Mese: dicembre 2014

L’amour de loin

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★★★★★

L’idealizzato «amor de loing» della poesia trovadorica

Confesso che nulla sapevo di questa compositrice finlandese nata nel 1952 e meno ancora della sua opera su libretto in francese di Amin Maalouf e presentata a Salisburgo nel 2000, ma i nomi di Esa-Pekka Salonen, Peter Sellars e Gerald Finley mi erano sembrati una garanzia.

Eccomi dunque immerso nell’atmosfera rarefatta di questa vicenda in cui il trovatore Jaufré Rudel principe di Blaye (XII secolo) ama una donna, Clémence contessa di Tripoli, della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia e per la quale comincia a comporre versi senza averla mai vista. Rudel si fa crociato e parte per Tripoli, ma in viaggio si ammala e viene condotto dalla contessa morente. In un ultimo slancio vitale, dopo averla a lungo immaginata, riesce così a vederla e a stringerla tra le braccia per la prima e ultima volta. Sentendosi responsabile della sua morte la contessa decide di ritirarsi in un convento e nell’ultima scena la vediamo pregare, ma di rabbia, e non si capisce se è per un dio lontano o per «un amor de loing».

Nell’estrema economia dell’opera i personaggi sono solo tre: il trovatore, la contessa e un pellegrino. Un coro fuori scena è il quarto elemento vocale.

La musica della Saariaho ha lontane riminiscenze ligetiane risolte però in più melodiche ondate armonicamente e coloristicamente  preziose che Esa-Pekka Salonen fa scaturire  dall’orchestra dell’Opera Nazionale Finlandese per farle rifulgere in un’atmosfera di puro incantesimo. I cinque atti sono senza soluzione di continuità per un totale di circa due ore di musica e la ricca partitura prevede oltre agli archi e agli ottoni quattro flauti, oboe, clarinetto, due fagotti, una nutrita percussione, due arpe, un pianoforte ed elettronica.

Le scenografie sono di quel mago di George Tsypin e consistono unicamente in due scale elicoidali di metallo da cui i due personaggi principali non scendono mai per mettere piede a terra, per meglio dire in acqua visto che la superficie del palcoscenico è coperta da uno specchio di acqua scura in cui si staglia la luminosa barca di cristallo del pellegrino. È quel mare che divide i due cuori anelanti l’uno all’altro.

Metafora dei rispettivi castelli da cui l’uomo e la donna non escono mai, le scale sono illuminate da luce fredda e verdastra (quella del trovatore) o calda e aranciata (quella della donna amata), mentre altri elementi tubolari luminosi scendono e salgono lentamente per definire ancora di più la separazione spaziale dei personaggi: lui ha paura di vedere nella realtà l’oggetto del suo amore idealizzato e lei teme di non essere all’altezza delle lodi messe in musica dal trovatore.

Anche se si riferisce a temi lontanissimi nel tempo come l’amor cortese, si capisce come la storia abbia comunque qualcosa di estremamente attuale e penso sia questo che ha motivato la scelta del soggetto da parte della musicista. Curiosamente, anche un’altra opera recentissima come Written on Skin ha attinto a temi medievali.

Anche se alla prima dell’opera l’interprete di Jaufré Rudel era un altro, non riesco immaginarne uno migliore per proprietà vocale e intensità espressiva del Gerald Finley di questa produzione registrata nel 2004 a Helsinki, mentre creatrice del ruolo di Clémence era la Dawn Upshaw che ritroviamo qui. La sua parte è quella musicalmente più impegnativa e varia. All’inizio è la distante castellana lusingata dalle chansons del trovatore, poi esibisce un lato quasi coquette quando intona lei stessa, nei modi della musica antica, i suoi versi in provenzale e infine ridiventa donna appassionata e distrutta dal dolore quando le muore tra le braccia l’uomo che ha finalmente conosciuto. Dell’allestimento originale è anche Monica Groop, il terzo personaggio.

Non è indicato nel libretto accluso alla confezione del disco, ma la regia video è splendida e non mi stupirei fosse dello stesso Peter Sellars del quale abbiamo un’intervista negli extra che comprendono anche interventi di Salonen e della Saariaho.

La lunghissima pausa di silenzio che segue le ultime note della partitura e lo scrosciare subito dopo degli applausi del pubblico per festeggiare gli interpreti sguazzanti nell’acqua dimostrano una volta di più che l’opera, soprattutto quella moderna, non solo non è affatto morta, ma ha ancora molto da dire.

The Death of Klinghoffer

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★★★★☆

Quando la realtà più controversa viene messa in musica

Se un film, un romanzo, un quadro possono avere come soggetto la realtà contemporanea più scomoda, perché non si può fare lo stesso con un’opera in musica? Questa è la domanda che pone John Adams mettendo in musica nel 1991 una vicenda di terrorismo e dimostrando altresì grande interesse e fiducia per questa forma d’arte  – l’opera, non il terrorismo…

Il compositore americano aveva già affrontato temi attuali nella sua prima opera Nixon in China (1987) e lo farà ancora in seguito, ma qui è la realtà più scabrosa a entrare brutalmente in scena. Il fatto che il musicista tocchi un nervo scoperto è dimostrato dai contestatori che al di fuori dei teatri in cui viene rappresentata la sua opera, senza averla mai vista sia ben chiaro, inalberano cartelli che ne denunciano l’antisemitismo in quanto l’autore ha dato voce ai terroristi. Questo accadeva nel 1992 a San Francisco, ma si è ripetuto davanti al MET di New York poche settimane fa nel novembre di questo 2014.

