Gennaro Antonio Federico

La serva padrona

Jean-Étienne Liotard, La belle chocolatière, 1743

Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona

★★★★☆

Torino, Cortile dell’Arsenale, 17 luglio 2021

Pergolesi insaporisce la stagione estiva del Regio

C’è un teatro in Italia che ha passato un momento ancora più difficile degli altri: oltre ai devastanti effetti della pandemia che conosciamo, il Regio ha visto un commissariamento straordinario per cercare di risolvere la sua difficile crisi finanziaria e ora che le sale aprono al pubblico, seppure con cautela, quella torinese deve chiudere per improrogabili lavori di adeguamento e rinnovamento del suo impianto scenico.

Si vorrebbe citare la proverbiale caparbietà subalpina – se non fosse che la commissaria che fa le veci di sovrintendente e il direttore artistico provengono una dal sud Italia e l’altro dalla Germania del nord… – nel fatto che pur in questa condizione si riesca a mettere assieme una miracolosa stagione estiva per non privare il pubblico torinese del teatro dal vivo e degli stimoli culturali, come recita il titolo della rassegna: «Regio Opera Festival. A difesa della Cultura».

Lo splendido cortile del Palazzo dell’Arsenale è messo generosamente a disposizione dal Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito e la prestigiosa location diventa la sede per le rappresentazioni all’aperto. Tra i titoli scelti, necessariamente popolari e di richiamo per un pubblico che si vorrebbe il più vasto possibile, Sebastian Schwarz è riuscito a inserire due chicche settecentesche di grande interesse: la prima, più nota, è La serva padrona di Pergolesi, la seconda, molto meno nota, è il Pimpinone nella intonazione di Georg Philipp Telemann – due “intermezzi”.

Se l’opera barocca secentesca conteneva sia l’elemento serio sia quello comico – si pensi ai lavori di Cavalli o all’ultimo Monteverdi – il gusto del Settecento preferisce invece separare i due momenti e quello comico è relegato tra il primo e il secondo atto e tra il secondo e il terzo delle opere serie. Nascono così gli intermezzi, generalmente in due parti, per alleviare la tensione del dramma e tenere occupato negli intervalli il rumoroso pubblico che affolla i teatri dell’epoca. Il genere è caratterizzato da una coppia di cantanti-attori, assenza o quasi di scenografia, talora addirittura davanti al sipario, come si farà due secoli dopo negli intermezzi comici del teatro di varietà nostrano. Se all’inizio i personaggi parodiavano quelli della storia principale, dal 1725 cominciano a sviluppare una vicenda del tutto autonoma facendo diventare l’intermezzo una breve opera comica a sé stante.

Pochissimi intermezzi sono arrivati a noi: non erano considerati degni di essere inseriti nella partitura dell’opera seria e quindi sono andati persi. Non La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, che non solo divenne l’archetipo del genere, ma farà furore quando alcuni anni dopo verrà portata in Francia dove innescherà l’accesa querelle des bouffons. Nel 1752 era infatti successo che il lavoro di Pergolesi fosse allestito contemporaneamente all’Acis et Galatée, la “pastorale eroïque” di Jean-Baptiste Lully del 1686, suscitando le polemiche tra due avverse fazioni: quella del “coin du roi” a sostegno della supremazia della musica francese, e quella del “coin de la reine” a sostegno invece della musica italiana, ammirata per la piacevolezza e semplicità dell’invenzione melodica in contrapposizione alla complessità e artificiosità della musica di Lully. Rameau e Rousseau furono tra le maggiori figure a schierarsi nelle rispettive opposte fazioni. Solo l’intervento di Louis XV nel 1754 mise fine alla interminabile serie di libelli e lettere polemiche, mettendo tout court al bando dai teatri francesi i bouffons italiani.

La serva padrona era nata come intermezzo in due parti per i tre atti de Il prigionier superbo dello stesso Pergolesi, presentato al San Bartolomeo di Napoli il 28 agosto 1733. La vicenda è quella eterna e intramontabile del vecchio e ricco padrone innamorato della servetta giovane. Uberto, il protagonista maschile, è sulla scia dei vari Pantaleone, Balanzone, Don Pomponio, Don Corbolone ecc. che l’avevano preceduto e del Don Pasquale donizettiano che lo seguirà un secolo dopo. E lo stesso è per Serpina, la protagonista femminile, e delle sue alter-ego Vespetta, Vespina, Serpilla ecc. e della futura Serpetta mozartiana (La finta giardiniera), la serva furba che sfrutta arguzia e sex appeal per diventare moglie del vecchio e quindi padrona.

Il libretto di Gennaro Antonio (Gennarantonio) Federico, lo stesso autore de La Salustia (la prima opera seria di Pergolesi) e de Lo frate ‘nnamorato, ebbe come modello l’omonima commedia di Pier Jacopo Nelli che, sfoltita delle situazioni da Commedia dell’Arte, diventò lo snello testo in cui la caratterizzazione psicologica trovava un efficace risultato grazie alla  musica di Pergolesi.

Musica che viene proposta dall’orchestra del teatro sotto la direzione di Giulio Laguzzi e l’accompagnamento al cembalo di Carlo Caputo. Lontano dalla secchezza di suono e dalla frenesia ritmica a cui ci hanno abituato certe esecuzioni “storicamente informate”, il maestro concertatore fornisce qui una lettura complessivamente corretta sui cui equilibri sonori non è agevole fornire un fondato giudizio data l’acustica non ottimale del cortile all’aperto e l’utilizzo della amplificazione. Più agevole quello sugli interpreti in scena, cantanti/attori di grande esperienza. Su Marco Filippo Romano si va sul sicuro: è forse il miglior baritono buffo che abbiamo ora in Italia e il suo Uberto ha pochi rivali per musicalità, pienezza vocale, limpidezza di fraseggio e un’intelligente vis comica che non si affida alle gag ma alle situazioni drammaturgiche per esprimere quell’umorismo che è la quint’essenza degli intermezzi dell’opera italiana. Un umorismo qui venato di tenerezza nel recitativo che precede l’aria «Son imbrogliato io già» quando parla tra sé e sé ammettendo che «per altro io penserei… ma… ella è serva… ma… il primo non saresti…» e già si capisce che capitolerà. Anche Serpina trova in Francesca di Sauro un’interprete validissima. Lontano dal ruolo di soubrettina dalla voce petulante, il mezzosoprano sfodera un timbro piacevole, una voce di grande proiezione e una verve irresistibile. Nel passaggio dalla frizzante e punzecchiante aria «Stizzoso, mio stizzoso» a quella astuta e venata di finta malinconia «A Serpina penserete» con gli a parte rivolti al pubblico «Ei mi par che già pian piano | s’incomincia a intenerir», la cantante napoletana costruisce con molta efficacia il suo personaggio. Pregevoli sono per entrambi gli interpreti i da capo con sapide e stilisticamente giuste variazioni. Anche il ruolo muto di Vespone viene ben messo in evidenza dall’attore Pietro Pignatelli con movenze e maschera da commedia dell’arte, il quale però alla fine dell’Intermezzo I la maschera se la toglie e intona con nostalgia un’antica canzone popolare napoletana strumentata per l’occasione. Una sorpresa molto gradevole che sottolinea l’atmosfera napoletana di questa Serva padrona servita in un italiano impeccabile.

