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Hector Berlioz, Les Troyens
★★★★★
Milano, Teatro alla Scala, 8 aprile 2014
La visionaria opera di Berlioz alla Scala
Ritornano a Milano Les Troyens. Nel 1982 erano stati Ronconi e Frigerio (Prêtre sul podio) con la loro scenografica grandiosità a celebrare l’epos del lavoro di Berlioz in un allestimento che venne poi ripreso nel ’96 con Colin Davis. L’altra importante messa in scena in Italia dell’opera fu invece quella di Vick a Firenze (2002), una lettura politica e antimilitarista in un’ambientazione moderna poco apprezzata dal pubblico di allora. Non è invece mai arrivata qui la fantascientifica messa in scena de La Fura dels Baus di Valencia (2010).
McVicar col suo allestimento creato per il Covent Garden di Londra prende una strada apparentemente più tradizionale che non stravolge e non rifugge dalla spettacolarità del grand-opéra, ma vi insinua una drammaturgia modernamente attenta ai personaggi. Il regista scozzese è inoltre maestro nel muovere sia i singoli che le masse che le macchine.
Le scene di Es Devlin dipingono nella prima parte una Troia del tutto votata alla guerra, dalle tinte fosche, le cui mura sono una mostruosa macchina con leve, ingranaggi e armi. Con gli stessi elementi è costruito il cavallo che viene portato dentro la città dagli incauti abitanti con quella enorme testa che spunta minacciosa tra fumi rossastri. Completamente diversa la seconda parte con una Cartagine luminosa e dai colori caldi. Nel finale il modellino della città è spezzato in due come l’amore tra Enea e Didone e la pira su cui si immola la regina cartaginese è fatta ancora una volta con quegli ingranaggi e quelle armi che costituivano sia le mura di Troia sia il cavallo che ne ha causato la fine.
Tardo-ottocenteschi i costumi dei troiani, mentre i cartaginesi sfoggiano abiti più consoni al caldo nordafricano. Non memorabili sono sembrate le coreografie di Lynne Page.
Al suo debutto alla Scala un Pappano esemplare fa rifulgere l’immensa orchestra nei mille colori della partitura, dalle grandiose pagine corali all’atmosfera arcana delle apparizioni a quella amorosa del duetto del quarto atto con quella «Nuit d’ivresse» di cui si ricorderà Offenbach quando scriverà la sua celebre barcarola.
Anna Caterina Antonacci è una Cassandra vocalmente poco declamatoria, ma dalla gestualità marcata che scolpisce il suo personaggio con intelligenza. Daniela Barcellona è una Didone più sicura, regale ed esuberante qui che a Valencia. Meglio di tutti l’Enea di Gregory Kunde, lirico nel ruolo ed eroico nell’impegno vocale in cui brilla la sua musicalità e il suo fraseggio prezioso.
Decisamente non allo stesso livelli gli alti interpreti, soprattutto il Corèbe di Fabio Capitanucci con alcuni problemi di intonazione. Elena Zilio che nell’82 era Ascanio ora è la vecchia Hécube.
Pubblico soddisfatto sia in platea che in loggione. Non succedeva da tempo alla Scala.
⸪