Quattro membri del Fronte per la Liberazione della Palestina il 7 ottobre 1985 prendono il controllo della nave da crociera “Achille Lauro” al largo della costa egiziana tenendo in ostaggio i passeggeri e l’equipaggio e ordinando al comandante di salpare per la Siria chiedendo il rilascio di 50 palestinesi detenuti nelle prigioni di Israele. Avendo ricevuto il rifiuto del governo siriano a ormeggiare a Tartus, i dirottatori uccidono Leon Klinghoffer, un ebreo americano disabile e lo gettano in mare assieme alla sua carrozzella. Alla nave è garantita una rotta sicura per la Tunisia dove vengono sbarcati i passeggeri, ma l’aviazione americana costringe l’aereo con i terroristi e il capo Abu Abbas ad atterrare nella base di Sigonella in Italia dove inizia una lunga controversia sull’estradizione. Alla fine le autorità del nostro paese arrestano e portano in tribunale i quattro terroristi, ma lasciano che il possibile mandante del colpo, Abu Abbas, fugga nell’allora Yugoslavia. Mai come in questa occasione le tensioni tra l’allora governo Craxi e l’amministrazione americana del presidente Reagan sono state così forti. Quattro mesi dopo l’uccisione del marito, Marilyn Klinghoffer morirà di cancro a 59 anni.

Il prologo è costituito, sul modello della tragedia antica, da un coro di esuli palestinesi e da uno di esuli ebrei, in cui ciascuno lamenta la propria condizione.
Il primo atto si apre a bordo della nave da crociera ‘Achille Lauro’; durante un viaggio in Egitto, alcuni terroristi palestinesi si impossessano della nave per un’azione dimostrativa. Il capitano cerca di tranquillizzare i passeggeri, e anche di dialogare con i sequestratori: il loro scopo è raggiungere la Siria. Mentre la nave è ferma, in attesa di ottenere il permesso di entrare nel porto, i palestinesi scoprono la presenza di un cittadino americano ebreo, Leonard Klinghoffer; malgrado sia un uomo costretto sulla sedia a rotelle e un membro del commando vi si opponga, i terroristi uccidono l’ostaggio, per dimostrare la determinazione dei loro atti, gettandone il corpo in mare mentre la nave torna a far rotta verso l’Egitto. L’ultima scena è costituita da un dialogo tra la moglie di Klinghoffer, Marilyn, e il capitano, che con tatto cerca di spiegarle l’accaduto; la vedova però rifiuta le condoglianze del capitano (che disprezza per aver accettato il dialogo con i terroristi) e in un discorso durissimo accusa i governi di aver bisogno di un centinaio di morti per intervenire: «Avrebbero dovuto ammazzare me. Io volevo morire», sono le sue ultime parole.

L’opera di Adams su libretto di Alice Goodman è commissionata da ben sei distinte istituzioni teatrali (di Bruxelles, San Francisco, Lyon, Los Angeles, Glyndebourne e Brooklyn) e ha come modello le Passioni di Bach con i loro diversi livelli narrativi, i lunghi monologhi dei singoli personaggi e i commenti del coro, che non partecipa all’azione. Gli eventi non sono direttamente portati in scena e l’opera può essere vista come una ‘riflessione drammatica’ di fatti accaduti, proprio come fa un oratorio. E infatti l’opera si apre con due cori, il primo dei palestinesi e il secondo degli ebrei, di uguale lunghezza e stessa rilevanza musicale per significare che le due questioni hanno pari importanza ed è questo che i contestatori ebrei non perdonano al lavoro della Goodman.

Lo stile musicale si rifà al minimalismo dell’epoca, anche se nel libretto che accompagna il DVD Stephen Pettitt vuole correggere l’affermazione: «Ci sono gesti che indossano abiti minimalisti, come ad esempio i passaggi dominati da schemi ripetitivi. Ma la maniera minimalista è solo uno di una vasta gamma di strumenti impiegati per prolungare un particolare momento, suggerire un senso di irrealtà, evocare qualcosa di sinistro. […] La musica non riempie semplicemente uno spazio, ma crea il suo proprio senso di tempo e movimento; va da qualche parte, fa qualcosa».

La messa in scena di Peter Sellars prevedeva dei ballerini (le coreografie erano di Mark Morris) che doppiano i cantanti. L’opera venne ripresa da molti teatri in Europa, ma negli USA la controversia del soggetto e i fatti dell’11 settembre 2001 ne sconsigliarono la prevista andata in scena a Boston.

Nello stesso anno Channel 4 commissiona alla regista Penny Woolcock una versione televisiva ridotta dell’opera, che è quella registrata dalla DECCA su questo DVD. Questa versione è decisamente diversa da quella originariamente prevista per la scena. Sempre nel fascicolo che accompagna il disco, John Adams si sente in dovere di ricordare e riconoscere a Peter Sellars il progetto originale dell’opera in quanto questo che vediamo infatti è un adattamento quasi antitetico alla sua concezione – e non solo per l’ambientazione realistica (viene noleggiata per l’occasione una vera nave da crociera e gli esterni sono ambientati sull’isola di Malta), ma per il fatto che gli avvenimenti vengono qui fedelmente inscenati.

All’inizio vediamo in un flashback in bianco e nero gli ebrei scacciare dei palestinesi da un villaggio (siamo nel 1948) e poi a colori la scelta e l’addestramento dei quattro palestinesi che compiranno il dirottamento della nave. Subito dopo è invece presentata la situazione degli ebrei che decimati dai campi di concentramento dopo la guerra ritornano a reclamare una loro terra in quello stesso villaggio. Ancora non è terminato il secondo coro iniziale che vediamo le liete immagini della partenza della nave da Genova per una crociera di dodici giorni nel Mediterraneo. Poi inizia il racconto dei fatti, ma nel film sono le immagini con la loro forza a prevalere sul testo.

La Woolcock pur presentando con equilibrata evidenza le ragioni dell’una e dell’altra parte non giustifica minimamente la condotta dei terroristi che alla fine dell’opera ci fa vedere liberi e con diversi destini: uno suicida per far saltare in aria un autobus, due diventati barbuti integralisti che lapidano e sfregiano con l’acido la ragazza che rifiuta di indossare il velo, il quarto un ricco in auto con autista che neanche si ferma a salutarli.

Gli unici interpreti della prima versione che ritroviamo qui sono Sanford Sylvan (Leon Klinghoffer) e il direttore, lo stesso Adams alla guida della London Symphony Orchestra.