Con l’attenta e sobria regia di Mariano Bauduin, lo spettacolo si avvale della semplice scenografia di Claudia Boasso: uno schermo traforato, che rappresenta lo schema prospettico della sala di un teatro all’italiana col boccascena e le fughe di palchi, e un fondale dipinto con un interno rococò, qui della palazzina di Stupinigi – giusto omaggio alla città. I costumi settecenteschi come al solito perfetti ed eleganti di Laura Viglione e il suggestivo gioco luci di Andrea Anfossi completano l’aspetto visivo di uno spettacolo che è stato molto gradito dal folto pubblico accorso.

La settimana prossima si raddoppia con un altro intermezzo: il Pimpinone di Telemann, con i medesimi interpreti.

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La serva padrona

★★☆☆☆

Da Pergolesi a Paisiello. Lo strano ménage di Uberto e Serpina

Intermezzo che Giovanni Paisiello musicò riprendendo l’opera omonima di Giovanni Battista Pergolesi composta nel 1733, La serva padrona andò in scena presso la corte dell’imperatrice russa Caterina la Grande a Carskoe Selo, San Pietroburgo, dove si trovava Paisiello nel 1781. Nella difficoltà di reperire adeguati libretti di opera buffa da musicare, genere particolarmente gradito dalla regnante, in occasione dell’onomastico del granduca Alessandro, che all’epoca aveva quattro anni, Paisiello riprese il libretto di Gennaro Antonio Federico a cui aggiunse una nuova aria per la protagonista e due duetti, tutti confluiti nella seconda parte. Non si sa chi sia l’autore dell’ampliamento del testo, ma è probabile che sia stato ripreso del materiale già scritto. In un caso l’aria “Donne vaghe, i studi nostri” riprende Le virtuose ridicole di Goldoni e Galuppi del 1752.

Se Pergolesi scrisse la parte musicale per soli archi, Paisiello fa invece largo impiego di strumenti a fiato: flauti, oboi, clarinetti, fagotti e corni, sempre in coppia.

Il ricco e attempato Uberto ha al suo servizio la giovane e furba Serpina che, con il suo carattere prepotente, approfitta della bontà del suo padrone. Uberto, per darle una lezione, le dice di voler prendere moglie: Serpina gli chiede di sposarla, ma lui, anche se è molto interessato, rifiuta. Per farlo ingelosire Serpina gli dice di aver trovato marito, un certo capitan Tempesta, che in realtà è l’altro servo, Vespone, travestito da soldato. Serpina chiede a Uberto una dote di 4000 scudi, ma egli, pur di non pagare, sposerà Serpina, la quale da serva diventa finalmente padrona.

«La condotta stilistica è ovviamente diversa da quella del lontano precedente pergolesiano; il segno nervoso di Pergolesi cede il passo a una cantabilità facile e distesa, a un fraseggio più ampio e simmetrico. Lo scarto stilistico è evidente anche nei confronti della prima maniera paisielliana, poiché di fronte al pubblico della corte imperiale il musicista rinuncia a una comicità eccessivamente chiassosa e caricata, a quel carattere “trop napolitain” che gli era stato attribuito da Galiani in una lettera a Madame d’Epanay del 1773. Le baruffe dei due personaggi sono perciò finemente stilizzate; nella figura di Serpina la sensualità prevale sull’aggressività pergolesiana, trovando piena espressione nel brano più esteso dell’opera, la già citata aria (“Donne vaghe”), in forma di rondò: uno dei pezzi dell’opera buffa italiana che maggiormente tradisce la comunanza di linguaggio con Mozart». (Francesco Blanchetti)

Con un lungo e abbastanza inutile prologo e un congedo scritti da Piero Rattalino, nell’aprile 2004 al teatro Sangiorgi di Catania viene messo in scena questo intermezzo di raro ascolto. L’orchestra del Teatro Massimo Bellini è diretta da Marco Zuccarini con risultati modesti. Tiziano Bracci e Gabriella Colecchia sono i due interpreti, Uberto vocalmente meglio di Serpina, mentre un Vespone anche troppo invadente è quello di Gianni Salvo, che è anche regista.

Allestimento volenteroso e ripresa poco più che amatoriale per una curiosità che aggiunge un altro piccolo tassello alla nostra conoscenza del Settecento musicale italiano.

La serva padrona

★★★★☆

Pergolesi al circo

«Il 28 agosto 1733 nel teatro più importante di Napoli, il San Bartolomeo, deflagrò una bomba la cui onda d’urto fu così forte da influire sulla musica operistica – in ispecie quella buffa – di tutt’Europa: fra i tre atti del Prigionier superbo [di Pergolesi] andarono in scena i due atti dell’intermezzo comico La serva padrona. Cos’aveva di tanto speciale quest’operina dal soggetto nemmeno così originale, discendente infatti prima dal Pimpinone di Albinoni (1708) e di Teleman (1725)  e poi dalla Serva scaltra di Hasse (1729)? Innanzitutto l’assoluta simbiosi tra libretto e musica, poi l’ardita – per l’epoca – modernità dell’impianto drammatico basato sul realismo psicologico dei personaggi, e infine la sorprendente bellezza della musica imperniata sul ritmo e sulla melodia anziché sul basso continuo come costumava nel primo Settecento». Così scrive Elvio Giudici a proposito di quella che si può considerare a tutti gli effetti la prima di un genere che avrebbe avuto un successo sbalorditivo in tutto il teatro musicale, l’opera buffa.

