Mese: novembre 2017

Dom Sébastien

Gaetano Donizetti, Dom Sébastien, Roi de Portugal

direzione di Paolo Arrivabeni

regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi

19 dicembre 1998, Teatro Comunale, Bologna

Grand opéra in cinque atti di Eugène Scribe andata in scena all’Opéra di Parigi il 13 novembre 1843 con Rosina Stoltz e Gilbert-Louis Duprez. Si tratta dell’ultimo lavoro scritto da Donizetti prima di manifestare i segni della follia dovuti probabilmente alla sifilide di cui morirà nel 1848.

L’azione si svolge nel 1578. Dom Sébastien, nell’atto di partire insieme al fedele Camoëns per una crociata contro gli infedeli, concede la grazia alla musulmana Zayda, che gli giura eterna riconoscenza. Approfittando dell’assenza di Dom Sébastien e della debolezza del viceré Dom Antonio, l’inquisitore Juam de Sylva progetta di cedere il Portogallo alla Spagna di Filippo II. Intanto l’esercito portoghese è sbaragliato in Marocco dalle truppe di Abayaldos, promesso sposo di Zayda e il re è creduto morto; in realtà la fanciulla ha avuto modo di salvargli la vita e di rivelargli il suo amore. Mentre Dom Antonio, che ha assunto la corona, riceve Abayaldos (giunto per proporre un’alleanza), Dom Sébastien, grazie all’aiuto di Zayda, rientra in patria in incognito. Durante la celebrazione dei suoi funerali, il re si fa riconoscere dal popolo, tentando di sollevarlo contro l’usurpatore. Accusato di impostura (poiché Abayaldos si dice convinto della sua morte), è imprigionato insieme a Zayda la quale, tentando di salvarlo, viene condannata per adulterio. L’inquisitore offre la salvezza a entrambi, in cambio dell’abdicazione in favore di Filippo II. Nonostante Zayda lo scongiuri, Dom Sébastien acconsente. Intanto Camoëns ha organizzato la fuga, ma mentre i due amanti si calano con una scala di corda sulla scogliera, gli uomini dell’inquisitore li fanno precipitare in mare. Dom Antonio esulta, ma l’inquisitore gli mostra l’atto di abdicazione.

Problematica la ricostruzione della partitura autografa, poiché dopo la prima Donizetti revisionò l’opera, inizialmente per Parigi e in seguito per Vienna (febbraio 1845), con alcuni tagli, un finale diverso e una nuova cabaletta per Zayda nel secondo atto. In quell’occasione, nonostante le aggravate condizioni di salute, il musicista riuscì a dirigere personalmente l’opera. In seguito, Dom Sébastien apparve alla Scala nell’agosto 1847 quando Donizetti era ormai gravemente ammalato – ovviamente tradotta in italiano e in una versione più simile a quella viennese che a quella parigina.

Nel suo saggio sulle opere di Donizetti William Ashbrook dedica le ultime venti pagine, zeppe di esempi musicali, a questa che è la più sfarzosa e scenografica delle tre opere dello stesso genere – le altre due essendo Le duc d’Albe e La favorite.

Nella stagione 1998/99 del Comunale di Bologna Pier Luigi Pizzi allestisce la versione francese diretta da Paolo Arrivabeni. Dom Sébastien è Giuseppe Sabbatini, Dom Antonio Pierre Lefebvre, Dom Juam de Sylva Giorgio Surian, Ben-Senim Riccardo Zanellato e Zayda Sonia Ganassi. Nel balletto dell’atto secondo coreografato da Gheorghe Iancu appaiono Carla Fracci e Roberto Bolle.

L’edizione più recente del Dom Sébastien è quella incisa nel 2005 da Mark Elder con Vesselina Kasarova e Giuseppe Filianoti.

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Il borgomastro di Saardam

photo @ Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Il borgomastro di Saardam

★★★★☆

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Bergamo, Teatro Sociale, 26 novembre 2017

Un’opera buffa di Donizetti rivive a Bergamo

Non solo Pesaro con il Rossini Opera Festival, anche Bergamo intitola un Opera Festival al suo illustre figlio Gaetano Donizetti, una lunga festa di compleanno dedicata all’altro creatore di opere del belcanto italiano. Il festival è occasione per far conoscere lavori poco frequentati del compositore, come questo Il borgomastro di Saardam. Il libretto, di Domenico Gilardoni, è basato sulla comédie-héroïque Le Bourgmestre de Sardam, ou Les deux Pierre di Mélésville, Merle e Boirie (1818) e la stessa vicenda ispirerà lo Zar und Zimmermann di Albert Lortzing nel 1837.

