Věc Makropulos (L’affare Makropulos)

  1. Salonen/Marthaler 2011
  2. Davis/Lehnhoff 1995

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★★★★☆

1. Che noia l’immortalità

Talora viene tradotto in italiano come Il caso Makropulos, ma così si perde l’ambiguità del termine ceco věc (pronuncia vietz) che sta a indicare sia il caso giuridico, sia la cosa, qui una logora pergamena con la ricetta dell’elixir di lunga vita. Meglio L’affare Makropulos.

Di questo infatti si tratta: l’imperatore Rodolfo (siamo nel XVI secolo a Praga) chiede al suo medico personale e alchimista un filtro per prolungare la vita. L’intruglio è presto preparato, ma l’imperatore timoroso degli effetti colla­terali lo fa bere prima alla figlia del medico, che infatti cade in catalessi. Indignazione del monarca e patibolo per il padre sono le imme­diate conseguenze. Ma poi la figlia si riprende ed effettivamente continua a vivere. Elina Makropulos trascorre così indenne i secoli cambiando per opportunità il nome, ma mantenendone le iniziali per non dover cambiare il set da viaggio: Ellian McGregor, Elsa Müller, Ekate­rina Myškina, Eugenia Montez, Emilia Marty.

Il dramma di Karel Čapek, da cui l’opera di Janáček è tratta, va in sce­na nel 1922 e narra l’atto finale della vicenda di Elina Makropulos, ora Emilia Marty, can­tante ultra-trecentenaria (per la precisione sono 337 gli anni) che ha di nuovo bisogno della ricetta perché comin­cia ad accusare qualche acciacco. «La Marty è ancora una donna sofisticata e bellissima, che dimostra una trentina d’anni, anche se a guardarla bene porta con sé l’inquietante aspetto fisico di una vecchia ringiovanita. È una dark lady dal passato bollente, una ricca e celebre cantante lirica, una primadonna dal temperamento accentratore e autoritario, un misto fra Maria Callas e Marlene Dietrich. Giunge a Praga per cantare, ma anche per ritrovare la formula smarrita dell’elisir bevuto un tempo, e che sta ormai perdendo il suo effetto: certi suoi atteggiamenti isterici sono da assimilare ai comportamenti dei tossicodipendenti in carenza, alla spasmodica ricerca di una nuova dose». (Franco Pulcini)

Atto primo. Nello studio legale di Kolenatý, che provvede a un’esposizione dettagliata del caso che vede da tempo i Gregor contro i Prus, Emilia Marty sopraggiunge fornendo preziose notizie. Mentre Kolenatý si reca a prelevare il testamento a casa di Prus come rivelato dalla donna, il fascino di Emilia ha occasione di esercitarsi su Gregor. Questi se ne innamora perdutamente, ma viene respinto con glaciale e annoiata indifferenza. Avendo Gregor ai suoi piedi, Emilia ne approfitta per domandargli del documento che reca la formula della pozione, ma apprende da Kolenatý, di ritorno da casa Prus, che questo è rimasto in possesso del barone.
Atto secondo. Dietro le quinte dell’Opera, la mattina successiva a una rappresentazione che l’ha avuta per protagonista, Emilia continua a trattare con crudele durezza pretendenti e ammiratori. A Gregor, a Krista e Vítek si aggiungono Janek, il figlio di Jaroslav Prus, e il vecchio e ormai demente conte Hauk-Sendorf. In Emilia egli ha riconosciuto Eugenia Montez, la gitana di cui si era invaghito cinquant’anni prima in Andalusia. A Emilia si presenta quindi Jaroslav Prus. Insospettito dalle inesplicabili conoscenze di Emilia sulla sua famiglia e dal suo immotivato interesse alla causa di Gregor, mette la cantante alle strette. Emilia induce il giovane Janek a tentare di sottrarre il documento per lei. Al tempo stesso tenta di comperare il documento da Prus, che acconsente a cederglielo in cambio di una notte d’amore.
Atto terzo. Nella stanza d’albergo ove Emilia e Prus hanno trascorso insieme la notte. Arriva la tragica notizia del suicidio d’amore di Janek. Di fronte al dolore di Prus, Emilia reagisce con assoluta indifferenza, restandosene seduta a pettinarsi i capelli. Prus fa appena in tempo a manifestarle il suo incredulo sdegno allorché sopraggiungono Gregor, Kolenatý e il conte Hauk. Kolenatý e il suo assistito sono decisi a denunciare Emilia per frode, a causa delle sospette e inesplicabili contraddizioni del suo racconto, in cui risultano confuse e sovrapposte le figure di Ellian McGregor e di Elina Makropulos. Emilia si decide infine a raccontare l’autentica versione della sua inverosimile storia: ella è stata Ellian, Elina e molte altre ancora. Ma viene creduta solo quando i primi segni di morte appaiono sul suo volto, ora che la pozione sta esaurendo i suoi effetti. Emilia rinuncia a servirsi della pozione e decide di lasciarsi morire, comprendendo che la sua perpetua giovinezza non dà altro che dolore e apatia. Solo chi vive nell’imminenza inesorabile della morte, rivela Emilia in un appassionato addio ai presenti, può provare qualcosa come la felicità. Emilia muore mentre il documento che cela il ‘segreto Makropulos’, da lei donato con le sue ultime parole alla giovane ammiratrice Krista per farne un’altra prodigiosa cantante, viene dato alle fiamme.