Tra gli altri interpreti Christopher Maltman (il capitano della “Achille Lauro”), Tom Randle (il terrorista che uccide il turista americano) e Yvonne Howard (l’intensa moglie di Klinghoffer).

Il disco contiene un lungo documentario e una traccia audio con i commenti della regista e degli interpreti, cosa inusuale per un’opera in musica, ma relativamente comune per i film in DVD.

Turandot

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Giacomo Puccini, Turandot

Torino, Teatro Regio, 14 febbraio 2014

★☆☆☆☆

Esistono spettacoli inutili?

Ci sono cioè allestimenti che affiancano a una messa in scena insipida un’esecuzione musicale di routine e cantanti tutt’altro che ispirati? Se la risposta è sì, allora la Turandot vista al Regio di Torino è uno di quelli. E quando le «scene sono belle» e i «costumi ricchi» c’è da giurarci che sotto sotto si nasconde una totale assenza di idea registica.

Già prodotto dal Carlo Felice di Genova dieci anni fa e importato per ridurre i costi (poi però non si importa la produzione di Otello del torinese Livermore, ma se ne produce una nuova con uno sconosciuto regista inglese) (1), l’impianto scenico rigorosamente simmetrico e con la dovuta presenza di scalinate, colonne decorate da draghi e archi in finto oro e finto marmo di Luciano Ricceri è da manuale del geometra e dà al pubblico esattamente quello che si aspetta senza deluderlo riguardo al côté esotico (anche se è un oriente di maniera), ma senza neanche turbarlo con idee nuove.

Giuliano Montaldo ignora il lavoro sui personaggi che sono lasciati a loro stessi e come regista si limita a far entrare e uscire le masse corali, sempre in maniera rigorosamente simmetrica ovviamente. Invadenti e convenzionali se non ridicole (ah quella danza della spada del boia!) le coreografie di Giovanni Di Cicco. Curati dal punto di vista iconografico sono i costumi dell’altra Montaldo, Elisabetta.

Il ruolo della protagonista, venuta a mancare la titolare all’ultimo momento, è stato sostenuto da una Johanna Rusanen del tutto fuori parte. Roberto Aronica come Calaf arriva stremato sia nel «Nessun dorma» sia nel duetto finale di Alfano (quando ci si deciderà a eliminare questo brutto finale posticcio sarà sempre troppo tardi. Piuttosto, se proprio non si vuole mandare a casa il pubblico col magone per la morte di Liù allora si faccia la versione di Berio). Un po’ meglio è Carmen Giannattasio che però non ha la luminosità giovanile richiesta dalla parte di Liù. Il trio dei ministri non è più sopportabile del solito mentre Giacomo Prestia dà voce a un autorevole Timur.

In buca Pinchas Steinberg dà una lettura molto secca e percussiva della partitura ignorandone gli aspetti atmosferici e decadenti.

Sala gremita, ovviamente, e grande successo. «Belle scene e bei costumi» si sentiva al guardaroba.

(1) Che si rivelerà il peggior allestimento della stagione.

Les Troyens

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Hector Berlioz, Les Troyens

★★★★★

Milano, Teatro alla Scala, 8 aprile 2014

La visionaria opera di Berlioz alla Scala

Ritornano a Milano Les Troyens. Nel 1982 erano stati Ronconi e Frigerio (Prêtre sul podio) con la loro scenografica grandiosità a celebrare l’epos del lavoro di Berlioz in un allestimento che venne poi ripreso nel ’96 con Colin Davis. L’altra importante messa in scena in Italia dell’opera fu invece quella di Vick a Firenze (2002), una lettura politica e antimilitarista in un’ambientazione moderna poco apprezzata dal pubblico di allora. Non è invece mai arrivata qui la fantascientifica messa in scena de La Fura dels Baus di Valencia (2010).

McVicar col suo allestimento creato per il Covent Garden di Londra prende una strada apparentemente più tradizionale che non stravolge e non rifugge dalla spettacolarità del grand-opéra, ma vi insinua una drammaturgia modernamente attenta ai personaggi. Il regista scozzese è inoltre maestro nel muovere sia i singoli che le masse che le macchine.

Le scene di Es Devlin dipingono nella prima parte una Troia del tutto votata alla guerra, dalle tinte fosche, le cui mura sono una mostruosa macchina con leve, ingranaggi e armi. Con gli stessi elementi è costruito il cavallo che viene portato dentro la città dagli incauti abitanti con quella enorme testa che spunta minacciosa tra fumi rossastri. Completamente diversa la seconda parte con una Cartagine luminosa e dai colori caldi. Nel finale il modellino della città è spezzato in due come l’amore tra Enea e Didone e la pira su cui si immola la regina cartaginese è fatta ancora una volta con quegli ingranaggi e quelle armi che costituivano sia le mura di Troia sia il cavallo che ne ha causato la fine.

Tardo-ottocenteschi i costumi dei troiani, mentre i cartaginesi sfoggiano abiti più consoni al caldo nordafricano. Non memorabili sono sembrate le coreografie di Lynne Page.

Al suo debutto alla Scala un Pappano esemplare fa rifulgere l’immensa orchestra nei mille colori della partitura, dalle grandiose pagine corali all’atmosfera arcana delle apparizioni a quella amorosa del duetto del quarto atto con quella «Nuit d’ivresse» di cui si ricorderà Offenbach quando scriverà la sua celebre barcarola.

Anna Caterina Antonacci è una Cassandra vocalmente poco declamatoria, ma dalla gestualità marcata che scolpisce il suo personaggio con intelligenza. Daniela Barcellona è una Didone più sicura, regale ed esuberante qui che a Valencia. Meglio di tutti l’Enea di Gregory Kunde, lirico nel ruolo ed eroico nell’impegno vocale in cui brilla la sua musicalità e il suo fraseggio prezioso.

Decisamente non allo stesso livelli gli alti interpreti, soprattutto il Corèbe di Fabio Capitanucci con alcuni problemi di intonazione. Elena Zilio che nell’82 era Ascanio ora è la vecchia Hécube.

Pubblico soddisfatto sia in platea che in loggione. Non succedeva da tempo alla Scala.