Il libretto di Gennaro Antonio Federico venne ripreso da Giovanni Paisiello nel 1781 per un allestimento in Russia, ma intanto La serva padrona di Pergolesi nel 1734 veniva presentata all’Académie Royale de Musique di Parigi e nella Reggia di Versailles, nel 1746 al Théâtre-Italien di Parigi e nel 1750 all’Her Majesty’s Theatre di Londra.

Il grande successo della ripresa del 1752 dell’Académie Royale de Musique scatenò una disputa, nota come la “Querelle des bouffons”, fra i sostenitori dell’opera tradizionale francese, incarnata dallo stile di Jean-Baptiste Lully e Jean-Philippe Rameau, e i sostenitori della nuova opera buffa italiana, fra cui alcuni enciclopedisti – in particolare Jean Jacques Rousseau, anch’egli compositore. La disputa divise la comunità musicale francese e la stessa corte (con la regina che si schierò a fianco degli “italiani”) per due anni e portò ad una rapida evoluzione del gusto musicale del paese transalpino. Nel 1754 avveniva la ripresa al Théâtre-Italien come La servante-maîtresse nella traduzione in versi di Pierre Baurans e Charles Simon Favart.

Intermezzo I. Uberto, ricco e attempato signore, svegliatosi da poco è arrabbiato perché la serva, Serpina, tarda a potargli la tazza di cioccolato con cui è solito iniziare la giornata, e perché il servo, Vespone, non gli ha ancora fatto la barba. Invia, quindi, il garzone alla ricerca di Serpina, e questa si presenta dopo un certo tempo affermando di essere stufa e che, pur essendo serva, vuole essere rispettata e riverita come una vera signora. Uberto perde la pazienza intimando alla giovane di cambiare atteggiamento. Serpina, non troppo turbata, si lamenta a sua volta di ricevere solo rimbrotti nonostante le continue cure che dedica al padrone, e gli intima di zittirsi. Uberto allora decide di prendere moglie per avere qualcuno che possa riuscire a contrastare la serva impertinente e ordina a Vespone di andare alla ricerca di una donna da maritare e chiede gli vengano portati gli abiti ed il bastone per uscire, al che Serpina gli intima di rimanere a casa perché ormai è tardi, e che se si azzarda ad uscire, lei lo chiuderà fuori. Inizia un vivace battibecco, che evidentemente è già avvenuto varie volte, in cui Serpina chiede al padrone di essere sposata, ma Uberto rifiuta recisamente.
Intermezzo IISerpina ha convinto Vespone, con la promessa che sarà un secondo padrone, ad aiutarla nel suo proposito di maritare Uberto, quindi Vespone si è travestito da Capitan Tempesta e attende di entrare in scena. Serpina cerca di attirare l’attenzione di Uberto rivelandogli che anche lei ha trovato un marito e che si tratta di un soldato chiamato Capitan Tempesta. Uberto, dolorosamente colpito dalla notizia, cerca di non farlo notare deridendo la serva, ma lasciandosi sfuggire che, nonostante tutto, nutre nei suoi confronti un certo affetto e che sentirà la sua mancanza. Serpina, rendendosi conto di essere vicina alla vittoria, dà la stoccata finale, usando la carta della pietà, dicendogli di non dimenticarsi di lei e di perdonarla se a volte è stata impertinente. Terminata l’aria, Serpina chiede a Uberto se vuol conoscere il suo sposo.  Rimasto solo l’uomo, pur rendendosi conto di essere innamorato della sua serva, sa che i rigidi canoni dell’epoca rendono impensabile che un nobile possa prendere in moglie la propria serva. I suoi pensieri sono interrotti dall’arrivo di Serpina in compagnia di Vespone/Capitan Tempesta. Uberto è al tempo stesso esterrefatto e geloso. Il Capitano, che non parla per non farsi riconoscere, per bocca di Serpina, ingiunge ad Uberto di pagarle una dote di 4.000 scudi oppure il matrimonio non avverrà e sarà invece Uberto a doverla maritare. Alle rimostranze di quest’ultimo, il militare minaccia di ricorrere alle maniere forti, al che Uberto cede e dichiara di accettare Serpina come moglie. Vespone si toglie il travestimento e il padrone, in realtà felice di come si siano messi i fatti, lo perdona e l’opera finisce con la frase che è la chiave di volta di tutta la vicenda: «E di serva divenni io già padrona».

Cinque arie e due duetti formano la struttura musicale dell’operina. Il duetto finale originale «Contento tu sarai» veniva quasi spesso sostituito dal duetto «Per te ho io nel core» tratto dal Flaminio dello stesso Pergolesi, mentre ora sempre più si tende a usare l’originale. In Italia si è poi talora utilizzata l’orchestrazione di Ottorino Respighi. Non è il caso certo di questa elegante esecuzione di Corrado Rovaris alla testa dell’Accademia Barocca de I Virtuosi Italiani, che rispetta la partitura nella sua originalità, aggiungendo se mai una sensibilità moderna fatta di sonorità vivaci ma morbide e mai accademiche.

Il regista Henning Brockhaus ambienta la piccante vicenda in un piccolo circo di saltimbanchi dove sono messi a nudo i semplici sentimenti dei due protagonisti, tutti e due vogliosi di coniugarsi allegramente e sessualmente – all’inizio vediamo Uberto sfogliare la rivista “Playboy” e poi dare lo smalto alle unghie dei piedi di Serpina e anche pettinarla. Qui siamo al teatro Pergolesi di Jesi nel 2010, ma sei anni prima il regista tedesco aveva allestito l’intermezzo assieme a Le devin du village di Jean-Jacques Rousseau proprio sotto un tendone da circo issato nel parco di Villa Salviati.

Alessandra Marianelli, che a diciotto anni era stata interprete della Serva padrona sotto il tendone, e uno spassoso Carlo Lepore esibiscono le loro ottime doti vocali e sceniche, il servo muto è il mimo francese Jean Méningue.

Il Flaminio

★★★★★

Geniale allestimento dell’ultimo capolavoro pergolesiano

Ultimo lavoro della sua brevissima carriera crudelmente stroncata dalla tubercolosi e opera di grandi dimensioni, Il Flaminio di Pergolesi al suo debutto nel settembre 1735 ebbe un ottimo successo e fu replicato fino al 1749, cosa insolita per un pubblico vorace di novità qual era quello dell’epoca.

