1855 la capienza del teatro venne aumentata di 38 nuovi palchi con la costruzione di un quarto ordine e di un loggione al quinto; vennero rifatte le pitture e fu ridecorata la volta del teatro. Nel 1892 arrivava l’illuminazione elettrica. Nel 1984 il teatro chiude per restauri, ma riapre quattro anni dopo. Dal 2002 la gestione del Sociale è passata all’As.Li.Co. di Milano rimanendo la Società dei Palchettisti proprietaria dell’immobile.

Trittico

Giacomo Puccini, Trittico

★★★☆☆

Monaco, Nationaltheater, 23 dicembre 2017

(video streaming)

Il tunnel della morte del Trittico di Monaco

Sempre più spesso i registi contemporanei cercano di unificare drammaturgicamente i tre atti unici che Puccini volle unire in una serata con tre storie appartenenti a una cronologia invertita: prima la contemporaneità (quella dell’autore), poi un salto di trecento anni nell’epoca barocca e poi ancora indietro nel tempo fino al Medioevo. Al momento sembra che forse solo Michieletto sia riuscito nell’impresa con la sua produzione al Costanzi nel 2016.

Ora ci riprova la regista tedesca Lotte de Beer nella cui messa in scena alla Bayerische Staatsoper di Monaco una specie di tunnel, scenografia unica di Berhard Hammer, se funziona per l’atmosfera opprimente e claustrofobica del Tabarro (anche se sembra non di trovarsi sulla Senna bensì sotto, in uno dei cunicoli degli égouts parigini), funziona meno bene nel convento di Suor Angelica in cui le monache quasi si pestano i piedi per mancanza di spazio, e ancora meno nello Schicchi.

Il tabarro inizia con il funerale del piccolo della misera coppia: anche qui la morte di un bambino tortura la psiche di una donna, Giorgetta, che trasale quando tra gli stracci raccolti dalla Frugola vede un golfino da neonato. La chiatta qui è un tunnel invaso dai fumi e dalle nebbie che lasciano però intravedere le coppie di amanti che si appartano sulla riva del fiume. Gran colpo di scena è il finale: una sezione del condotto ruota su sé stessa e il corpo di Luigi, prima steso per terra, ora pende come un impiccato. Senza soluzione di continuità attacca la seconda parte con lo stesso funerale dell’inizio che ora trasporta nel silenzio un altro feretro, il figlio della colpa di Suor Angelica. La scena dei diseredati sulla Senna si svuota, Michele e Giorgetta escono ed entrano le bianche figure delle suore; una giovane raccoglie da terra i capelli che le hanno tagliato e sullo scalpo sono ben visibili le ferite dovute alla maldestra tonsura. Il chiacchiericcio delle monache prende un colore sinistro e quasi minaccioso sotto le luci livide di Alex Brok e anche qui nel finale il fondo, con una croce al neon e il bambino, si mette a ruotare, ma questa volta si poteva evitare. Così termina anche questa parte e lo spettacolo potrebbe finire qui dopo aver raggiunto una grande intensità. E invece dopo l’intervallo parte Gianni Schicchi con il solito funerale e la solita la rotazione. Con costumi e ambientazione d’epoca, la lettura da greve farsa con liquidi e solidi organici assortiti (tra cui sangue, sudore, vomito ed escrementi) e una recitazione marcata rendono quasi insopportabile quello che dovrebbe essere un graffiante saggio di humour nero. Alla fine durante la tirata di Schicchi entrano in scena tutti i personaggi delle tre opere a marcare la finzione teatrale cui abbiamo assistito.