Guglielmo Tell

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Gioachino Rossini, Guillaume Tell

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 9 maggio 2014

Un Tell tra luci e ombre

Come già nel Guglielmo Tell di Muti/Ronconi alla Scala (1988) anche qui al Regio di Torino vengono proiettate immagini da cartolina del paesaggio svizzero, ma mentre là erano parte integrante di una visione complessivamente oleografica, qui nella messa in scena di Graham Vick sono invece in beffardo contrasto con l’ambiente asettico e artificiale in cui il regista ambienta la vicenda in un fine Ottocento in cui egli immagina un’utopia socialista che liberi dall’oppressione dei potenti.

Presentata con qualche dissapore del pubblico al Rossini Opera Festival del 2013 con cui è stato prodotto (troppo rosso in scena: ma bianco e rosso sono i colori della bandiera svizzera!) è stata qui riproposta con successo (purtroppo nella brutta versione ritmica italiana e non in quella della lingua in cui l’opera è stata concepita, il francese) una lettura politicizzata della leggendaria vicenda del cantone di Uri del XIV secolo.

Le scene di Paul Brown ci immergono in un ambiente di un bianco abbagliante in cui la terra è elemento di disturbo, e infatti gli elvetici sono obbligati a cancellarne con cura ogni traccia dal pavimento. Anche se la vicenda in scena segue le linee tradizionali (barche sul lago e mele comprese) Vick rafforza il grido di libertà del popolo oppresso insistendo sulla divisione tra buoni e cattivi, sulle malefatte di questi ultimi (umiliazioni e soprusi sessuali che hanno come vittime anche bambini), sulla ribellione degli oppressi (qui moderni proletari che scrivono sui vetri messaggi in latino) e sul finale rivoluzionario con quella scala vertiginosa che sale chissà dove.

Quella di Vick è una regia piena di simboli (la terra, i cavalli finti…) non sempre chiarissimi, ma di indubbio impatto teatrale. Anche troppo forse: la sua è una regia che talora può distrarre dalla musica, qui diretta magnificamene da Noseda fin dalla brillantissima ouverture, che infatti sarà portata in tournée oltre oceano in autunno con la stessa orchestra.

Coerenti per una volta con la lettura del regista sono i movimenti coreografici che non sono un “divertissement” bensì una prosecuzione della drammaturgia con i loro scatti nervosi, i movimenti epici della balletto dell’opera di Pechino, i salti acrobatici magnificamente eseguiti dal corpo di ballo. È la prima volta che i balletti del Guglielmo Tell sono una plastica rappresentazione delle umiliazioni cui è sottoposta la popolazione e hanno una giustificazione drammaturgica, non solo esornativa. Complimenti al coreografo Ron Howell.

Il titolo rossiniano non è tra i più frequentati a causa dell’impegno richiesto ai cantanti. Qui abbiamo un cast non eccelso con un protagonista titolare che ha in Dalibor Jenis un baritono convincente come padre, un po’ meno come patriota ribelle. Nella recita cui ho assistito Erika Grimaldi è stata una Matilde dagli acuti un po’ urlati e Arnoldo un volenteroso Enea Scala. Più efficaci nei loro ruoli Mirco Palazzi e Luca Tittoto, Fürst e Gesler rispettivamente.

Prodaná nevěsta (La sposa venduta)

Prodaná nevěsta

★★★☆☆

Opera scampata finora alla Konzeptregie

Sembra che La sposa venduta sia a tutt’oggi (dicembre 2014) una delle poche opere rimaste esenti dalle rivisitazioni e attualizzazioni del Regietheater. Nell’attesa che un Michieletto, un Bieito o un Neuenfels si occupino di questa ingenua storia, ritorniamo a questa messa in scena del 1981 che è quanto di più tradizionale si possa pensare. Questa edizione rientra nella consuetudine dell’opera filmata (unica regia d’opera di František Filip) con i cantanti in playback – sistema in auge fino a non molti anni fa anche qui da noi.

Vediamo infatti l’orchestra suonare l’irresistibile ouverture nella magnifica sala di Vladislao del castello di Hradčany a Praga, poi la cinepresa esce, scende e attraversa la Moldava, sulla cui riva è posta la statua di Smetana, per arrivare in seguito al Teatro Nazionale e infine trasferirsi in un bucolico paesaggio, là dove si svolge la vicenda.

Mařenka e Jeník (Marietta e Giannino nella versione italiana) sono innamorati ma la ragazza è stata promessa a un altro, Vašek, figlio di secondo letto del ricco possidente Micha. Di Jeník invece le origini sono avvolte nel mistero.
Atto primo. In un paesino della Boemia, durante la festa del patrono, la bella Mařenka è triste: ama Jeník ma i suoi genitori l’hanno promessa a Vašek, figlio di secondo letto del ricco possidente Mícha. Ella non lo conosce, poiché della mediazione matrimoniale si è occupato il sensale Kecal. Jeník rinnova alla ragazza i propri sentimenti, mentre l’intrigante Kecal tenta di dissuaderla e di convincerla a sposare il buon partito da lui proposto. Temendo che il suo affare non vada a buon fine per il rifiuto di Mařenka alle nozze con Vašek, Kecal cerca di convincere Jeník a rinunciare alla fanciulla con delle offerte in denaro.
Atto secondo. Durante una festa all’aperto presso un’osteria di campagna, appare finalmente Vašek. Ha appena saputo che i genitori stanno per procurargli una moglie ed è un po’ preoccupato per come costei potrebbe giudicare la sua balbuzie. Gli si avvicina Mařenka, che non conosce come sua possibile sposa. La ragazza, astutamente, gli descrive il tremendo carattere della sposa, di cui egli conosce il nome e, vezzeggiandolo, lo convince a rinunciare a lei. Jeník inventa a questo punto un imbroglio. Egli era il fratellastro di Vašek, in quanto figlio di primo letto di Mícha. Era stato cacciato di casa dalla matrigna Hata quando era bambino. Stipula così un contratto con Kecal, in cui s’impegna di vendere la fanciulla per trecento fiorini al «figlio di Tobias Mícha». Jeník si felicita per la riuscita dell’inganno, mentre i contadini presenti deplorano la venalità che lo ha portato a vendere la propria sposa.
Atto terzo. Al villaggio giunge una compagnia di saltimbanchi che darà spettacolo in piazza. Vašek viene avvicinato dalla danzatrice Esmeralda e convinto, con tenere promesse, a sostituire nella danza dell’orso un ballerino assente. Entusiasta della curiosa avventura, Vašek rifiuta la mano di Mařenka offertagli dai genitori. Mařenka, nel frattempo, è venuta a sapere di essere stata venduta. È talmente offesa e umiliata che allontana da lei Jeník, dichiarandogli che, per fargli dispetto, lei è pronta a sposare il ricco figlio di Mícha. Concluso il contratto nuziale, Jeník rivendica il proprio diritto: in quanto primogenito di Mícha, egli ha venduto Mařenka a sé stesso. La fanciulla comprende la burla e gli rinnova il proprio amore. Il padre è contento del figlio ritrovato. Solo la madre di Vašek continua a essere contraria al matrimonio, ma quando lo vede uscire da una pelle d’orso, deriso dai presenti, comprende che l’unione con Mařenka era impossibile. Viene così sancito e festeggiato il matrimonio della fanciulla con l’amato Jeník.