Flaminio, sotto il falso nome di Giulio, si fa assumere da Polidoro, fidanzato con Giustina, una vedova che prima di sposarsi aveva respinto il protagonista che ora, essendo ancora innamorato, vuole tentare la sorte. Agata, sorella di Polidoro, si innamora di Flaminio ma è promessa a Ferdinando, che al suo arrivo viene respinto. A queste due coppie si contrappone quella buffa dei servi, Checca e Vastiano. Dopo un susseguirsi di equivoci e schermaglie amorose la vicenda delle tre coppie si ricompone mentre Polidoro si dichiarerà sollevato per non essere più costretto a mutare il suo modo di essere dalla tirannia del matrimonio.

Esempio massimo di commedeja pe mmuseca, nel libretto di Jennarantonio Federico si dà vita alla contemporaneità di nobili borghesi e di popolani e si utilizza sia la lingua “toscana” sia quella napoletana, qui per i personaggi di Ferdinando e di Vastiano, continuamente punzecchiato quest’ultimo per il suo dialetto dalla compagna Checca, che è invece toscana. Nella musica l’autore utilizza le forme canoniche (recitativi, arie solistiche, pezzi di insieme), ma anche la canzone popolare. La partitura gioca con ironia con l’opera seria quando mette in bocca a Flaminio le parole di «Scuote e fa guerra» o ad Agata quelle di «Da rio funeste turbine» e «Ad annientarmi» in vere “arie di furore” qui però calate in un contesto buffo. Tutti i numeri musicali sono connotati dalla straordinaria piacevolezza melodica e dal seducente impianto strumentale tipico dell’opera napoletana che nondimeno esige interpreti vocalmente di grande livello ma anche spigliati attori. E qui in questa magnifica produzione di Jesi del 2010 ne abbiamo il meglio essendo tutti, nessuno escluso, parimenti efficaci nel delineare i personaggi della vicenda. Dal tenore Juan Francisco Gatell (stolido Polidoro) al mezzosprano Laura Poverelli (Flaminio en travesti di ottima prestanza vocale), al soprano Marina de Liso (una Giustina di carattere), a una giovane e non ancora star Sonya Yoncheva (una deliziosa Agata, adolescente indecisa), a Laura Cherici (briosa Checca dalle forme generose), al baritono Vito Priante (qui meno ingessato del solito come sornione Vastiano). Serena Malfi punta alla riuscita caratterizzazione scenica del suo Ferdinando: occhiali spessi, cappelli impomatati, baffi neri, pancetta e tutto un armamentario di oggetti contro il malocchio che tira fuori dalle tasche nella sua prima aria «Non si’ cchella ch’io lassaie» in un irresistibile gioco teatrale. Al cembalo e a capo della sua Accademia Bizantina Ottavio Dantone stende il saporito miele della musica di Pergolesi e conferma la competenza, la sensibilità e il gusto per questo repertorio, qualità che da tempo gli vengono riconosciute.

Altro elemento di eccellenza che fa di questa produzione un capolavoro è il lavoro di Michał Znaniecki nella cui regia si ammira il mirabile gioco attoriale e la finezza e ironia della messa in scena. In questo è di sostanziale aiuto la scarna ma geniale scenografia di Benito Leonori che sfrutta la particolare struttura del Teatro Studio Valeria Moriconi, un’ex-chiesa a pianta centrale. Il pubblico è nel mezzo, l’orchestra è nell’abside al di là di uno stretto palcoscenico con poche sedie, mentre sono utilizzati altri spazi dell’edificio: le aperture laterali, i terrazzini superiori, i corridoi della platea, una finestra in alto. Ottimo il gioco di luci dello stesso Znaniecki.

Si può immaginare la difficoltà di riprendere uno spettacolo così complesso, ma Tiziano Mancini riesce felicemente nell’impresa, ricorrendo anche all’immagine nell’immagine quando a un certo punto la finestra in alto diventa un teatro di burattini e nel nostro video lo possiamo vedere contemporaneamente ai personaggi in basso. L’immagine alterna con abilità campi lunghi e particolari gustosi – come i piedi nudi della Yoncheva inquadrati in primo piano a più riprese…

L’Alidoro

★★★★☆

Ma chi è ‘sto Alidoro?

Il mistero del titolo sarà svelato solo negli ultimi minuti dell’opera: il personaggio che è stato chiamato Ascanio da alcuni e Luigi da altri alla fine si scoprirà essere non il cameriere del signor Giangrazio, bensì il figlio, dato per perduto e chiamato Alidoro dalla madre per un segno sul braccio assomigliante a due ali d’oro.

Opera finora sconosciuta di Leonardo Leo – la 24esima della quarantina d’opere del compositore di San Vito dei Normanni che è tra i fondatori dell’opera napoletana – è stata ritrovata nell’archivio musicale di Montecassino da Antonio Florio che, con la sua Orchestra Barocca Cappella della Pietà dei Turchini, la propone per la prima volta in tempi moderni al Valli di Reggio Emilia nel febbraio 2008 dove viene prontamente registrata dalla Dynamic e distribuita in un doppio DVD. L’Alidoro aveva debuttato al Teatro dei Fiorentini nel 1740 confermando la fama di un compositore ben noto in tutta Europa all’epoca e poi trascurato.

Il libretto di Gennaro Antonio Federico tratta della consueta successione di equivoci e travestimenti su cui gioca tutto il teatro barocco napoletano. Questa volta c’è un finto cameriere, ossia Ascanio, innamorato di Faustina, il quale per starle vicino diviene servitore del vecchio Giangrazio col nome di Luigi. Giangrazio, nobile parvenu di un paese vicino a Napoli, ha previsto per lo scapestrato figlio Don Marcello un matrimonio d’alta classe proprio con Faustina. Ma Don Marcello è piuttosto attratto dalle grazie prosperose della taverniera Zeza, la quale invece amoreggia con Meo, un giovane popolano squattrinato. Anche Giangrazio s’invaghisce di Zeza e chiede aiuto a Luigi per arrivare ad averla e assicurare così le nozze del figlio con Faustina. Per complicare la vicenda Luigi è corteggiato dalla nobile Elisa a cui sembra dare speranze. L’agnizione finale viene da un duello tra Don Marcello e Luigi che consente a Giangrazio di riconoscere da un segno al braccio di quest’ultimo il figlio Alidoro che credeva perduto per sempre. Tutte le coppie si ricompongono secondo l’obbligo del lieto fine: Luigi/Ascanio/Alidoro-Faustina, Marcello-Elisa, Zeza-Meo, mentre Giangrazio resta solo a invidiare la felicità dei giovani innamorati.