Lo zar Pietro I (il Grande), monarca autoritario ma illuminato, nella sua visione ammodernizzatrice della Russia di fine Seicento aveva intrapreso numerosi viaggi all’estero per carpire i segreti dell’arte militare e della tecnologia delle aree più avanzate della civiltà europea. Eccolo quindi nei cantieri navali di Saardam, nei Paesi Bassi, dove si finge carpentiere.

Atto primo. Nell’officina navale di Sardaam Pietro il Grande – in viaggio in incognito per fare esperienze – finge di essere un falegname (col nome di Pietro Mikailoff). Tra gli operai c’è anche Pietro Flimann, anch’egli russo ma disertore, innamorato di Marietta, cui il Borgomastro Wambett fa da tutore. Giunge Leforte, generale e confidente dello zar (anch’egli in incognito), che annuncia l’arrivo al cantiere del Borgomastro. Flimann rivela a Mikailoff la sua condizione di disertore e il suo amore per la ragazza che giunge in quel momento insieme alle mogli dei carpentieri per portare il pranzo. Marietta rivela a Flimann il suo amore per lui. Giunge il Borgomastro in cerca di uno straniero di nome Pietro, ma sulle prime decide di lasciare andare i due russi; arriva quindi anche Carlotta, figlia di Wambett insieme ad uno straniero di nome Alì, in missione diplomatica, anche lui in cerca di un uomo di nome Pietro. In una taverna, i due Pietro (Mikailoff e Flimann) discutono d’amore quando entrano il Borgomastro ed Alì che alla fine pensano che lo Zar sia Flimann.
Atto secondo. 
Ritenuto Zar, Flimann svela a Marietta l’equivoco. Intanto Leforte annuncia a Mikailoff l’urgenza di tornare in Russia per sedare una rivolta, usando una nave che presto sarà in rada. Wambett – che da tutore vorrebbe diventare marito di Marietta – inizia a corteggiarla nonostante i dinieghi di lei. Flimann è sconfortato quando, rientrati Leforte e Mikailoff, viene svelata, tra lo stupore generale, la vera identità dello Zar; questi perdona pubblicamente Flimann per la sua diserzione, lo nomina ammiraglio della sua flotta, titolo utile a sposare Marietta, e lo unisce in matrimonio con l’amata. Tutti, tranne Wambett, festeggiano, mentre Marietta si lancia in un canto di felicità riconoscente.

L’opera buffa di Donizetti debutta nel 1827 a Napoli con favore di pubblico e critica, ma quando viene ripresa a Milano l’anno dopo, in una versione modificata, è un fiasco completo. Come mai una tale differenza di ricezione tra le due città? Il fatto è che mentre a Napoli furoreggiava Rossini, a Milano i gusti stavano cambiando verso un altro tipo di melodramma e qui era Bellini a mietere i maggiori successi: il rossinismo di Donizetti era considerato sorpassato e nel Borgomastro di Saardaml’impronta del compositore pesarese era particolarmente evidente, soprattutto nei concertati. L’opera ha tuttavia i suoi punti di originalità che anticipano pagine del Donizetti futuro, quello dell’Elisir d’amore o addirittura del Don Pasquale.

Per oltre un secolo questo lavoro venne quasi dimenticato fino al 1974 quando fu rappresentato a Zaandam, nome moderno della cittadina olandese sede della vicenda, anche se in un’edizione molto discutibile. Ora è la volta della città natale di Donizetti di rimetterlo in scena al Teatro Sociale in una produzione affidata al regista cinematografico Davide Ferrario alla sua sua prima regia lirica. Quella che viene messa in scena è la versione milanese del 1828, l’unica rimasta completa, e Ferrario recupera parte della componente comica della versione originale (in cui il protagonista titolare aveva il ridicolo appellativo di Timoteo Spaccafronna e si esprimeva in dialetto napoletano) con alcune gag da comiche del cinema muto. Il regista non rinuncia però a omaggiare il cinema sovietico delle origini con inquadrature tratte da film dell’epoca mentre altre immagini video in bianco e nero della città vecchia suggeriscono ironicamente che la vicenda sia ambientata in una Bergamo inopinatamente affacciata sul mare.

La rappresentazione del Borgomastro di Saardam avviene mentre la città onora i duecento anni della figura di Giacomo Guarenghi, l’architetto che diede un volto neoclassico alla città di Pietroburgo, e anche alcune di queste immagini si ritrovano nello spettacolo. Nelle semplici scene di Francesca Bocca, in pratica solo alcuni schermi su cui si proiettano le immagini, la nave in legno che viene costruita nel primo atto servirà a portare in Russia lo zar assieme ad alcuni valenti carpentieri.