Seconda opera di Smetana dopo I Brandeburghesi in Boemia e su libretto anche questo dello scrittore Karel Sabina, La sposa venduta ebbe la sua prima rappresentazione nel 1866 in due atti e con i dialoghi parlati poi sostituiti con quelli cantati per l’allestimento in tre atti del 1870 diretto dall’autore e con profonde modifiche all’opera. Su questa edizione si basano generalmente le riprese moderne.

«Il comico smetaniano appartiene a una tradizione assai diversa da quella dell’opera buffa italiana. Si ricollega a un genere agli esordi, che ha evitato la lezione del cinismo settecentesco in favore di un’incantata poetica moraleggiante e di una sorridente verginità sentimentale. La sposa venduta è qualcosa di più di un’opera folcloristica: è una straordinaria istantanea sulla civiltà rurale ceca quieta e felice dell’innalzare lodi a Dio, alla danza e alla birra. Gran parte del suo successo è dovuto alla propulsione motoria della musica e non solo per la presenza di tre tipiche danze cèche: il furiant, la skočna e la polka. Il ritmo è la componente importante di tutto l’edificio musicale: irrefrenabile, quasi ginnico. L’armonia è legata ai modelli del primo Ottocento, in particolare a quello di Schubert, mentre più limitata è l’influenza di Rossini. […] Isola beata nel grande e torbido mare della ‘finis Austriae’, sembra additarci una mitica età dell’oro, in una fiaba di ottimismo del buon senso, che nel quadro del pieno romanticismo fa da lieve contrappunto al voluttuoso pessimismo delle profezie wagneriane». (Franco Pulcini)

Se proprio vogliamo trovare un lontano prototipo nell’opera italiana dell’Ottocento è forse all’Elisir d’amore che dobbiamo guardare per la miscela di comico e patetico presente là come qui e per l’ambientazione rurale, ma entrambe le opere hanno una tale originalità che si fa fatica a trovare un comune denominatore.

La sposa venduta è l’opera che fin dal primo ascolto tanto tempo fa mi ha conquistato con le sue melodie e i suoi ritmi e mi ricordo che mi ritrovavo a canticchiare la tiritera di Kecal: «Znám jednu dívku, ta má dukáty! […] Dvě krávy má a hezké telátko, | hus, kachen dost a ňáké selátko» (1) senza capire una parola dell’idioma, ma per il puro piacere sonoro di quei fonemi – non che lo studio della lingua ceca in seguito mi abbia portato a risultati molto più produttivi…

Tra le ingenue scenografie del paesino ricostruito in studio e nei tipici abiti folcloristici abbiamo in questo allestimento i maggiori interpreti dell’opera ceca di allora. Primi fra tutti Gabriela Beňačková e Peter Dvorský, entrambi quasi perfetti e nel duetto del primo atto a gara nell’eleganza dell’emissione vocale. Il loro acuto in «Sbohem!» (Addio!) ha una luminosità abbagliante. Così come nel duettino che precede il finale.

Di buon livello anche gli altri cantanti, appartenenti tutti alla gloriosa fucina della casa Supraphon, anche se un po’ impacciati nel playback e nella recitazione. L’orchestra dell’Opera Nazionale di Praga è diretta con competenza e brio da Zdeněk Košler.

Con i suoi limiti il DVD Supraphon è comunque un interessante documento.

(1) Nella versione ritmica di Franco Ghione: «So di una fanciulla ch’ha oro a iosa! […] e due vacche e un vitellin, oche, tacchini e porcellin»

Owen Wingrave

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★★★★☆

L’opera per la televisione di Britten

Assieme al War Requiem (1961), nel 1970 Owen Wingrave è la più appassionata voce antimilitarista del secolo passato scritta quasi in risposta alla guerra del Viet Nam. L’atmosfera da thriller di The Turn of the Screw (1954) è ripresa da Britten in questo lavoro tratto anche lui da un racconto del 1892 di Henry James e su libretto di quella Myfanwy Piper che scriverà per il compositore inglese anche il testo della sua ultima opera, Death in Venice.

