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Leoš Janáček, Z mrtvého domu (Da una casa di morti)
New York, Metropolitan Opera House, 14 novembre 2009
Boulez e Chéreau ancora una volta insieme
Al buon vecchio Leoš dovevano piacere le imprese ardue. Le sue ultime tre opere sono tratte da testi che sembrano impossibili da portare in scena e musicare: una storia d’amore tra volpi (!), un intricato caso giuridico e infine il diario/romanzo di Fëdor Dostoevskij sulla sua detenzione in Siberia. Da una casa di morti (Z mrtvého domu, rappresentata postuma nel 1930) è il titolo dell’opera del compositore moravo, Memorie da una casa di morti (Записки из Мёртвого дома, Zapiski iz Mërtvogo doma, 1862) quello da cui è stato tratto.
Atto I. In un campo di prigionia in Siberia, una gelida mattina d’inverno porta la notizia che presto un aristocratico si unirà ai detenuti. L’uomo è Alexandr Petrovič Gorjančikov, un prigioniero politico, che il direttore della prigione fa interrogare e frustare. Gli altri prigionieri intanto hanno trovato un’aquila ferita e giocano con lei finché le guardie non li rimandano al lavoro. I prigionieri si lamentano della loro sorte e uno di loro, Skuratov, rammenta la sua vita a Mosca; un altro, Luka Kuzmič, racconta di quando aveva incitato una ribellione e ucciso una guardia nel campo di prigionia in cui si trovava prima. Terminata la fustigazione, Gorjančikov viene portato tra gli altri, quasi tramortito.
Atto II. Gorjančikov ha fatto amicizia con il giovane tartaro Aljeja, gli chiede della sua famiglia e si offre di insegnargli a leggere e scrivere. Terminato il lavoro, i carcerati si preparano per la festa e un prete benedice il cibo. Skuratov racconta il motivo per cui si trova lì: era innamorato di una giovane donna tedesca, Luisa, ma quando lei fu promessa a un anziano parente Skuratov aveva sparato al promesso sposo. Per la festa, i detenuti mettono in scena una commedia su Don Giovanni e una pantomima su una figlia di un mugnaio bellissima ma infedele. Dopo lo spettacolo, i prigionieri provano a provocare Gorjančikov, deridendolo per il fatto che i suoi privilegi aristocratici gli permettano di bere tè anche in prigione e nella lite che segue Aljeja resta ferito.
Atto III. Prima scena. Nell’ospedale del campo, Gorjančikov si prende cura di Aljeja, che è felice di aver imparato a leggere e scrivere. Accanto al suo letto, Luka sta morendo di tubercolosi. Šapkin racconta la storia del suo arresto, mentre Skuratov delira in preda alla pazzia. Durante la notte, anche Šiškov prova a raccontare la sua storia, ma viene continuamente interrotto dalle domande di Čerevin. Šiškov era innamorato di Akulka, la figlia di un mercante, che però era innamorata di Filka Morozov, che andava in giro dicendo di averla disonorata; durante la loro prima notte di nozze, Šiškov aveva scoperto che la giovane era ancora vergine, ma quando si rese conto che la moglie era ancora innamorata di Filka l’aveva uccisa. Luka muore e Šiškov si accorge solo allora che il malato era proprio Filka. I detenuti vengono interrotti da una guardia, che porta via Gorjančikov. Seconda scena. Il direttore della prigione, ubriaco, si scusa con Gorjančikov per le frustate e gli restituisce la libertà. Proprio mentre l’aristocratico lascia il campo, i detenuti liberano l’aquila ormai guarita, per poi essere rimandati dalle guardie ai lavori forzati.