In scena si muove un coro presente fin dall’inizio che dà buona prova di coesione e vivacità assieme a un cast di interpreti di ottimo livello. Il protagonista titolare non ha qui grande importanza vocale, ma Andrea Concetti delinea con umorismo un borgomastro goffo che si perde dietro alle gonnelle della giovane pupilla Marietta a cui il compositore dedica le pagine più ricche del belcanto con agilità e colorature affrontate in modo impeccabile da Irina Dubrovkaya. Nella versione di Milano la parte di Carlotta perde di importanza e quindi Aya Wakizono ha meno occasioni di far sentire la sua calda voce di mezzosoprano. La parte dello zar Pietro ha una notevole rilevanza in quest’opera e Giorgio Caoduro ne ha padroneggiato con grande tecnica ed eleganza le difficoltà vocali. Di Francisco Gatell, specialista del teatro rossiniano, già si conoscevano le competenze, qui ulteriormente dimostrate nella parte dell’altro Pietro, il disertore Flimann, a cui il tenore ha aggiunto le sua qualità di attore comico. Pietro di Bianco con il suo Leforte, ufficiale dello zar anche lui in cognito, ha completato degnamente il gruppo di personaggi principali.

L’attenta e vivace direzione di Roberto Rizzi Brignoli mette in luce i caratteri particolari e la bella orchestrazione di quest’opera che mancava dai teatri da più di un secolo e mezzo e il cui recupero non sarà la riscoperta di un capolavoro nascosto, ma la giusta riedizione di un’efficace macchina di intrattenimento.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Losanna, Opéra, 4 ottobre 2017

(video streaming)

La Lucia splatter di Poda

Questa produzione dell’Opéra de Lausanne del capolavoro romantico di Donizetti si avvale della visionarietà di Stefano Poda. Come al solito il regista si occupa anche di scene, luci e costumi: un mondo astratto e stilizzato tutto al maschile, nero, opprimente quando non brutale. Strutture geometriche che salgono e scendono, il castello degli Ashton è una scaffalatura di tubi che pullula di minacciose figure maschili in lunghe palandrane nere, altre strutture geometriche scenderanno e saliranno: una cubica a ingabbiare Lucia nella scena del parco dell’atto primo. Nella stessa gabbia Edgardo canterà «Tombe degli avi miei».

L’attualizzazione dell’ambientazione è ormai di prammatica di questi tempi, né sfuggono a questo neoconformismo i costumi, tutti rigorosamente in nero. Sola macchia di colore è quello di Lucia prima in rosso e poi in bianco come lo sposo, un bianco però presto insozzato di sangue. La freddezza della lettura di Poda nella scena della pazzia incontra lo splatter con una profusione di liquido rosso sul corpo nudo di Arturo assassinato su cui si adagia la donna scambiandolo per Edgardo. Nel finale Edgardo li raggiunge tagliandosi la gola e aggiungendo altro sangue a quello già presente.

Come sempre totale è l’assenza di regia attoriale e gli interpreti ci mettono del loro, ma continuano a vagare per la scena come il resto del coro deambulante al rallentatore. Momenti efficaci come quando Lucia denuda il petto quale vittima sacrificale allorché cede alle pressioni del fratello a sposarsi, si alternano ad altri più lambiccati o al limite del ridicolo come nell’“assunzione” finale quando i due salgono “in cielo” e per terra rimane il cadavere insanguinato di Arturo.

L’accompagnamento della glasharmonica è ormai, giustamente, di rigore e in questo allestimento il suono irreale dello strumento si riflette nella miriade di coppe di cristallo sulla tavola degli invitati che, pure loro chini sui bicchieri, passano il dito sull’orlo con sguardo stralunato.

I due protagonisti sono entrambi debuttanti nel ruolo e ciò rende ancora più pregevoli le loro performance. Lucia è Lenneke Ruiten, che supera le difficoltà della parte con una tecnica ragguardevole e un bel volume di voce. Se risulta un po’ fredda all’inizio nel cantabile «Regnava nel silenzio», nella seconda parte della scena della pazzia in «Spargi d’amaro pianto» le agilità sono grida di dolore e il soprano olandese raggiunge un’intensità stupefacente appena incrinata da due acuti un po’ troppo gridati. Airam Hernández è un Edgardo giovanile e squillante che però offre il meglio nel finale con colori e toni molto ben sfumati. Grossolano e stentoreo l’Enrico di Ángel Ódena che non conosce mezze tinte. Sarebbe meglio il Raimondo di Patrick Bolleire se non fosse per una voce ingolata e una improponibile dizione impastata in cui poche sono le parole non storpiate. Eppure siamo a pochi chilometri dal confine italiano! Non molto meglio sono Normanno e Arturo. Eccellente, invece, pur nella parte esigua, l’Alisa di Cristina Segura.