Atto 1. Preludio. Rappresentazione dei ritratti della famiglia Wingrave a Paramore, la casa ancestrale dei Wingrave. Scena 1. Al “centro di addestramento” militare di Coyle a Bayswater, Coyle sta istruendo Owen Wingrave e Lechmere sulla guerra ed il comando in battaglia. Owen parla a Coyle del suo disprezzo per la guerra e che è contrario alla storia familiare dei Wingraves come soldati. Coyle risponde che Owen deve cambiare il suo atteggiamento e lo avverte che la sua famiglia disapproverà. Owen resta della sua idea. Rimasto solo Coyle si chiede come darà questa notizia alla famiglia di Owen. Scena 2. La scena si interseca tra Hyde Park e la residenza londinese di Miss Wingrave. A Hyde Park Owen pensa di essere forte, non debole, nella sua posizione di disprezzo per la guerra. A casa di Miss Wingrave, lei e Coyle discutono di Owen. La signorina Wingrave afferma che Owen cambierà idea una volta tornato dalla sua famiglia a Paramore. Scena 3. Di ritorno allo stabilimento di Coyle, Lechmere, Coyle e la signora Coyle parlano di quelle che ritengono essere le “strane idee” di Owen sui soldati e la guerra. Lechmere dice che aiuterà a “persuaderlo”. Owen lo sente e sottolinea che non sarà persuaso. Coyle dice a Owen che tornerà ai Paramore. Owen ricorda l’amore per la guerra di suo nonno, la morte di suo padre in battaglia e la morte di sua madre con un fratello nato morto. Scena 4. At Paramore, Mrs Julian, her daughter Kate and Miss Wingrave await Owen’s arrival, themselves distressed by the news of Owen, and determined to bring him back into the Wingrave traditions. They leave the ancestral hall where the portraits of the Wingrave ancestors hang, so that Owen arrives to no greeting from his family or loved ones, but only from the portraits. One by one, Mrs Julian, Kate and Miss Wingrave enter the hall and denounce Owen. Owen tries to respond, but finds no support. He then goes to meet his grandfather, Sir Philip. Scena 5. Nel corso di una settimana, Sir Philip, Kate, Miss Wingrave e Mrs Julian esprimono continuamente il loro disprezzo per Owen. La signora Julian alla fine dice a Owen che “non è degno dei Paramore”. Scena 6. I Coyle sono arrivati a Paramore. La signora Coyle è scioccata dal trattamento riservato a Owen dalla sua stessa famiglia. Lo stesso Coyle confessa il suo disagio e accenna ai fantasmi della casa, agli antenati dei Wingrave del passato. Owen saluta calorosamente i Coyles, con la presenza anche di Lechmere. Quando Coyle fa notare che Owen si è creato questo problema, Owen risponde che Coyle gli ha insegnato a “usare la mia mente” ed a capire la guerra “troppo bene”. Coyle rivela che non è andato a trovarlo dietro una chiamata amichevole, ma piuttosto per cercare di convincere Owen a rinunciare al suo nuovo modo di pensare. Coyle osserva ironicamente che Owen è “un combattente”, nonostante il suo nuovo pacifismo. Scena 7. L’intera famiglia Wingrave, con i Coyles e Lechmere, è a cena. Sir Philip e Miss Wingrave esigono da Owen obbedienza alla tradizione di famiglia. La signora Coyle è la più comprensiva nei confronti di Owen degli altri personaggi e afferma che Owen ha degli “scrupoli”. I Wingraves, Kate e la signora Julian mettono in ridicolo gli “scrupoli” di Owen. Alla fine della scena, Owen afferma con rabbia che avrebbe reso la guerra un crimine.
Atto 2. Prologo. Un cantastorie canta un episodio familiare passato quando uno dei ragazzi Wingrave non si era battuto con un altro ragazzo quando era stato sfidato. Il padre portò suo figlio in una stanza, lo colpì e uccise. Più tardi il padre era stato trovato morto nella stessa stanza, “senza una ferita”. Scena 1. Owen e Coyle sono nella sala degli antenati a Paramore, ricordando questa storia e camminando nella stessa stanza in cui si erano verificate le due morti. Kate non riesce ancora ad accettare le affermazioni di Owen. Sir Philip richiede un incontro privato con Owen. Coyle nota la somiglianza tra Sir Philip e il vecchio della storia e tra Owen e il ragazzo. Owen emerge dall’incontro con Sir Philip affermando di essere stato diseredato. La signora Julian piange a questa notizia e rivela che aveva sperato che Kate e Owen si sarebbero sposati per poter preservare il loro status sociale. Lechmere quindi interviene per offrirsi a Kate. Kate lo incoraggia momentaneamente e chiede a Lechmere se per lei potrebbe dormire nella “stanza infestata dai fantasmi”. Lechmere dice che l’avrebbe fatto. Owen fa un cenno per accendere le candele delle signore, ma Miss Wingrave lo snobba deliberatamente e si rivolge a Lechmere per questo compito. Rimasto solo dopo che Coyle ha dato la buonanotte, Owen parla da solo nella sala degli antenati, dicendo a se stesso di aver trovato la sua forza nella pace piuttosto che nella guerra. Kate torna nella sala, inizialmente ignara della presenza di Owen. Cantano un duetto della loro vita precedente. L’angoscia di Kate per il pensiero pacifista di Owen riemerge. Quando menziona Lechmere, Owen la rimprovera per il suo flirt con lui. Kate risponde che Owen è un codardo, il che fa sì che la rabbia di Owen diventi più forte. Lui risponde che non è un codardo e lei chiede prove. Dopo che lui le chiede quale prova vuole, lei gli chiede di dormire nella “stanza stregata”. Owen inizialmente rifiuta, ma dopo un’ultima osservazione provocatoria da parte di Kate, Owen è d’accordo e dice anche che può chiuderlo a chiave nella stanza. Scena 2. La scena inizia nella camera da letto dei Coyle, dove la signora Coyle riflette sul comportamento civettuolo di Lechmere e sulla caparbietà di Kate. Coyle nota che all’inizio della serata, Owen sembrava “rassegnato” e “in pace”. Più tardi, Lechmere, incapace di dormire, fa visita a Coyle. Dice a Coyle di aver sentito la provocazione di Kate nei confronti di Owen di dormire nella “stanza stregata”. La signora Coyle esprime preoccupazione per la sicurezza di Owen, ma Coyle trova una cupa soddisfazione nel fatto che questo atto dimostrerà che la famiglia Wingrave si sbaglia su Owen. Proprio mentre Coyle sta per controllare Owen, Kate piange dall’esterno della “stanza infestata”. I Coyles e Lechmere si precipitano da lei, raggiunti presto dalla signora Julian e dalla signorina Wingrave. Kate ora si rammarica della sua sfida a Owen, ma è troppo tardi: quando Sir Philip appare e apre la porta della stanza, vedono Owen morto, disteso sul pavimento. L’opera si chiude con il cantastorie che intona la fermezza del ragazzo Wingrave contro il suo avversario.