All’ascolto via internet è risultata evidente la sublime qualità della direzione di Kirill Petrenko, impressione confermata da chi ha assistito di persona alla rappresentazione, come Alberto Mattioli che scrive: «per Petrenko la modernità novecentesca di Puccini non è un risultato da ottenere una volta sbarazzato il campo dai puccinismo melenso, sentimentale e meramente melodico di certa (cattiva) tradizione: è del tutto naturale. Per lui, il raffinato sinfonismo di Puccini è il punto di partenza, non di arrivo. E da lì inizia a modellare, per ognuna delle tre opere, un suono diverso, facendoci sentire quanto moderno e “internazionale” sia Puccini. Allora capita che la fisarmonica del Tabarro non suoni meno stralunata e allucinata delle orchestrine del Wozzeck; che Suor Angelica muoia in un disfarsi di sonorità diafane degne del Pelléas (e con un “Senza mamma”, per inciso, che è una marcia funebre da brividi, non patetica ma raccapricciante); che i vorticosi concertati del Gianni Schicchi assumano i colori acidi e pungenti del Novecento più surreale, fra Prokof’ev e Stravinskij. Poi […] c’è il teatro. Molto più che sull’agogica o sulla dinamica, in fin dei conti entrambe “tradizionali”, benché calcolate al millimetro, Petrenko racconta con il timbro orchestrale. Tutta la prima parte del Tabarro dipinge una Senna così icasticamente torbida, grigia e dolente che pare di vederla. Su Suor Angelica, Petrenko stende un velo funereo, mortifero perfino nella pericolosa dolcezza dei cicalecci delle suore. E tuttavia il suo non è un Puccini intellettualistico o anaffettivo. Quando nella sghemba romanza del tenore dello Schicchi si ascolta il tema di “O mio babbino caro”, in buca entra il sole e l’orchestra diventa di colpo brillante, morbida, italianissima».

Gli interpreti sono validi, ma senza punte di eccellenza. Eva-Maria Westbroek era già stata Giorgetta nel Trittico londinese di Pappano e conferma l’impressione di una vocalità un po’ rigida, Wolfgang Koch è un Michele dimesso dalla dizione tutt’altro che perfetta, sul Luigi di Yonghoon Lee ribadisco il giudizio negativo già formulato per altre sue performance, quello cioè di uno strumento vocale generoso ma usato per effetti ed effettacci insopportabilmente sopra le righe. Anche Ermonela Jaho aveva partecipato come Suor Angelica nel suddetto Trittico allestito da Richard Jones. Ritroviamo qui la stessa intensità espressiva, ma stavolta se la deve vedere nello scontro qui fisico con la zia principessa di Michaela Schuster, magnifica attrice che si dimostra incerta tra la severità e la pietà per la povera giovane e il dolore, sia fisico che psicologico, che la affligge. La stessa Schuster è invece impacciata nello Schicchi, ma qui come già detto è tutto l’impianto a scricchiolare e quasi nessuno degli interpreti convince, se non il pacioso Schicchi di Ambrogio Maestri, tra i pochi italiani del cast. Rosa Feola è una corretta Lauretta mentre il suo Rinuccio nella recita trasmessa in video è rimasto afono: Pavol Breslik ha perso la voce nel pomeriggio e sta in scena mimando la parte mentre il volenteroso giovane tenore della produzione alternativa da dietro le quinte gli presta la voce in una sorta di playback.

Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★★☆

Parigi, Théâtre des Champs-Élysées, 16 dicembre 2017

(live streaming)

Il barbiere di Parigi, spettacolo elegante e geniale

La concorrenza tra i teatri lirici di Parigi è una cosa che molte città si sognano: a parte Vienna e Berlino nessun’altra ha un tale numero di sale che offrano l’opera. Il Théâtre des Champs-Élysées è uno di questi, con una programmazione che tiene validamente testa alla più blasonata Opéra National e questo Barbiere di Siviglia è l’occasione per sentire interpretato dal giovane e ormai ampiamente affermato Jérémie Rhorer un titolo che al di qua delle Alpi rischia di essere inflazionato mentre al di là non sembra così popolare per un pubblico che infatti applaude nei momenti sbagliati.

La critica francese non ha apprezzato molto l’allestimento minimalista di Laurent Pelly, che cura anche scene e costumi. Come nel suo Don Quichotte, enormi fogli di musica formano la scenografia. Non molto di più si vedrà e ogni oggetto in scena sarà caratterizzato dal motivo dei pentagrammi vuoti. Niente Siviglia, nessun elemento realistico (unici elementi iberici i copricapi da Guardia Civil dei coristi, che invece dei fucili sono armati di leggii), tutto è giocato sulla monocromia di una scenografia forse troppo stilizzata compensata però dall’abilità di Pelly a dar significato ad ogni segno musicale con particolari arguti e ben realizzati come sempre. Come quando i righi diventano le sbarre che ingabbiano l’insofferente ragazza, o le note nere che piovono durante il temporale o come quando dopo la scena della lezione l’intera parete di fondo, che rappresentava una pagina de L’inutil precauzione, si chiude con pianoforte e sgabello come un libro pop-up.

