La Salustia

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★★★☆☆

La prima opera seria di Pergolesi

Ci sono dei compositori italiani che hanno avuto la fortuna di nascere in una città che prima o poi ha ritenuto dovere dedicar loro le energie e le capacità per presentare le loro opere. Così è stato dei benemeriti casi di Pesaro per Rossini, Parma per Verdi, Torre del Lago per Puccini. Altri musicisti, non meno grandi, sono ancora in attesa e il caso più scandaloso è quello di Vivaldi.

Jesi sta nel gruppo virtuoso: dal 2000 la cittadina marchigiana tiene un festival che nel nome di Spontini e Pergolesi sta mettendo in scena l’opera completa dei due compositori. Nel 2011 è la volta de La Salustia, prima opera seria del ventunenne Giovanni Battista Pergolesi, presentata a Napoli nel 1732 (la prima prevista nel 1731 era stata annullata per la morte improvvisa del castrato Nicolino alla vigilia del debutto).

Le “mutazioni di scene” previste dal libretto («luogo magnifico avanti il Campidoglio con trono; gabinetto reale riccamente adornato; logge imperiali; gran sala con convito; terme imperiali; grande e magnifico anfiteatro…») sono qui schematizzate in un’unica scena fissa formata da una strada in pendenza chiusa da una facciata con logge che potrebbe sembra il Colosseo ma anche la platea di un teatro con i suoi ordini di palchi. Molto poco romano quindi, un settecento un po’ felliniano, ma la regista Juliette Duchamps è brava nel trovare soluzioni efficaci alle impossibili richieste del libretto.

Tratto dall’Alessandro Severo di Apostolo Zeno (1717) il verboso libretto di anonimo (forse quel Gennaro Antonio Federico de La serva padrona e de Lo frate ‘nnamorato) è decisamente brutto, una sequenza di scene di assurda illogicità e personaggi bidimensionali in cui c’è sempre qualcuno che tenta di uccidere qualcun altro senza peraltro mai riuscirci.

Giulia, madre di Alessandro, detesta la nuora Salustia e costringe l’imbelle figlio a ripudiarla. Marziano, suo padre, trama per uccidere Giulia, ma i suoi tentativi vengono sviati dalla stessa Salustia che ciononostante non riesce a ottenere la gratitudine della suocera, anzi. Il lieto fine comunque conclude in gloria la drammatica vicenda.

Abbondantemente scorciati i recitativi e dimezzati i da capo, la direzione di Corrado Rovaris della Accademia Barocca de i Virtuosi Italiani non va oltre una certa scolasticità, ma non si può dire che la partitura eccella per grande originalità se non nel quartetto che suggella il secondo atto.

Nei personaggi principali Serena Malfi e Laura Polverelli non si risparmiano, la prima nella figura appassionata e nobile allo stesso tempo della patetica Salustia, la seconda nella figura isterica e libidinosa dell’imperatrice romana. Curiosità della serata è Florin Cezar Ouatu, il controtenore rumeno ancora indeciso tra opera e pop (nel 2013 ha rappresentato la Romania all’Eurovisione), un Alessandro dalla voce cristallina ma piuttosto leggerina e monocorde e dalle movenze da marionetta con le braccia che si alzano al ritmo della musica come tirate da invisibili fili. Forse è per questo che nel secondo atto la regista lo fa cantare con una gallina in mano, così le tiene ferme… Per il barihunk Vittorio Prato, Marziano, purtroppo viene disattesa la prescrizione della didascalia dell’ultima scena: «Al suono di orribil sinfonia, sarà introdotto Marziano nudo nell’arena». Il suo combattimento con un leopardo è solo suggerito da un gioco di luci proiettate sul fondo della scena. Peccato.

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