Scritta per la televisione inglese (curiosamente Britten odiava la televisione e diventò possessore di un apparecchio televisivo solo nel 1973 quando la DECCA gliene fece regalo per il suo 60° compleanno) fu registrato nel novembre 1970 e la BBC2 lo trasmise il 16 maggio 1971. In seguito conobbe anche rappresentazioni sceniche come quella dell’Opera di Santa Fe nel 1974 e di Glyndebourne nel 1997.

Questa produzione del 2001 di Channel 4 è diretta con sicura professionalità dalla regista Margaret Williams che ambienta la vicenda negli anni ’50. Gli interni sono girati in un maestoso ma inquietante castello, nel testo la tenuta di Paramore, pieno dei minacciosi ritratti degli antenati di Owen Wingrave, l’ultimo rampollo orfano dei genitori e predestinato come tutti i maschi della casa alla carriera militare.

La tecnica cinematografica permette di giocare sui cambi di scena – gli esterni ci portano nei parchi londinesi e nella campagna inglese – e sulla recitazione degli attori/cantanti, qui di grande livello da Dame Josephine Barstow, la terrificante zia, a Martyn Hill, il nonno militarista. Su tutti svetta la magnifica interpretazione di Gerald Finley, il Wingrave che rifiuta di seguire la tradizione famigliare a fornire militari da immolare per la patria, padre compreso. La sua decisione è aspramente criticata dai membri della famiglia che arrivano a diseredarlo del patrimonio. Owen non trova sostegno neppure nella fidanzata Kate, uno dei personaggi più antipatici della storia dell’opera, che accusandolo di codardia lo sfida a dimostrare il suo coraggio passando una notte nella stanza maledetta del castello, infestata da fantasmi da quando fu commesso un omicidio nel lontano passato. Owen acconsente, ma al mattino seguente è trovato morto.

Kent Nagano alla testa della Deutsches Symphony Orchestra dà magnificamente vita a questa raffinata partitura in cui la percussione trattata come un’orchestra gamelan sembra alludere a una libertà e a una felicità lontane.

Nessun extra e assenza di sottotitoli in italiano nel disco della ArtHaus.

Perséphone

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★★★★★

«Il gesto incompleto della vita»

Con lo stesso impianto scenico di George Tsypin della Iolanta cui è abbinata nella rappresentazione al Teatro Real di Madrid nel 2012, la Perséphone di Stravinskij è, secondo il regista Peter Sellars, un altro esempio di magia della visione: là Iolanta esce dalle tenebre e acquista il dono della vista per amore, qui il cieco è Eumolpo ed è Persefone a scendere nelle tenebre degli inferi.

Il 1934 è un anno particolarmente felice per Stravinskij: ovunque si danno concerti con le sue musiche e al compositore viene conferita la cittadinanza francese. Nel suo lussuoso appartamento di Faubourg Saint-Honoré e in quello di Ida Rubinstein avvengono gli incontri con André Gide, autore del testo sul mito di Persefone oggetto della breve opera di canto, recitazione e danza che verrà presentata quello stesso anno.

La figlia di Demetra viene rapita da Plutone per portare alle ombre degl’inferi un po’ della luce e del calore della terra di cui sono prive. Persefone deciderà da allora di dividere la sua vita tra la superficie e il regno di Plutone e i suoi viaggi annuali tra la terra e l’oltretomba daranno vita alle stagioni. Come canta Eumolpo nel finale: «Affinché sia permesso alla primavera di ritornare, è necessario che il seme acconsenta a morire sotto terra per rinascere nelle messi dorate dell’avvenire».

Sembra che Gide sia rimasto negativamente colpito dal trattamento musicale di Stravinskij dei suoi versi, ma il musicista russo con i colori diafani della sua orchestra e il ritmo cullante delle sue melodie conferisce loro una lievità che non contraddice affatto lo spirito dell’opera del poeta premio Nobel. E alla delusione di Gide corrispose infatti l’entusiasmo del poeta Paul Valéry che assistette a tutte le rappresentazioni all’Opéra dello spettacolo in cui la Rubinstein recitava e danzava la parte di Persefone. La parte coreografica verrà poi interpretata tra gli altri da Balanchine nel primo dopoguerra, Ashton nel 1961 e Pina Bausch nel 1965.

Per la parte danzata qui Sellars ha l’intelligenza di impiegare una compagnia di danza cambogiana, la Amrita Performing Arts, rinata dopo la devastazione di Pol Pot che nel giro di due settimane distrusse teatri, scenari e costumi di questa millenaria forma d’arte e ne uccise tutti i danzatori, ma dalle tenebre della mostruosa violenza dei Khmer Rossi torna a rivedere la luce. Le aggraziate e stilizzate movenze si adattano alla perfezione alla leggerezza della musica impiegata da Stravinskij per questo delicato racconto mitologico.

Paul Groves, che aveva già inciso il ruolo di Eumolpo sotto la bacchetta di Sir Andrew Davis ai BBC Proms del 2003, ritorna qui con la sua luminosa voce tenorile nell’unica parte di cantante solista prevista dall’opera, essendo corali gli altri interventi vocali e recitata da un’attrice, qui Dominique Blanc, la parte di Persefone.

Currentzis anche in questa partitura dimostra la sua sensibilità e competenza in questo repertorio che fa parte della sua educazione musicale essendo egli di origine greca ma con studi completati al conservatorio di San Pietroburgo.