A capo dell’orchestra di strumenti d’epoca de Le Cercle de l’Harmonie Jérémie Rhorer imposta tempi vivaci e cura particolarmente l’aspetto timbrico della partitura come nella pagina orchestrale del temporale punteggiata dall’intervento coloristico degli strumenti. La sua è una lettura molto fresca e stimolante di una musica che ogni volta sorprende per la sua genialità.

Michele Angelini è un Lindoro/Almaviva di bella presenza scenica e sicuri acuti, a suo agio nelle agilità e nelle variazioni con cui infarcisce il suo lungo intervento finale che in quel momento lo fa diventare protagonista assoluto tra l’impazienza del Figaro trucido, capelli a treccia e note tatuate sulle braccia, di Florian Sempey, lo stesso Figaro che era passato inosservato in quel bailamme del Barbiere di Livermore. La Rosina di Catherine Trottmann, che sostituisce l’originariamente prevista Kate Lindsey, è un mezzosoprano dalla voce poco timbrata e monocorde, fisicamente minuta ma scenicamente vivace. Qualche piccola difficoltà con la lingua ma vocalmente eccellenti e attori strepitosi sono il Bartolo di Péter Kálmán e soprattutto il Basilio di Robert Gleadow. Anche Annunziata Vestri come Berta si dimostra formidabile caratterista.

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L’Ottocento

Elvio Giudici, L’Ottocento, Volume primo

2017 Il Saggiatore, 1300 pagine

Prosegue l’opera del Giudici e il numero di pagine cresce in maniera esponenziale: sono 1300 solo per la prima parte di questo tomo dedicato all’Ottocento. Tolti Verdi e Wagner, che costituiranno l’ossatura della seconda parte, il volume analizza i DVD degli autori che caratterizzano il XIX secolo musicale, da Vincenzo Bellini a Carl Maria von Weber.

Questo è il secolo in cui si affermano le identità nazionali alle quali contribuiscono compositori e platee, e ogni paese scandisce sul palcoscenico le proprie declinazione artistiche: il gusto per la decorazione proprio degli italiani, l’innegabile tendenza a pontificare dei francesi, l’arte del racconto degli inglesi, lo scavo psicologico dei tedeschi. Diversamente dal Settecento, il secolo del Classicismo, «un territorio comune i compositori dell’Ottocento non l’hanno. L’unico sul quale possono convivere è quello che accomuna chiunque abbia scritto per il teatro: il teatro, appunto. Forma artistica multiforme nella quale tuttavia elemento primario è sempre stato il rappresentare una vicenda reale al fine di evidenziare taluni concetti o sentimenti. Ed è proprio nel modo di raccontare che ogni epoca teatrale esprime la sua più rilevante autonomia: sulla volontà ed eventuale capacità di creare personaggi provvisti d’un loro autonomo profilo psicologico, da immergere poi in un contesto qualsivoglia (sociale, politico, più in generale storico) nel quale possano meglio definirsi ed evolversi grazie alle relazioni reciproche. L’Ottocento è appunto il secolo nel quale più inizia di classificarsi il modo di “far teatro”: con ulteriori  significative ramificazione nell’ambito di ciascuna identità nazionale, giacché essa connota in misura sempre più riconoscibile una propria sensibilità nell’impostare un modulo narrativo nonché di confrontarsi con quelli che eventualmente provengano da fuori».

 ⸪

La bohème

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Giacomo Puccini, La bohème

★★★☆☆

Parigi, Opéra Bastille, 12 dicembre 2017

(video streaming)

2017 bohème nello spazio

«C’è freddo fuori» dice Rodolfo a Mimì. Sì, un freddo siderale.