Il testo gioca sulla differenza di classe tra le due donne nobili, che si esprimono in “toscano”, e i popolani, in napoletano. Faustina inizia con una tipica aria da opera seria in endecasillabi: «Le mie voci accogliete, o colli o prati; | ascoltate, vi prego, i miei lamenti | or che a voi narro i miei martir spietati», ma è subito canzonata da Luigi con una verseggiatura più libera e su una musica vivace: «Ma i colli e i prati sordi saranno | né ascolteranno; | voi spargerete all’aure, a i venti | voci e lamenti; | e resterete bella e delusa, | trista e confusa: | credete a me». Non è da meno Elisa che con settenari espone il suo bellicoso programma: «Risolviti ad amarmi, | pensa non disprezzarmi | veder se non mi vuoi | di sdegno tale armata | che de’ disprezzi tuoi | vendetta far saprà».

Le arie delle due donne, ricche di colorature e di agilità, hanno sempre il da capo, mentre quelle dei popolani sono al più ariette bipartite ricche di onomatopee o versi di animali e quando usano la forma “alta” lo fanno in modo caricaturale. Numerosi sono i pezzi di insieme, che oltre ai frequenti duetti comprendono il quartetto con cui si conclude il primo atto e il concertato di tutti i sette personaggi nel coro del terzo. Con L’Alidoro Leo codifica così la forma dell’opera buffa quale si svilupperà nella seconda fase dell’opera napoletana.

L’allestimento “strehleriano” del regista Arturo Cirillo utilizza l’impianto minimalista di Massimo Bellando Randone (due piattaforme asimmetriche, un tavolino, poche sedie e uno stendipanni), le belle luci di Pasquale Mari e i costumi settecenteschi reinventati con il solito gusto da Gianluca Falaschi. L’espressiva attorialità è confidata a interpreti disinvolti che si muovono in scena spesso doppiati dal divertente servo muto Cicco. Anche la vocalità è in buone mani, soprattutto nel reparto femminile dove abbiamo specialiste di questo repertorio. Maria Grazia Schiavo dipana con agio le impervie agilità delle arie di Faustina; vivace Zeza è Valentina Varriale; malinconica e poi furiosa quando viene rifiutata è l’Elisa di Francesca Russo Ermolli dalla calda voce di mezzo-soprano e nel ruolo titolare c’è una spigliata Maria Ercolano en travesti. Giuseppe (Pino) De Vittorio dà un tocco autenticamente partenopeo al carattere di Don Marcello mentre il padre Giangrazio è il basso-baritono Filippo Morace. Concertato con sapienza e amore dallo scopritore Antonio Florio, questo lavoro dimostra di avere le possibilità di un recupero nei cartelloni dei teatri italiani.

La Salustia

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★★★☆☆

La prima opera seria di Pergolesi

Ci sono dei compositori italiani che hanno avuto la fortuna di nascere in una città che prima o poi ha ritenuto dovere dedicar loro le energie e le capacità per presentare le loro opere. Così è stato dei benemeriti casi di Pesaro per Rossini, Parma per Verdi, Torre del Lago per Puccini. Altri musicisti, non meno grandi, sono ancora in attesa e il caso più scandaloso è quello di Vivaldi.

Jesi sta nel gruppo virtuoso: dal 2000 la cittadina marchigiana tiene un festival che nel nome di Spontini e Pergolesi sta mettendo in scena l’opera completa dei due compositori. Nel 2011 è la volta de La Salustia, prima opera seria del ventunenne Giovanni Battista Pergolesi, presentata a Napoli nel 1732 (la prima prevista nel 1731 era stata annullata per la morte improvvisa del castrato Nicolino alla vigilia del debutto).

Le “mutazioni di scene” previste dal libretto («luogo magnifico avanti il Campidoglio con trono; gabinetto reale riccamente adornato; logge imperiali; gran sala con convito; terme imperiali; grande e magnifico anfiteatro…») sono qui schematizzate in un’unica scena fissa formata da una strada in pendenza chiusa da una facciata con logge che potrebbe sembra il Colosseo ma anche la platea di un teatro con i suoi ordini di palchi. Molto poco romano quindi, un settecento un po’ felliniano, ma la regista Juliette Duchamps è brava nel trovare soluzioni efficaci alle impossibili richieste del libretto.

Tratto dall’Alessandro Severo di Apostolo Zeno (1717) il verboso libretto di anonimo (forse quel Gennaro Antonio Federico de La serva padrona e de Lo frate ‘nnamorato) è decisamente brutto, una sequenza di scene di assurda illogicità e personaggi bidimensionali in cui c’è sempre qualcuno che tenta di uccidere qualcun altro senza peraltro mai riuscirci.

Giulia, madre di Alessandro, detesta la nuora Salustia e costringe l’imbelle figlio a ripudiarla. Marziano, suo padre, trama per uccidere Giulia, ma i suoi tentativi vengono sviati dalla stessa Salustia che ciononostante non riesce a ottenere la gratitudine della suocera, anzi. Il lieto fine comunque conclude in gloria la drammatica vicenda.

Abbondantemente scorciati i recitativi e dimezzati i da capo, la direzione di Corrado Rovaris della Accademia Barocca de i Virtuosi Italiani non va oltre una certa scolasticità, ma non si può dire che la partitura eccella per grande originalità se non nel quartetto che suggella il secondo atto.