La direzione musicale di Jesús López-Cobos è intensa e teatrale ma se la deve vedere con un coro piuttosto impreciso che mette spesso in sfasamento il palcoscenico con la buca. Il maestro apre giustamente tutti i tagli di tradizione, compresa la scena della torre di Wolferag, dando però così più spazio al ruolo di Enrico, purtroppo.

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TEATRO CIVICO PUCCINI

Teatro Civico Puccini

Merano (1900)

296 posti

Verso la fine del XIX secolo Merano aveva bisogno di un teatro vero e proprio per le esibizioni delle compagnie, che venivano ospitate nel teatro provvisorio del Kurhaus, nel Pavillon des Fleurs. Il presidente dell’azienda di Cura e Soggiorno istituì nel 1884 un comitato per la costruzione del teatro. Nel 1899 furono presentati cinque progetti, tra i quali risultò vincente quello dell’architetto Martin Dülfer, di Monaco di Baviera e a settembre del 1899 iniziarono i lavori, che durarono solo 14 mesi. Il primo dicembre del 1900 il teatro Puccini fu inaugurato con il Faust di Goethe.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale sul palco recitò una compagnia locale, la Südtiroler Landesbühne. Negli anni ‘50 l’avvento della televisione portò a disinteressarsi del teatro e fino agli anni Settanta, per problemi economici e un incendio, questo rimase chiuso. Dopo i lavori di ristrutturazione il teatro fu riaperto nel 1978. Nel 2000 sono stati ristrutturati il tetto e la facciata dell’edificio e il 1° dicembre è stato celebrato il 100° anniversario di fondazione.

Le baruffe chiozzotte

Carlo Goldoni, Le baruffe chiozzotte

Regia di Jurij Ferrini

Torino, Teatro Gobetti, 21 novembre 2017

Goldoni up-do-date

Che strano ambiente quello di Titta Nane, Padron Toni, Toffolo, Lucietta, Checca e di tutti gli altri personaggi de Le baruffe chiozzotte: non ci sono genitori, non ci sono figli. Qui sono tutti fratelli/sorelle/cognati. E sono quai tutti novizzi, a parte Isidoro, il “Coadiutore del Cancelliere Criminale”. I maschi in mare per mesi, le femmine a fare merletti al tombolo e a sognare il donzelón: «Co una putta xé granda, se ghe fa el donzelón. E co la gh’ha el donzelón, xé segno che i soi i la vol maridare».

Goldoni per una volta smette di portare in scena la borghesia e la decadente nobiltà della sua città per spostarsi di qualche chilometro, a Chioggia, e riprendere le povere vite dei pescatori e delle loro donne, una umanità senza ventagli e chicchere, in preda a istinti più immediati e a sentimenti più forti, come la gelosia innanzitutto. È solo qualche chilometro, ma è un mondo tutto diverso, che parla anche una lingua diversa, il chiozzotto, quasi incomprensibile ai veneziani e figurarsi al resto del mondo. Ed per per questo che nella sua produzione per lo Stabile torinese il regista Jurij Ferrini utilizza una traduzione in italiano corrente – molto corrente, comprese volgarità e parole grosse – di Natalino Balasso. Un adattamento che fa dei tre atti un unico tempo di un’ora e tre quarti. Della malinconia che pervadeva il glorioso lavoro di Strehler con le musiche di Fiorenzo Carpi qui non c’è traccia, o meglio è tutta compressa negli ultimi secondi dello spettacolo con la finta allegria e il matrimonio controvoglia di Checca con Toffolo.

Lo spettacolo è visto come una prova teatrale, con il regista/Isidoro che a parte annuncia le scene prima di entrare anche lui nel pieno della vicenda, deus ex machina suo malgrado, che rappacifica i contendenti dopo tante baruffe. Della lingua originale rimane soltanto la parlata di padron Fortunato che nessuno capisce, a parte la moglie e il messo di giustizia venuto dal profondo sud e col quale Fortunato intraprende un duetto verbale di esilarante surrealismo. Tra una scena e l’altra risuonano le note magiche della voce da un altro mare, quella di Fabrizio de Andrè di Crêuza de mä.