Chi avrebbe mai pensato che un’opera così circoscritta e definita nell’ambiente e nel tempo come La bohème potesse essere ambientata al di fuori di una soffitta parigina di artisti poveri in canna e – se non proprio negli anni ’50 dell’Ottocento di Murger – ben al di là dell’epoca in cui è stata concepita? Eppure qualcuno l’ha fatto (1), come Michieletto che nel 2012 trasportava la vicenda nella banlieu parigina dei nostri giorni. Ma ora Claus Guth fa un salto spaziale e temporale ancora maggiore. E spaziale in tutti i sensi diventa l’ambientazione nel suo nuovo allestimento all’Opéra National del lavoro pucciniano.

Come dice il regista – ma lo diceva già Fedele d’Amico – perché non osservare il capolavoro pucciniano da una distanza paragonabile a quella dei suoi personaggi che, come nel romanzo di Murger, si rivedono, ormai anziani, nel ricordo della loro giovinezza? Ed eccoci allora su un’astronave alla deriva attorno a un pianeta. Le risorse si stanno esaurendo e Rodolfo delira non per la fame e il freddo, ma per la mancanza di ossigeno; ha allucinazioni e rivive l’incontro con Mimì che ricompare scalza nel suo vestitino rosso a chiedere d’accendere la candela che si è spenta mentre saliva nella sua cameretta. La citazione di Murger si mescola a un tributo ai film di fantascienza, in particolar modo a Solaris diretto nel 1972 da Andrej Tarkovskij.

Ed ecco che a bordo dell’astronave appaiono il pittore Marcello, il musicista Schaunard e il filosofo Colline a raggiungere il poeta lacerato dai ricordi. La scena dell’arrivo del padrone di casa a incassare la pigione è un momento di humor macabro e di kitsch quasi mai visti in scena: Benoît è un cadavere sballottato da tutte le parti e le sue battute sono cantate a turno dai quattro burloni. Non sarà da meno il finale con quella tenda luccicante da cui escono ed entrano i personaggi diretti da un maestro di cerimonie che ricorda quello del film Cabaret. Il primo incontro con Mimì nella soffitta parigina è rievocato dall’astronauta Rodolfo sotto l’incombente immagine del pianeta ostile, poi il giovane si sdoppia nel poeta che, muto, accompagna la gaia fioraia chez Momus, un bar non molto diverso da quello di Star Wars. Qui Parpignol è un Pierrot Lunaire circondato da una folla di acrobati e alla fine del quadro, accompagnato dalla chiassosa marcia della banda militare, tra i tavolini del caffè si snoda lo struggente corteo funebre della giovane.

Dopo l’intervallo nella sala dell’Opéra Bastille sonore disapprovazioni di parte del pubblico accolgono la scena lunare del terzo quadro, con gli astronauti negli scafandri e alla fine sarà la morte di Rodolfo a porre fine all’opera: con la sua hanno fine anche i ricordi.

La ferrea logica di un konzept neanche tanto ardito e immagini di stupefacente bellezza non sono bastate infatti a convincere del tutto gli spettatori, ma la musica ha salvato la serata e il sor Giacomo ha ancora una volta fatto il miracolo di commuovere gli astanti. Merito anche degli esecutori, primo fra tutti Gustavo Dudamel al suo debutto parigino il quale, nonostante le bizzarrie sceniche e i lunghi intervalli di silenzio in cui scorrono le scritte del diario di bordo di Rodolfo, ha saputo mantenere l’emozione con una lettura attenta e intensa. La stessa che era stata ammirata due anni fa alla Scala nella versione Zeffirelli. (2)

Alla recita trasmessa in streaming gli interpreti principali erano Nicole Car e Atalla Ayan, due giovani dal bel timbro e dalla vocalità generosa seppure non sempre a loro agio negli acuti. Più autorevoli il Marcello di Artur Ruciński, lo Schaunard di Alessio Arduini e soprattutto il Colline di Roberto Tagliavini nel suo applaudito intervento in «Vecchia zimarra». Musetta di gran lusso quella di Aida Garifullina.

Chi volesse verificare dal vivo ne ha la possibilità: ci sono ancora alcune rappresentazioni da qui alla fine dell’anno e la sala della Bastille è tutt’altro che piena, cosa rara nella ville lumière.