«La trama è di fatto senza evoluzione, praticamente inesistente o informale: rappresenta la successione narrata di tante storie, indipendenti e diverse, a ognuna delle quali è riservato uno spazio differente nella partitura. Fatale che da un non-romanzo nascesse una non-opera. Il protagonista, Alexandr Petrovič Gorjančikov, giovane aristocratico condannato per le sue idee libertarie, svolge in gran parte dell’opera una funzione di spettatore. […] La vicenda inizia con il suo arrivo al campo e si conclude con la sua liberazione, esattamente come avviene a un’aquila ferita che, guarita alla fine dell’opera, spiccherà un volo verso la libertà negata agli ergastolani. Al destino del prigioniero politico è anche legato quello del malvagio comandante del campo, che interviene al suo arrivo, facendolo frustare senza alcun motivo, e alla sua liberazione, congedandosi da lui con una certa rozza caricatura di umanità, dovuta alla sua ubriachezza e al fatto di avere ormai perso la sua autorità. La poetica intercorrispondenza fra aquila e prigioniero politico è un’intuizione di Janáček. Nel romanzo L’aquila se ne va dal campo ancora ferita sbatacchiando l’ala sana. […] Inoltre in Dostoevskij non si fa menzione di maltrattamenti a forzati di origine nobile internati per i loro ideali libertari. Certamente la diversa e più moderna ottica del musicista verso la pratica della punizione corporale, lo ha portato a ricreare da spunti del romanzo una situazione nuova, ponendola strategicamente all’inizio dell’opera, in modo da rappresentare in tutto il suo orrore l’ottusità capricciosa dell’uso della violenza dell’uomo sull’uomo» (Franco Pulcini)
Per un’attenta lettura musicale dell’opera è sempre di riferimento il vecchio testo di Erik Chisholm sulle opere di Janáček che comprende anche una dettagliata analisi del monologo di Šiškov nel terzo atto.
Trent’anni dopo la memorabile impresa del Ring del centenario a Bayreuth, Boulez e Chéreau si incontrano di nuovo in occasione delle Wiener Festwochen del 2007 per uno spettacolo che sarà ripreso con successo ad Aix-en-Provence, Amsterdam, New York e Milano (qui con la magistrale direzione di Esa-Pekka Salonen).
Mettere in musica la spaventosa monotonia della vita carceraria tra mura opprimenti senza suscitare noia, anzi avvincere e commuovere è la scommessa vinta dal compositore prima e dal regista poi. Per quanto riguarda Janáček la musica della sua ultima opera entra in perfetta sintonia con la concretezza e il realismo della recitazione che qui tocca i massimi vertici con la guida del regista francese. Questo è uno dei pochi casi in cui non si riesce a distinguere l’apporto del compositore e del direttore d’orchestra da quello di chi ha messo in scena lo spettacolo, tanto sono dipendenti e intricati fra di loro.
Il regista francese esalta la solitudine, il dolore, l’umiliazione, la crudeltà, l’affetto, la nostalgia, l’alienazione, l’abbrutimento di queste anime morte alla libertà. Il finale dell’opera nella sua messa in scena è di quelli che ti tolgono il fiato per l’emozione. Assistere dal vivo alla rappresentazione al MET è stato un evento, sconvolgente e indimenticabile. Come la lettura del testo di Dostoevskij.
Il maestro Boulez, accusato talora di analitica freddezza, qui bilancia magnificamente i momenti drammatici della vicenda musicale con una concertazione attenta dei ritmi incalzanti, spesso reiterati, alternati alle oasi di puro lirismo della splendida partitura resa molto bene dalla giovanile Mahler Chamber Orchestra.
Magnifici gli interpreti, praticamente tutti maschili, che toccano le varie corde espressive. Citiamo solo per brevità Peter Mattei (Šiškov), il delicato Aljeja di Eric Stoklossa, il possente Willard White come Goriančiko, ma è un far torto a tutti gli altri cantanti-attori. Contributo non trascurabile nelle due pantomime quello del coreografo Thierry Thieû Niang.




⸫
- Da una casa di morti, Young/Castorf, Monaco, 26 maggio 2018
- Da una casa di morti / Messa glagolitica, Hrůš/Heřman, Brno, 2 novembre 2022
- Da una casa di morti, Matvienko/Warlikowski, Roma, 23 maggio 2023
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