Nei personaggi principali Serena Malfi e Laura Polverelli non si risparmiano, la prima nella figura appassionata e nobile allo stesso tempo della patetica Salustia, la seconda nella figura isterica e libidinosa dell’imperatrice romana. Curiosità della serata è Florin Cezar Ouatu, il controtenore rumeno ancora indeciso tra opera e pop (nel 2013 ha rappresentato la Romania all’Eurovisione), un Alessandro dalla voce cristallina ma piuttosto leggerina e monocorde e dalle movenze da marionetta con le braccia che si alzano al ritmo della musica come tirate da invisibili fili. Forse è per questo che nel secondo atto la regista lo fa cantare con una gallina in mano, così le tiene ferme… Per il barihunk Vittorio Prato, Marziano, purtroppo viene disattesa la prescrizione della didascalia dell’ultima scena: «Al suono di orribil sinfonia, sarà introdotto Marziano nudo nell’arena». Il suo combattimento con un leopardo è solo suggerito da un gioco di luci proiettate sul fondo della scena. Peccato.

Il prigionier superbo

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★★★★☆

Artificio e inverosimiglianza del teatro barocco

Questo è il caso più eclatante in cui un’opera seria viene occultata dall’intermezzo che l’accompagna. Il prigionier superbo è ricordato solo per La serva padrona rappresentata durante gli intervalli e subito diventata popolare al massimo grado e origine di quella “querelle des bouffons” che infiammò la Parigi musicale mettendo uno contro gli altri i sostenitori della musica francese (il coin du roi, che sedeva sotto il palco reale all’Academie Royale de Musique) contro gli “italianisti” (il coin de la reine, comprendente i futuri enciclopedisti).

La questione andò avanti a colpi di libelli e lettere, come quelle di Jean-Jacques Rousseau, fino a che Louis XV nel 1754 troncò la querelle mettendo al bando i bouffons (ossia le compagnie itineranti italiane che rappresentavano intermezzi e opere comiche) dai teatri francesi.

Seconda opera seria del ventitreenne Pergolesi, su libretto attribuito a Gennaro Antonio Federico (lo stesso de Lo frate ‘nnamorato) e basato su un altro testo del Silvani, Il prigionier superbo debuttò al teatro San Bartolomeo di Napoli nel 1733 prima di cadere nel dimenticatoio.

Atto primo. Il re dei Goti Metalce, vittorioso sui norvegesi, promette in moglie Rosmene, figlia del re prigioniero Sostrate, al fedele Viridate, che l’ama. La promessa sposa Ericlea, però, si accorge che Metalce stesso si è invaghito di Rosmene e medita vendetta insieme al suo amante Micisda. Rosmene però rifiuta Metalce, che ordina la morte di Sostrate per costringerla: il padre le ingiunge di resistere al ricatto.
Atto secondo. Ericlea svela a Viridate gli intenti di Metalce e i due litigano per Rosmene; Metalce promette inutilmente la corona a Sostrate se gli concederà la figlia: infine li imprigiona entrambi con Viridate, che era intervenuto in soccorso. In prigionia, Sostrate concede la figlia a Viridate. Metalce propone a Rosmene l’alternativa tra le nozze e la morte di Sostrate e Viridate, intimandole di scegliere quale dei due risparmiare: Rosmene, disperata, salva il padre.
Atto terzo. Ericlea e Micisda preparano una rivolta contro Metalce e mostrano il foglio con cui Rosmene ha condannato Viridate e accettato le nozze. Padre e amante rifiutano Rosmene. Inizia la battaglia e gli insorti hanno la meglio; Rosmene può spiegarsi ed è perdonata. Sostrate riottiene il trono norvegese e nomina Ericlea reggente dei Goti.

La musica contiene gli stilemi tipici del linguaggio pergolesiano, anche se non ha ancora la complessità armonica dell’Olimpiade di due anni dopo. Il libretto qui ha la metà dei versi del dramma metastasiano e i recitativi sono quindi molto più corti.

Magnifico esempio di vivacità e teatralità la scena quarta dell’ultimo atto con l’incalzante terzetto in cui la figlia viene disprezzata dal padre e dall’amato per la scelta cui è stata costretta. Scena che ha lo stesso dinamismo dell’intermezzo («Stizzoso, mio stizzoso»), ma qui in chiave drammatica.

Questa è la seconda riproposta in tempi moderni dopo il lungo oblio cui è stata vittima l’opera. Siamo al teatro Pergolesi di Jesi nel settembre 2009.

All’aprirsi del sipario delle persone in abiti da sera reduci da un party, molti hanno bicchieri e bottiglie in mano, ballano con il sottofondo di musica elettronica in un ambiente desolato allorché scoprono delle marionette settecentesche e subito parte l’allegro della sinfonia, che Rovaris attacca con vigore inusitato, a cui si collega il primo coro «Splenda il sol di luce adorno» che celebra Metalce, re dei goti trionfante sui norvegesi, e la sua sposa Ericlea. In scena rimangono cinque signore in abiti eleganti e un signore in smoking rosso costretto su una sedia a rotelle e che si rivelerà il “prigionier superbo” del titolo.

Da questo momento i cantanti saranno “doppiati” da marionette di grandi dimensioni, come nel teatro giapponese bunraku, con abiti d’epoca e manipolate a vista da dei marionettisti e dove, a parte Sostrate, tutti i ruoli, originariamente per castrati, sono sostenuti da interpreti femminili.

Il regista Henning Brockhaus le veste tutte con lunghi abiti da sera, anche quelle che interpretano ruoli maschili. Così il principe di Danimarca sfoggia un abito plissettato di seta azzurra e coprispalle di volpe bianca; il re dei goti ha un outfit in pelle nera e acconciatura punk; il principe di Bohemia è in tubino di satin blu-notte, profonda scollatura e scarpe a stiletto.

La complessa vicenda è così trasformata in una convention di gran dame un po’ isteriche e ben presto non ci si preoccupa più di chi è chi o che cosa canta, ma si viene cullati dalle note di miele del compositore iesino delle sue arie ora di collera ora patetiche. Quello che si capisce chiaramente è che in scena ci sono amori incrociati e la dama più cattiva, quella gothic-punk (il re dei goti, appunto), fa di tutto per costringere un’altra a sposarla contro la sua volontà, imprigionando o minacciando di morte chiunque sia d’ostacolo alle sue sozze brame (si può dire di una donna che vuole un’altra donna?).

Il teatro barocco per Brockhaus è soprattutto finzione. La scena è grigia e riporta le impronte di architetture barocche rovinate nel tempo. Il suo è un incontro fra mondi lontani – gli abiti settecenteschi delle marionette e quelli moderni delle cantanti – ad evidenziare l’inverosimiglianza e l’artificio di tipi stereotipati e dalla semplice psicologia. Una volta accettata la sua visione lo spettacolo diviene coerente e godibile.