L’opera di Janáček è del 1926. In quel periodo il sessantottenne com­positore stava vivendo una tormentata storia d’amore con la giovane Kamila Stösslová a cui scrive: «Una donna di trecentotrentasette anni, ma al tempo stesso ancor giovane e bella. Piacerebbe anche a te essere così? E sapessi quanto è infelice!» E gli risponde infatti Emilia nel finale dell’opera: «È atro­ce sopravviversi. Se sapeste com’è leggera la vita per voi! Siete vicini a tutto. Per voi tutto ha un senso. Tutto ha valore per voi. Fa persino rabbia vedere quanto siete felici! […] L’uomo non può amare per trecento anni. Né spera­re, né creare. Non ce la fa. Tutto viene a noia.»

L’antefatto, che nella bellissima edizione di Carsen vista l’anno scorso a Venezia veniva narrato in scena dai cambi d’abito della protagonista durante il preludio, qui nella produzione dell’Opera di Stato viennese è sco­nosciuto alle donne in bianco, una giovane e una anziana, che chiuse nella “gabbia” di vetro dei fumatori si scambiano riflessioni sulla brevità della vita durante il prologo muto deciso dal regista, riflessioni che non udiamo ma che vengono proiettate come sottotitoli. Siamo nei moderni uffici dell’avvocato Kolenatý in cui si discute da quasi un secolo la causa di un’eredità che vede Gregor contra Prus.

Nella messa in scena di Christoph Marthaler, qui registrata nel 2011 al festival di Salisburgo, Emilia non è la diva primadonna cui ci hanno abituato molte interpreti, ma ha le fattezze sofferte di An­gela Denoke, fragile nella figura quanto potente nella vocali­tà, perfetta come attrice-cantante. Ottimo il resto del cast.

Non sono molte le sortite del maestro finlandese Esa-Pekka Salonen in campo operistico, ma in ognuna egli mette il suo sigillo di perfezione, come nella sua meravigliosa lettura di Elektra vista recentemente ad Ai­x-en-Provence con Patrice Chéreau. Qui, alla testa dei Wiener Philharmoniker non mette in ombra nessuna delle sottigliezze della splendida partitura, pur in una concezione perfettamente unitaria del dramma musi­cale.

Sottotitoli in sei lingue, cinese e coreano compresi, ma non in italiano. Un segno dei tempi.

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★★★★☆

2. La grande Anja Silja nel ruolo di Emilia Marty

Una fila interminabile di valigie con le iniziali E.M., interminabile come la vita della protagonista. Così inizia nell’allestimento di Nikolaus Lehnhoff a Glyndebourne nel 1995 L’affare Makropulos. Prima era comparsa in scena anche una statua di Crono, una falce in mano a ricordarci invece la morte.

Interminabile anche la catasta di scartoffie che formano il fondo della scenografia di Tobias Hoheisel. Siamo infatti nello studio dell’avvocato Kolenatý che si occupa della causa Gregor-Prus che sta per arrivare al centesimo anno senza essere risolta. Forse è la volta buona, grazie all’arrivo di una strana signora, celebre cantante, che dei fatti che si riferiscono alla causa conosce, inspiegabilmente, molti dettagli.

E la signora qui è nientemeno che Anja Silja, 55enne. Se non è molto plausibile come avvenente giovane che fa innamorare di sé gli uomini che hanno la ventura di incrociarne il cammino, è però splendidamente convincente come donna che porta in scena il peso dei suoi 337 anni. Attrice consumata e dalla grande presenza vocale, il soprano berlinese monopolizza questo allestimento della penultima opera di Janáček, ma è in compagnia di un’eccellente compagine di artisti: da Kim Begley (Albert Gregor) a Victor Braun (barone Prus). Da Andrew Shore (dottor Kolenatý) a Manuela Kriscak (Kristina). Nello straordinario ruolo di Hauk-Šendorf abbiamo Robert Tear e un giovane non ancora famoso ma già bravissimo Christopher Ventris è l’imbranato e sventurato Janek.

Andrew Davis sul podio della London Philarmonic Orchestra contribuisce da par suo con la sua attenta direzione a fare di questo uno spettacolo quasi memorabile.

Immagine in 4:3 con audio appena accettabile, confezione estremamente spartana senza opuscolo né locandina degli interpreti: occorre aspettare i titoli di coda per capire chi ha cantato e che cosa.

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