Iolanta

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★★★★★

La tirannia della negazione

L’ultima opera di Čajkovskij, scritta contemporaneamente allo Schiaccianoci e rappresentata assieme al balletto nel 1892 al Mariinskij di San Pietroburgo, è un atto unico che nella programmazione dei teatri d’opera viene generalmente abbinato ad Aleko (1893) del compositore russo Rachmaninov. Così avvenne infatti anche al Regio di Torino nel 1980, ma già allora la disparità delle due opere fu evidente: da una parte la prova dell’esame di diploma di un diciottenne (una specie di Cavalleria rusticana ambientata fra gli zingari), dall’altra il lavoro tratto da un fiaba di Andersen che concludeva la carriera del tormentato musicista cinquantatreenne il quale avrebbe posto fine alla sua vita di lì a pochi mesi.

Iolanta, la figlia del re di Provenza, è cieca, ma non lo sa. Il padre ha imposto che nessuno le parli di colori, di bellezza, di luce o di quant’altro possa far sospettare alla ragazza la sua menomazione. Il medico afferma che solo la volontà di vedere potrà farla guarire, ma il padre preferisce non far soffrire la figlia. L’arrivo del cavaliere di Vaudémont ne scombina però i piani: Iolanta si innamora del giovane che le narra delle gioie della vista. Ecco quindi un buon motivo per guarire. E così avviene, con lode finale al Creatore.

Per questa fiaba delicata, il cui libretto del fratello Modest si basa su un testo di Henrik Hertz, il compositore russo scrive una delle sue pagine più belle, piena di trasparente lirismo dalla scena iniziale del giardino fino al duetto estatico fra i due giovani. Il quartetto d’archi e il quartetto di voci femminili con cui inizia l’opera danno subito il colore intimo di questa preziosa partitura. L’ambientazione in Provenza sembra far dimenticare al musicista le sue origini russe, ma il mistico inno finale a cappella ha il colore di un solenne canto ortodosso rivisto con sensibilità wagneriana. Viene infatti inserito qui un canto tratto dalla Liturgia di San Giovanni Crisostomo (op. 41) che lo stesso Čajkovskij aveva composto nel 1878.

Nel 2012 il Real di Madrid, in mano a Gérard Mortier e uno dei teatri dalla programmazione più stimolante, abbina quest’opera a quella di un altro russo, la Perséphone di Stravinskij, affidate entrambe a quel mago di Peter Sellars che assieme alle oniriche scenografie di George Tsypin fornisce uno spettacolo di grande intensità e bellezza. Suo collaboratore abituale, Tsypin costruisce in pochi tocchi una scena non naturalistica con cornici sormontate da massi in equilibrio che sembrano usciti da un quadro di Dalì e che accennano ai portali della reggia del re René. Ma è la magia della luce e dei colori la vera protagonista più volte invocata dal libretto in quest’opera. È di Sellars anche la regia video, come è di solito nei suoi spettacoli, che alterna i primi piani intensissimi dei personaggi alle scene d’assieme riprese da più angolature.

Ekaterina Ščerbačenko, voce preziosa e dal piacevole timbro slavo, è l’innocente Iolanta che in un sol colpo scopre l’amore e la visione. Ed è doppiamente fortunata, perché il fascinoso Pavel Černoch è un buon motivo per recuperare la vista. Né delude la prestazione vocale del giovane tenore moravo.

Le voci basse di Willard White (il dottore) di casa qui al Teatro Real di Madrid, di Dmitrij U’lianov (il padre) e di Alekseij Markov (Robert duca di Borgogna) sono tutte e tre diversamente eccellenti così come il trio di voci femminili tra cui spicca Ekaterina Semenčuk (Marta). Omogeneità e armonia sono il pregio maggiore di questo cast di interpreti.

Teodor Currentzis dirige con giovanile esuberanza, ma anche sentito lirismo l’orchestra madrilena.

Nel bonus del disco, che ha anche i sottotitoli in italiano, il regista ci fa partecipi delle sue sempre interessanti considerazioni sulle opere e della sua concezione dello spettacolo. Ottimi l’immagine e l’audio.

  • Iolanta, Gergiev/Treliński, New York, 14 febbraio 2015

The Rake’s Progress (La carriera di un libertino)

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Igor Stravinskij, The Rake’s Progress

★★★★★

Torino, Teatro Regio, 18 giugno 2014

Il memento mori di McVicar e Stravinskij

Nuovo spettacolo con la regia di David McVicar in Italia dopo il suo Faust a Trieste e Les Troyens a Milano, questo Rake’s Progress è in coproduzione con la Scottish Opera con cui aveva debuttato nel 2012 a Glasgow.

Nessuna attualizzazione dell’ambientazione, siamo in pieno Settecento con le scene e i costumi di John MacFarlane: elementi di legno incorniciano fondali dipinti e prospettive architettoniche nel gusto dell’epoca e il tutto è dominato dal senso della morte rappresentato da un grande scheletro che troviamo già dipinto sul sipario, poi nel lugubre orologio a cucù del bordello e infine nella mano ossuta che scosta il sipario per mostrarci la casa londinese di Tom, una Wunderkammer il cui  eterogeneo bric-à-brac verrà messo all’asta per ripianare i debiti del libertino.

La regia è piena di gustosi dettagli e varrebbe la pena vedere due volte lo spettacolo per assaporali tutti. La cura registica trova nei cantanti, tutti debuttanti in Italia, validi interpreti. Bo Skovhus è anche un ottimo attore e delle doti recitative della De Niese non si avevano dubbi. Vocalmente il Nick Shadow del cantante danese è forse un po’ troppo leggero, ma il personaggio esce comunque molto ben definito. La De Niese, sempre elegante e musicalissima dà il meglio di sé nella struggente ninna nanna del finale. L’americano Leonardo Capalbio è la voce al protagonista, timbro piacevole e ottima linea di canto. Annie Vavrille rifugge giustamente da eccessi caricaturali facendo di Baba la Turca un personaggio molto umano.

Su tutti Noseda stende le note di quest’opera senza cadere nella trappola del freddo gioco neoclassicista (tanto criticato alla prima di Venezia nel 1951) né della chiave satirica e caustica della vicenda fine a sé stessa. La sua direzione è di un equilibrio perfetto e gli applausi della serata suggellano degnamente uno degli spettacoli più belli delle ultime stagioni del Regio torinese.