(1) Ken Russell fece scandalo con la sua Bohème  del luglio 1984 allo Sferisterio di Macerata. Così Baz Luhrman a Sydney nel febbraio 1993, produzione che arrivò anche a Broadway. Senza dimenticare La bohème nel condominio della televisione svizzera del 2009.

(2) Ecco cosa scrisse allora bachtrack: «Dudamel crouches low like a leopard, ready to pounce on the score’s fast-changing permutations. Vital and enterprising, he steers the sound spectrum towards ochre hues and blistering combustion. The maestro’s ardour goes well […] and there is sensitivity to match, his indulgent rallentandi wrapping around the singers. […] Dudamel slows heartbeats with lugubrious gestures, summoning a glittering plume that sends shudders down the spine».

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La bottega del caffè

Rainer Werner Fassbinder da Carlo Goldoni, La bottega del caffè

regia di Veronica Cruciani

Genova, Teatro della Corte, 17 dicembre 2017

Goldoni riletto da Fassbinder

Il titolo più esatto della commedia che Goldoni presenta nel 1750 a Mantova sarebbe forse La bottega della biscazza poiché è a causa di questa sala da gioco – che assieme alla bottega del caffè e a quella del barbiere si affaccia su una piazzetta veneziana – che si dipanano gli avvenimenti che legano l’incallito giocatore Eugenio, il biscazziere Pandolfo, quella malalingua di don Marzio e il caffettiere Rinaldo, l’unico onest’uomo che tenta di salvare l’amico dal tavolo del gioco.

Riscritto nel 1969 Das Kaffeehaus già svela l’attenzione del drammaturgo tedesco per quel mondo cupo dei disperati che sarà oggetto delle sue opere. Nelle parole di Marcantonio Lucidi «La distanza fra La bottega del caffè di Goldoni e la riscrittura di Rainer Werner Fassbinder sta nella disperazione. Goldoni è un entomologo che osserva con una freddezza sardonica molto settecentesca l’insetto umano; Fassbinder è un moralista che mette in scena con angoscia un’antropologia distruttiva».

La locanda e la “casa della ballerina” completano questo microcosmo goldoniano, ma nell’allestimento di Veronica Cruciani di questa rilettura di Fassbinder la scena unica di Barbara Bessi, che cura anche i costumi, propone una Venezia di oggi dove tutto è dettato dall’incessante bisogno di denaro ossessivamente calcolato in zecchini, dollari, sterline ed euro. Scrive la regista: «Il lavoro della regia come per tutti gli altri elementi dello spettacolo, sottolinea l’andamento drammaturgico del testo di Fassbinder: un graduale, lento, inesorabile smascheramento di un’apparente situazione iniziale di festa e svago, che si rivela sempre di più per quello che è veramente, ovverosia l’immagine nuda e crudele dell’incontro/scontro di un gruppo di persone guidate dalla brama di denaro e potere. Un’immagine nuda come la scena, che si staglia su una superficie aperta, astratta, e che evoca soltanto una Venezia contemporanea dove il presente e il passato dialogano in continuazione, nelle architetture, nei costumi, nelle ambientazioni».

La recitazione ripropone la scrittura fassbinderiana e il suo Anti-Teatro con le ruvide crudezze che si ritrovano nelle sue numerose opere cinematografiche.

La serva padrona

★★☆☆☆

Da Pergolesi a Paisiello. Lo strano ménage di Uberto e Serpina

Intermezzo che Giovanni Paisiello musicò riprendendo l’opera omonima di Giovanni Battista Pergolesi composta nel 1733, La serva padrona andò in scena presso la corte dell’imperatrice russa Caterina la Grande a Carskoe Selo, San Pietroburgo, dove si trovava Paisiello nel 1781. Nella difficoltà di reperire adeguati libretti di opera buffa da musicare, genere particolarmente gradito dalla regnante, in occasione dell’onomastico del granduca Alessandro, che all’epoca aveva quattro anni, Paisiello riprese il libretto di Gennaro Antonio Federico a cui aggiunse una nuova aria per la protagonista e due duetti, tutti confluiti nella seconda parte. Non si sa chi sia l’autore dell’ampliamento del testo, ma è probabile che sia stato ripreso del materiale già scritto. In un caso l’aria “Donne vaghe, i studi nostri” riprende Le virtuose ridicole di Goldoni e Galuppi del 1752.