Alla testa dell’Accademia Barocca dei Virtuosi Italiani con i suoi strumenti d’epoca c’è Corrado Rovaris che porta in luce con gran brio la gloriosa partitura anche se senza troppa fantasia.

La compagnia di canto femminile è ottima e ha in Marina Comparato, Marina De Liso e Ruth Rosique i migliori elementi. Stretto fra queste arpie con tacchi a spillo il tenore Antonio Lozano, unico maschietto in scena, supplisce con la presenza a un timbro non sempre felice.

Nel DVD è giustamente compresa anche La serva padrona che lo stesso regista aveva messo in scena cinque anni prima in un tendone da circo assieme a Le devin du village di Jean-Jacques Rousseau. Diretto dallo stesso Rovaris, l’intermezzo ha come interpreti una giovanissima Alessandra Marianelli e uno spassoso Carlo Lepore.

Lo frate ‘nnamorato

  1. Muti/De Simone 1989
  2. Biondi/Landin 2011

★★★★☆

1. «Commeddeja pe mmuseca de Jennarantonio Federico, napolitano»

Scomparso a soli 26 anni, Giovanni Battista Pergolesi ha lasciato una produzione, concentrata nei suoi ultimi cinque anni di vita, che ne ha fatto uno dei più celebri autori di quella scuola che rese Napoli la capitale mondiale della musica del ‘700.

L’interesse di Johann Sebastian Bach per le sue opere dimostra quanto fosse noto, mentre è la rappresentazione della sua Serva padrona nel 1752 a Parigi a scatenare quella “querelle des Bouffons” che opponeva i sostenitori dell’opera francese a quelli dell’opera buffa italiana.

E opera buffa è Lo frate ‘nnamorato, composta su libretto in italiano e napoletano di Gennaro Antonio Federico e «addedecata a lo llostrissimo e accellentissimo segnor don Luise Sanseverino prencepe de Besegnano eccetera cavaliero de lo Tosone d’oro, primmo barone e Gran Justenziero perpetuo de lo Regno de Napole, e Grande de Spagna de primma classe eccetera». Presentata con enorme successo nel 1732 al Teatro dei Fiorentini, fu ripresa con modifiche per il carnevale del 1734, come dice la nota che precede la stampa del libretto: «Sta commedeja se rappresentaje ll’anno 1732 nne lo stisso triato addò s’ha da rappresentare mo, e lo ssa agnuno; e cco cquanto gusto e ssodesfazeone di chi la ntese, puro agnuno lo ssa. Se torna a llebbrecare, perché da cchiù d’uno è stata cercata. Se spera che boglia avè la stessa fortuna, se non che cierte poch’arie, che bedarraje segnate co cchisto signo §, co l’accaseone, che l’è parzo de buono a lo masto de cappella de cagnarence la museca, secunno l’abbeletà de chi l’ha da cantare; e ppe ffarela no poco cchiù breve, s’è accortata no poco all’atto terzo. E statte buono.»

Atto primo. Durante la villeggiatura a Capodimonte si tramano progetti coniugali. Luggrezia, figlia di Marcaniello, vecchio napoletano, toccherebbe al borghese Carlo, mentre le due sorelle Nena e Nina, nipoti di Carlo, sono destinate a sposare rispettivamente Don Pietro e suo padre Marcaniello. Lo stravagante Don Pietro giunge da Roma e si imbatte nelle serve Vannella e Cardella, che prende subito a corteggiare, quindi in Carlo. I due uomini apprendono che né Luggrezia né Nena intendono incontrarli: mentre il giovane Don Pietro reagisce con stizza, Carlo costringe Nena e Nina a riflettere sul loro stato. Orfane dei genitori, le due ragazze amano entrambe Ascanio, come d’altra parte fa anche Luggrezia, che dapprima si ribella al padre Marcaniello, quindi affronta Ascanio, rimproverandolo del suo «core ’ngrato». Il ragazzo, rimasto solo, lamenta di essere anch’egli perdutamente innamorato di Luggrezia, ma, in quanto figlio adottivo di Marcaniello, di non potere che trattarla come una sorella. Don Pietro intanto prosegue il corteggiamento di Vannella, suscitando la reazione di Marcaniello e Nena: la ragazza è felice di poter maltrattare l’inviso promesso sposo, mentre il vecchio Marcaniello è sinceramente esasperato dal comportamento del figlio.
Atto secondo. Luggrezia piange la propria angoscia d’amore osservata dalla serva Cardella, che ha intuito il problema della padrona. Intanto una visita di Marcaniello a casa di Carlo, con lo scopo di accertarsi delle future nozze, ha un esito disastroso: il povero vecchio viene messo alla berlina dalla serva Vannella e liquidato senza tante cerimonie dalla promessa Nina. Vannella plaude all’irraggiungibile ingegno femminile. Da parte sua Don Pietro invoca i buoni uffici di Ascanio per convincere Nena a sposarlo: la ragazza, invece, confessa ad Ascanio il suo amore per lui, lasciandolo confuso. Questi è infatti innamorato sia di Luggrezia che delle due sorelle e, peggio dell’asino di Buridano, non riesce a risolversi. Luggrezia si chiude allora in casa, furibonda per la gelosia. Al termine dell’atto i tre spasimanti devono fare amaramente il punto della situazione: Carlo è preoccupato dell’esito delle sue nozze; Don Pietro è stato truccato grottescamente da Cardella; Marcaniello, già dolorante per la gotta, si sfoga contro il bellimbusto Ascanio, mentre le due serve deridono i ridicoli pretendenti.
Atto terzo. Nena e Ascanio sfogano ciascuno il proprio tormento d’amore. Don Pietro e Marcaniello intervengono a sedare un’accesa lite tra le serve: se Cardella si allontana offesa, Vannella rimane a subire le avances di Don Pietro. Giunge allora lo scioglimento del dramma: ferito in duello da Carlo, Ascanio si scopre essere in verità Lucio, figlio del fratello di Carlo rapito dai briganti. Il ragazzo era stato poi allevato da Marcaniello, ma in realtà è fratello di Nena e Nina: per questo motivo era dunque attratto dalle due ragazze. Il frate ’nnamorato potrà dunque chiedere tranquillamente la mano di Luggrezia, mentre i tre spasimanti originari si rassegneranno a restare scapoli.