Con rapidi spostamenti di praticabili su ruote le scene di Carlo de Marino suggeriscono gli ambienti della vicenda: la strada con casupole, la veduta del canale, la Cancelleria. I costumi sono di tutti i giorni, essendo una prova. In fondo alla scena sui loro manichini aspettano gli abiti settecenteschi. Questa sera non saranno indossati.

 

Jackie O

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Michael Daugherty, Jackie O

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 2 luglio 2008

(registrazione video)

Un’opera pop

Commissionata dalla Houston Grand Opera, Jackie O è stata messa in scena nel 1997 al Cullen Theatre di Houston, TX. Lontano dalle avanguardie – l’autore sembra quasi fare il verso al Philip Glass della scena iniziale del suo Einstein on the Beach quando fa qui intonare le cifre che compongono il numero 1968 – esplora con la sua musica le possibili interazioni fra i vari linguaggi musicali: l’opera lirica tradizionale, il musical, il rock e il jazz.

Tastierista rock, pianista jazz, studente di composizione in università e conservatori americani ed europei, Michael Daugherty è un musicista americano fortemente influenzato dalla cultura pop. Suoi lavori sono stati ispirati dalle figure di Elvis Presley, Diego Rivera, Frida Kahlo e, nel caso di questa opera, da Jacqueline Bouvier prima moglie di J.F.Kennedy e poi di Aristotele Onassis: «Gli anni sessanta del secolo scorso furono un periodo in cui assassinii politici, riforme dei diritti civili, droghe, Woodstock, la Pop Art e la guerra del Vietnam cambiarono drammaticamente il volto dell’America. Il mondo trasformò una restia Jackie Kennedy, e più tardi una restia Jackie Onassis, in una celebrità, e più tardi in un’icona dei tumulti politici e sociali del tempo. Il suo matrimonio da fiaba, nel 1953, con John F. Kennedy e la sua ascesa alla Casa Bianca ne fecero una beniamina del pubblico. L’assassinio del Presidente Kennedy nel 1963 sconvolse il mondo intero. Nel 1968, il controverso secondo matrimonio con l’armatore greco Aristotele Onassis, le facilitò il ritiro dalla vita pubblica» scrive il regista.

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I singoli personaggi sono connotati da specifici stili musicali, come dice lo stesso compositore: «Ciascun personaggio ha un mondo sonoro tutto suo. Le arie di Jackie sono esotiche, malinconiche e molto espressive. In contrapposizione, le arie di Onassis ricordano Las Vegas, Dean Martin o i Rat Pack degli anni sessanta. Lo stile di Maria Callas è operistico ma, dato che negli anni sessanta la diva stava perdendo la voce, canta, melodrammaticamente, nel registro basso, e in qualche occasione ricorre persino al parlato. Liz Taylor ha frasi corte e di tipo blues, mentre la Principessa Grace intona alla Doris Day. L’aria di Andy Warhol, come la sua arte, è una serie di ripetizioni modulate. Il coro ha una parte di rilievo in tutta l’opera».

Il testo di Jackie O è di Wayne Koestenbaum, prolifico saggista e scrittore americano acuto analizzatore dei fenomeni mediatici (Moira Orfei in Aigues-Mortes, The Anatomy of Harpo Marx), di pop art (innumerevoli scritti su Andy Warhol) e di opera lirica (The Queen’s Throat: Opera, Homosexuality and the Mistery of Desire). Jackie under my Skin: Interpreting an Icon è la fonte primaria del libretto.

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Il primo atto inizia con Jacqueline Kennedy, non ancora Onassis, sola in scena in tailleur Chanel color pesca, mentre un lungo e teso assolo di violoncello accompagna le immagini in bianco e nero del suo matrimonio con J.F.Kennedy fino all’agguato a Dallas nel 1963. Subito dopo l’atmosfera cambia e il palcoscenico del Comunale di Bologna si trasforma in un happening in cui si celebrano il 1968 e le sue icone: Liz Taylor, Grace Kelly, Andy Warhol tutti in attesa di Jackie («Jackie’s coming!») sotto una enorme lattina di Campbell Tomato Soup che si trasformerà in seguito in alcova, bar, … Assieme a un divano rosso di pelle sarà l’unico elemento della scenografia di Paolo Fantin.