Se Pergolesi scrisse la parte musicale per soli archi, Paisiello fa invece largo impiego di strumenti a fiato: flauti, oboi, clarinetti, fagotti e corni, sempre in coppia.

Il ricco e attempato Uberto ha al suo servizio la giovane e furba Serpina che, con il suo carattere prepotente, approfitta della bontà del suo padrone. Uberto, per darle una lezione, le dice di voler prendere moglie: Serpina gli chiede di sposarla, ma lui, anche se è molto interessato, rifiuta. Per farlo ingelosire Serpina gli dice di aver trovato marito, un certo capitan Tempesta, che in realtà è l’altro servo, Vespone, travestito da soldato. Serpina chiede a Uberto una dote di 4000 scudi, ma egli, pur di non pagare, sposerà Serpina, la quale da serva diventa finalmente padrona.

«La condotta stilistica è ovviamente diversa da quella del lontano precedente pergolesiano; il segno nervoso di Pergolesi cede il passo a una cantabilità facile e distesa, a un fraseggio più ampio e simmetrico. Lo scarto stilistico è evidente anche nei confronti della prima maniera paisielliana, poiché di fronte al pubblico della corte imperiale il musicista rinuncia a una comicità eccessivamente chiassosa e caricata, a quel carattere “trop napolitain” che gli era stato attribuito da Galiani in una lettera a Madame d’Epanay del 1773. Le baruffe dei due personaggi sono perciò finemente stilizzate; nella figura di Serpina la sensualità prevale sull’aggressività pergolesiana, trovando piena espressione nel brano più esteso dell’opera, la già citata aria (“Donne vaghe”), in forma di rondò: uno dei pezzi dell’opera buffa italiana che maggiormente tradisce la comunanza di linguaggio con Mozart». (Francesco Blanchetti)

Con un lungo e abbastanza inutile prologo e un congedo scritti da Piero Rattalino, nell’aprile 2004 al teatro Sangiorgi di Catania viene messo in scena questo intermezzo di raro ascolto. L’orchestra del Teatro Massimo Bellini è diretta da Marco Zuccarini con risultati modesti. Tiziano Bracci e Gabriella Colecchia sono i due interpreti, Uberto vocalmente meglio di Serpina, mentre un Vespone anche troppo invadente è quello di Gianni Salvo, che è anche regista.

Allestimento volenteroso e ripresa poco più che amatoriale per una curiosità che aggiunge un altro piccolo tassello alla nostra conoscenza del Settecento musicale italiano.

La damnation de Faust

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Hector Berlioz, La damnation de Faust

★★★☆☆

Roma, Teatro dell’Opera, 12 dicembre 2017

Michieletto divide il pubblico dell’Opera di Roma

Ad appena cinque giorni da quello di Milano, un altro evento mondano accende i riflettori sull’opera lirica in Italia: questa volta è l’inaugurazione della stagione romana con quel lavoro di Berlioz che per molto tempo è stato considerato irrappresentabile, ma che invece, proprio per la sua mancanza di drammaturgia tradizionale, negli ultimi anni ha stimolato molti moderni metteurs en scène per la libertà che offre. Così si è avuta, tra le tante, la Damnation filosofica de La Fura dels Baus, quella da Terzo Reich di Terry Gilliam o quella fantascientifica di Alvis Hermanis, per citarne solo tre. Ora è la volta di quella “esistenziale” di Damiano Michieletto al Teatro Costanzi.

La libertà che Berlioz si era preso con Goethe, se la prende Michieletto con Berlioz, cambiando la vicenda: il suo Faust è uno studente di oggi vittima di bullismo, non un vecchio che anela alla gioventù ma un giovane che soffre la solitudine in un mondo ostile, il cui padre è un vecchio alcolizzato e che per la disperazione arriva al suicidio se non fosse fermato all’ultimo istante dal ricordo della madre morta. Ed è qui che Mefistofele entra nella vita di Faust, da cui si sente sotto sotto, ma neanche tanto sotto, attratto. Il diavolo ha qui la figura sorniona di un Alex Esposito che veste un ruolo tenendosi ben lontano dalla frusta iconografia della vecchia tradizione: ora in completo bianco e stivali di coccodrillo stile cafonal, ora in maschera da serpente tentatore in un eden di cartapesta finto ma ricco di rimandi pittorici “alti”.