L’invenzione melodica di Pergolesi sostiene la vicenda con piacevolezza, ma l’orchestra spesso non fa che raddoppiare le voci dei cantanti con un effetto a lungo andare un po’ stucchevole. «Nonostante la pluralità di piani stilistici (auliche arie del repertorio serio si alternano infatti a interventi buffoneschi dalla spiccata gestualità istrionica), l’opera è soprattutto caratterizzata da quel tono sentimentale che pervade la partitura con una memorabile incisività, trasfigurando come in un’aura di fiaba cittadina il realismo prosastico delle ambientazioni rappresentate. La dolcezza di questa tonalità peculiare emerge attraverso una serie di arie – talvolta di fulminea concisione – disseminate a breve distanza lungo la vicenda drammatica e dotate di singolare omogeneità espressiva, ad esempio nello splendido primo atto. Due arie sono invece emblematiche della coppia di innamorati – autentico polo sentimentale della costellazione dei personaggi: la struggente “Morta tu mme vuoie vedere” di Luggrezia, e “Ogne pena cchiù spiatata” di Ascanio, che nell’intensità espressiva del tema anticipa gli incanti che saranno dello Stabat Mater. Si noti inoltre il profilo ritmico della melodia, sapidamente articolato come avviene in molte altre pagine dell’opera, debitrici verso il teatro buffo di tanta intrigante verve. Il linguaggio patetico-sentimentale (contrassegnato da peculiari scelte armonico-melodiche, da forme semipopolari come la canzone e dall’impiego di tonalità minori) si presenta in termini esemplari nella siciliana di Vannella “Chi disse ca la femmena”, che contrappone il fascino melodico della prima sezione, venata di cupa malinconia, allo scatenamento vitalistico della sezione successiva (Allegro), ispirata alle movenze di indiavolate danze popolari. Il contrasto tra la pensosa meditazione sul mistero del cuore femminile e la descrizione minuta delle singole, diaboliche astuzie muliebri (non a caso nel secondo verso dell’aria viene evocato proprio Farfariello, il diavolo) sembra far deflagrare una contraddizione latente, sprigionando imprevedibilmente, sotto la levigatissima superficie di una forma musicale apollinea, forze ed energie di sapore irrazionale, che infrangono la cornice arcadico-razionalistica del ‘pre-classicismo’ pergolesiano». (Raffaele Mellace)

Qui siamo nel 1989 al Teatro alla Scala nell’epoca Muti ed è infatti il maestro a dirigere un’orchestra che, pur fornita di clavicembalo, tiorbe e liuti, non ha la leggerezza di un’orchestra adatta a questo repertorio. La regia di Roberto de Simone, la scenografia e i costumi ci restituiscono la Napoli barocca che ci aspettiamo in uno spettacolo visivamente pregevole.

Alessandro Corbelli, Nuccia Focile, Bernadette Manca di Nissa, Luciana d’Intino, Elisabeth Norberg-Schulz e lo stesso Bruno de Simone sono tra i numerosi efficaci interpreti.

172 minuti di musica su un solo disco, immagine ovviamente nel formato 4:3 e sottotitoli in inglese (!).

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★★★★☆

2. La commedia all’italiana di Pergolesi

Nel tricentenario della nascita la sua città natale gli dedica un festival in cui vengono rappresentate tutte le opere di Pergolesi. Nel settembre 2011 l’impresa si conclude con Lo frate ‘nnamorato, la sua prima “commeddeja pe mmuseca”.

In tempi moderni prima di Jesi Lo frate ‘nnamorato era stato presentato a Milano nel 1989, ma basta sentire gli attacchi della sinfonia per capire la differenza di lettura: tanto quella di Muti con l’orchestra del teatro alla Scala era in punta di forchetta quasi virgolettata, quanto quella di Fabio Biondi al Teatro Pergolesi con l’orchestra dell’Europa Galante è spontanea e impulsiva. Suonando lui stesso il violino esprime i giusti ritmi e colori di una partitura che presagisce l’opera buffa italiana che avrà il suo apice in Rossini. La scelta di Biondi è caduta sulla versione della rappresentazione del 1734 il cui successo portò alla ripresa del 1748, quando Pergolesi era già morto da otto anni.

Anche sull’allestimento scenico e la regia ci sono differenze abissali: se con De Simone avevamo elegantissime statuine di Capodimonte, qui con Willy Landin siamo nella modernità, per lo meno quella dell’Italia del secondo dopoguerra, con Marcaniello che durante la sinfonia sbircia una ragazza che si sveste alla finestra di fronte e don Pietro che arriva in Vespa. In questo brioso allestimento le scene, dello stesso Landin, ricostruiscono una piazzetta di una città del sud con i suoi balconi, le edicolette della Madonna, i caffè con le bottiglie d’epoca e proiezioni video, queste in realtà un po’ inutili, mentre i costumi di Elena Cicorella ricreano la Napoli del teatro di Eduardo o dei racconti di Marotta. La vicenda – simile a quella della sua ultima opera Il Flaminio, scritto dallo stesso librettista Gennarantonio Federico, in cui unioni matrimoniali decise senza tener conto dei sentimenti degli interessati sono destinate a scombinarsi – riprende la commedia settecentesca riproposta alla luce della stagione cinematografica della commedia all’italiana.

Essenziale è qui il gioco attoriale, ben sviluppato da Nicola Alaimo e Filippo Morace, Marcaniello e Don Pietro. il primo sfruttando la sua fisicità e il tormentone del piede gottoso, il secondo toccando i toni dell’avanspettacolo con il suo ridicolo francese («Mon dieù, combien de sciarm! | Sgiè donne des allarm | O meme Cupidon. | Titì, tirì nti nton»). I personaggi femminili, che si esprimono anche loro o in “toscano” (Ascanio e le promesse spose Nena, Nina) o in napoletano (Luggrezia e le “creiate” Vannella e Cardella), hanno in scena valide interpreti, per citarne due la spigliata Laura Cherici e Patrizia Bicciré, alla cui Nena è affidata l’aria di bravura con flauto obbligato nello stile dell’opera seria «Va solcando il mar d’amore».

La regia video ha la garanzia di Tiziano Mancini e l’immagine è impeccabile e nel formato 16:9. Qui i sottotitoli sono anche in italiano.