Siamo nella Factory di Warhol e toni jazzistici si alternano a songs melodici, a riff di sassofono, a ritmi di danza. Maria Callas e Onassis entrano in scena in un duetto con accompagnamento di ottoni e la donna si lamenta di essere trascurata dall’armatore («You made my toes curl. You made me forget high Cs. I almost stopped wanting applause»). L’uomo le risponde con un «Addio del passato» e poi conquista Jackie con una Habanera sulle parole «I am curious (yellow)» titolo del film di Vilgot Sjöman (Jag är nyfiken, en film i gult, 1967) che i due si apprestano ad andare a vedere insieme («Don’t look back»).

Nel secondo atto siamo sullo yacht “Christina” dell’armatore. È passato un anno dal suo matrimonio con Jacqueline. Onassis e i suoi amici playboy elencano in ordine alfabetico tutti i possibili nomi di cocktail («Stiff drink») in una moderna versione di una scena operistica di brindisi. Jackie si dimostra sempre più melanconica, tanto che Onassis promette a Maria Callas di andarla a trovare al Lido di Venezia. Le due donne intanto si incontrano («The flame duet») durante una passeggiata sull’isola di Skorpios, proprietà privata dell’armatore, e si riconciliano. Jackie comunica con la voce del suo ex marito che le perdona le sue passate infedeltà («Jack’s song») e la donna decide di ritornare in America («The new frontier is here»). Lo spettacolo si conclude con le immagini dell’attacco dell’11 settembre alle Twin Towers.

Presentata con enorme successo negli USA, dove ogni anno centinaia di titoli nuovi prendono la via delle scene, qui, dove siamo abituati a cartelloni basati sui soliti trenta titoli, il lavoro di Daugherty ha avuto una tiepida accoglienza nonostante l’impegno del maestro Christopher Franklin alla testa dell’orchestra del Comunale, la regia scorrevole di Michieletto e i validi interpreti, tra cui ricordiamo i due italiani Simone Alberghini, Onassis che si esprime spesso in falsetto, ed Enea Scala, la voce del fantasma di JFK. La protagonista ha la voce di Fiona Mc Andrew.

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Maria by Callas

Tom Volf, Maria by Callas

2017 Assouline, 260 pagine

Della sterminata bibliografia su Maria Callas fa parte anche quest’ultimo volume del cineasta Tom Volf il quale ha curato la mostra con cui si è inaugurata un’altra spettacolare location culturale parigina, “La Seine Musicale” sull’isola Seguin a Boulogne Billancourt.

Sotto la struttura ovoidale di cristallo su cui fa perno e ruota seguendo i raggi solari uno spicchio d’acciao ricoperto di pannelli fotovoltaici, ci sono un nuovo auditorium, sei diversi ambienti per prove e registrazioni e un grande spazio espositivo che ospita questa prima mostra dedicata al mito di Maria Callas a quarant’anni dalla sua scomparsa, il 16 settembre 1977.

L’autore e curatore della mostra ha presentato un progetto per scoprire la donna (Maria) dietro la leggenda (Callas). Mentre l’esposizione abbonda di documenti video e sonori, il libro è ricco di documenti fotografici, in gran parte inediti, che ricostruiscono le vite parallele della donna e dell’artista: lei stessa amava definire la sua personalità come duplice, talora quasi due parti antagoniste.

L’autore ha incontrato quelli che le sono stati più vicini, soprattutto Nadia Stancioff, l’amica del cuore, e Georges Prêtre, il suo direttore preferito. Il libro offre una visione intima dell’ultima diva del XX secolo.

Patrice Chéreau

AA.VV., Patrice Chéreau. Mettre en scène l’opéra

192 pagine, Actes sud – Papiers, 2017

Catalogo della mostra tenuta nella biblioteca-museo dell’Opéra di Parigi sulla sconvolgente traiettoria di Patrice Chéreau nel teatro lirico. I 140 documenti appartenenti alla Bibliothèque Nationale de France (fotografie, schizzi, note di regia…) permettono di ricostruirne il lavoro sulla scena operistica.

Il volume contiene contributi di diverse personalità, dal sovrintendente Stéphane Lissner agli artisti con cui ha lavorato: Waltraud Meier, Evelyn Herlitzius, Daniel Barenboim, Pierre Boulez ed Esa-Pekka Salonen.

Tutto parte da quel suo primo spettacolo che fece tanto scalpore al Festival dei due mondi di Spoleto nel giugno 1969, L’italiana in Algeri diretta da Thomas Schippers, per arrivare poi nell’ottobre 1974 a Palais Garnier con Les contes d’Hoffmann, spettacolo che sarà ripreso altre 38 volte fino al maggio 1980 e alla cui direzione si avvicendarono Georges Prêtre, Jean Périsson e Sylvain Cambreling.