Come è discontinua la scrittura di questa légende dramatique, affidata a quadri che hanno poca consequenzialità logica o temporale, così è discontinua e contradditoria la lettura di Michieletto, a cominciare dal controsenso di mettere il coro in alto su una gradinata che sovrasta la scena in una immobilità da oratorio come per un’esecuzione concertistica. Il coro ne La damnation de Faust è uno dei personaggi più dinamici di quest’opera e averlo messo fuori scena è un azzardo che porta il suo spettacolo a essere meno convincente del solito.

Un solo letto e pochi altri oggetti fanno parte della scenografia di Paolo Fantin che si esprime soprattutto con il gioco di luci accecanti degli ambienti che si aprono dietro due grandi pareti scorrevoli. Queste incorniciano lo schermo su cui si proiettano le immagini riprese da una steadycam di un per lo più ipercinetico Mefistofele. La critica di Michieletto a un certo uso delle immagini è evidente quando la scena di crudele bullismo, con la straniante colonna sonora della “marcia ungherese”, viene ripresa dai telefonini degli spietati compagni per poi diventare probabile oggetto di ulteriore scherno sulla rete.

Michieletto qui propone scene non proprio inedite e già viste altre volte, come i personaggi bambini con gli stessi abiti o i liquidi con cui cospargersi il corpo – di quello nero e vischioso aveva già fatto largamente uso Romeo Castellucci nel suo Moses und Aron, ma là rappresentava il petrolio, mentre qui non ha un ruolo chiaramente definito. Un certo gusto macabro del regista è evidenziato dalla bara che entra in scena all’inizio: Faust vi guarda dentro con raccapriccio e capiremo solo alla fine trattarsi, forse, del suo cadavere poiché Margherita è l’unica che risulti sopravvissuta, se non è invece il suo fantasma quello che vediamo. I forse e i se sono dovuti al fatto che molte delle scelte registiche qui risultano piuttosto vaghe, tra cui quella di Margherita che probabilmente è un parto della fantasia di Faust o un trucco di Mefistofele, chissà. Tant’è che a un certo punto Mefistofele si sostituirà a lei in un lungo e dettagliato bacio con Faust. Oppure quando ci saranno più Margherite in una scena di seduzione.

Sul piano musicale, da quel che si può intendere da una ripresa televisiva, Daniele Gatti enfatizza la lettura sinfonica del lavoro mettendo in luce gli aspetti visionari di una partitura tra le più utopiche della prima metà dell’Ottocento e che ancora oggi fa sembrare di grande modernità quest’opera di Berlioz. Mentre è evidente il buon risultato con l’orchestra, molto meno lo è quello con il coro: nascosto lassù in alto e comodamente seduto, era nella situazione più adatta per dare il meglio e invece la sua prestazione è stata del tutto deludente in quanto a dizione, precisione ed espressività con alcuni evidenti sbandamenti sonori.

In scena Alex Esposito dimostra la padronanza vocale e attoriale di cui sapevamo, ma qui nel personaggio di Mefistofele tocca i vertici: la lingua francese non è un ostacolo per l’incisività con cui il basso articola la parola e la rende espressiva pur in una sempre presente grande musicalità con un legato e un fraseggio magistrali. La stessa cosa non accade invece per il Faust di Pavel Černoch che si esibisce in una dizione manchevole e mostra difficoltà nel registro acuto che risulta flebile. Assieme a una certa mancanza di espressività si evidenzia il fatto che il tenore moravo forse non è nel suo ruolo più congeniale. Problemi di intonazione sono invece quelli della Margherita di Veronica Simeoni soprattutto nella sua “romanza” «D’amour l’ardente flamme» con cui inizia la quarta parte dell’opera.

Diviso il pubblico della prima: a sonori dissensi verso la regia si sono affiancati altrettanto sonori segnali di compiacimento. Essendo coprodotto col Regio di Torino e il Palau di Valencia ci sarà la possibilità di rivederlo un’altra volta. Chissà se saranno confermate le impressioni iniziali.

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