Il 24 luglio 1976 è la data storica dell’inizio del suo mitico Der Ring des Nibelungen con Pierre Boulez a Bayreuth, ripreso per altri cinque anni, ma già nel febbraio 1979 di nuovo Palais Garnier vede nascere la sua Lulu, sempre con Pierre Boulez.

Chéreau ritorna in Italia e nel giugno 1984 è alla Scala col Lucio Silla mozartiano,  Sylvain Cambreling sul podio, coprodotto col teatro di Nanterre e con la Monnaie di Bruxelles. L’altra opera di Alban Berg, Wozzeck, è messa in scena allo Châtelet di Parigi nel giugno 1992 e due anni dopo a Berlino alla Staatsoper Unter den Linden prima di ritornare a Parigi nel 1998, sempre con la direzione di Daniel Barenboim. Ancora Barenboim dirige il Don Giovanni con cui Chéreau debutta a Salisburgo nel luglio 1994.

Nel nuovo millennio va in scena il suo terzo Mozart: è Così fan tutte al Festival di Aix-en-Provence nel luglio 2005. Sarà ripreso a Palais Garnier e al Theater an der Wien fino a fine 2006. Sul podio è Daniel Harding.

Chéreau incontra Janáček per Z mrtvého domu (Da una casa di morti): dalle Wiener Festwochen del maggio 2007 la dilaniante vicenda dostojevskiana passa ai teatri di Amsterdam, Aix-en-Provence, New York, Milano, che lo hanno coprodotto con la direzione di Pierre Boulez, per finire le riprese a Parigi nel 2017 con Esa-Pekka Salonen.

Il Teatro alla Scala lo chiama nuovamente, ma stavolta per l’inaugurazione della sua stagione il 7 dicembre 2007 con Tristan und Isolde, nuovamente con Daniel Barenboim. Lo spettacolo sarà ripreso dallo stesso teatro nel 2009.

L’ultima fatica di Chéreau vede ancora una volta il debutto sulle scene del Festival di Aix-en-Provence: diretta da Esa-Pekka Salonen è Elektra, 10 luglio 2013. Pochi mesi dopo il regista muore. La produzione arriverà alla Scala l’anno dopo e nel 2016 al MET, alla Staatsoper di Berlino e al Gran Liceu di Barcellona.

In tutto 11 spettacoli, contando il Ring come uno solo, che hanno cambiato il modo di fare la regia dell’opera lirica.

The Queen’s Throat

Wayne Koestenbaum, The Queen’s Throat

1994 Penguin’s Books, 272 pagine

Pubblicato nel 1994 The Queen’s Throat: Opera, Homosexuality and the Mystery of Desire  è un testo di riferimento per chi voglia capire la fascinazione/ossessione che l’opera esercita sul mondo queer.

L’autore è critico culturale, studioso del mondo gay, poeta, saggista e narratore. Tra i suoi libri di fiction Moira Orfei in Aigues-Mortes e Hotel Theory. Ha anche scritto il libretto dell’opera Jackie O di Michael Daugherty centrata sulla figura di Jacqueline Onassis cui aveva dedicato il saggio Jackie Under My Skin: Interpreting An Icon.

La tesi di Koestenbaum in The Queen’s Throat è che l’opera trae il suo potere da una specie di empatia fisica tra cantante e pubblico che ha a che fare sia con il desiderio che con l’udito. «La danza delle onde sonore sul timpano e il sospiro espirato in sintonia con il cantante, mi persuadono di avere un corpo, una seconda copia del corpo del cantante. Sono un lemming che ha avuto l’imprinting dal soprano, la mia esistenza una conseguenza del suo crescendo».

Il testo è suddiviso in capitoli, ognuno dedicato a un argomento esposto con passione e ironia. L’elenco dei titoli dice tutto:

  1. Opera Queens
  2. The shut-in fan: opera at home
  3. The codes of diva conduct
  4. The Callas cult
  5. The queen’s throat, or how to sing
  6. The unspeakable marriage of words and music
  7. A pocket guide to queer moments in opera

Il libro è stato definito un dialogo appassionato tra una forma d’arte e un modo di vivere, una cornucopia di stravaganze e rimandi autobiografici, come quando racconta che «da piccolo consideravo l’opera imbarazzante. E ancora oggi lo penso: quando sono bloccato nel traffico ho sempre timore che quello nella corsia di fianco mi senta mentre ascolto Montserrat Caballé cantare “Tu che le vanità” o Maria Callas “Convien partir”. Temo sempre che si metta a ridere di me o mi strisci la fiancata dell’auto. Paranoia? […] Quando invece ascolto Madonna lascio i finestrini aperti. Con la Callas li chiudo. Ho timore di estrinsecare i miei gusti. E quando il MET trasmette dalla radio il sabato pomeriggio, mi trovo una qualunque scusa per un viaggio in macchina senza meta. Considero il pedale dell’acceleratore un’estensione della gola della diva e nei crescendo e nelle ascese all’acuto accelero come per empatia, simulazione».

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

★★★☆☆

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Torino, Teatro Regio, 15 novembre 2017

Falstaff a Torino: elegante, ma con poca sostanza

Terzo Falstaff in scena pochi mesi dopo quelli di Milano e di Parma. L’interesse di questa produzione era dato dalla direzione di Daniel Harding più che dallo spettacolo in sé che risale al 2008.

A causa di un incidente occorsogli l’estate scorsa il direttore britannico è stato sostituito da Donato Renzetti, maestro di collaudata esperienza specialmente nel repertorio verdiano, che già aveva concertato l’opera a Cagliari. Con piglio sostenuto egli ha esaltato i momenti più vivaci della vicenda o le chiacchiere delle comari, ma ha saputo sottolineare gli aspetti più lirici della storia d’amore dei due giovani o i momenti  di malinconia del vecchio cavaliere.

La sua è comunque una direzione di tradizione che non svela particolari inediti di una partitura che rappresenta la summa della maestria teatrale di Verdi. L’opera ha avuto una lunga gestazione: già nel lontano 1868 indiscrezioni davano il Maestro intenzionato a scrivere un’opera buffa. Quando la sera del 9 febbraio 1893, il suo terzo lavoro su Shakespeare trionfava alla Scala, era trascorso un quarto di secolo in cui Verdi si era dedicato alla composizione di Aida, Don Carlos, Simon Boccanegra e Otello.

Falstaff trionfa e stupisce: mai fino a quel momento si era sentita un’orchestra così leggera, trasparente, dalla timbrica sempre cangiante, con effetti comici affidati ora a singoli strumenti (i corni…) ora a tutta l’orchestra come nella parodistica fuga del finale. Un’opera all’avanguardia in quel momento, che rappresentava una netta linea di demarcazione tra l’opera dell’Ottocento e i futuri esiti del Novecento. Senza il Falstaff di Verdi sarebbe probabilmente stata impensabile La bohème di Puccini.

La produzione ora al Regio di Torino si avvale di due apprezzabili cast. La sera della prima il ruolo del borioso cavaliere è stato assegnato a un Carlos Álvarez di bella vocalità che ha sottolineato la nobiltà del personaggio rinunciando ad accentuarne gli aspetti farseschi, in tal modo però facendogli perdere un po’ di spessore. Lo stesso si può dire per il composto Ford di Tommi Hakala che per di più ha avuto qualche problema di dizione e si è talora inciampato sugli artificiosi termini del libretto di Arrigo Boito. Entrambi hanno comunque reso con grande classe e con un certo elegante distacco i rispettivi personaggi. Molto ben caratterizzati sono stati i ruoli del Dottor Cajus (Andrea Giovannini) e del comicamente impacciato duo Bardolfo e Pistola (Patrizio Saudelli e Deyan Vatchkov), una sorta di Stanlio e Ollio. Francesco Marsiglia è stato un Fenton di grande corporatura, corretto ma non memorabile.

Nel reparto femminile come Mrs Alice ha cantato Erika Grimaldi, tecnicamente attendibile ma dal timbro ingrato. Più piacevoli la Mrs Meg di Monica Bacelli e la Mrs Quickly di Sonia Prina, un ruolo che quest’ultima ora frequenta spesso dopo aver cantato tanti Händel e Vivaldi. Nannetta ha trovato nel soprano rumeno Valentina Farcaș la grazia vocale e scenica desiderate.

La regia di Daniele Abbado illustra molto linearmente la vicenda senza proporne una lettura problematica e muove con efficacia gli attori – anche se dalla scena del parco di Windsor ci si poteva aspettare qualcosa di meno scontato. La scenografia di Graziano Gregori prevede una grande piattaforma di legno inclinata di forma circolare – che però non ruota! – ed è costellata di tante botole. Da una di questa emerge con uno striminzito parasole ed elegantemente vestito Falstaff in uno dei pochi momenti divertenti della serata. Mobili e pareti scendono dall’alto e sono quindi poco comprensibili i lunghi “cambi di scena” che rallentano il ritmo della rappresentazione. Gli abiti anni 1950 di Carla Teti e le calde luci di Luigi Saccomandi completano uno spettacolo niente più che garbato.