Mese: aprile 2021

Gianni Schicchi

Il regista Woody Allen durante le prove della produzione del 2008

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★★☆☆

Los Angeles, Dorothy Chandler Pavilion, 24 settembre 2015

(registrazione video)

Il Gianni Schicchi mafioso di Woody Allen

Applausi a scena aperta da parte del pubblico per la scenografia di Santo Loquasto dell’allestimento del 2008 di Woody Allen ripreso nell’ottobre 2015. Siamo vicini a Hollywood, infatti, e il direttore generale della Los Angeles Opera, Plácido Domingo, si riserva il ruolo titolare in questa prima parte di un double bill che nella seconda recupera la vecchia regia di Zeffirelli per Pagliacci in cui l’inossidabile ex-tenore scende in buca a dirigere l’orchestra. Il tutto per celebrare i trent’anni della compagnia.

Una Firenze da cartolina in bianco e nero fa da sfondo a una scena affollata che richiama più un basso napoletano del dopoguerra che non un palazzo fiorentino del ‘300. La ‘buatta’ per la pasta, i fiaschi di vino, i santini alle pareti: siamo in un film neorealista e Gianni Schicchi è un camorrista in completo gessato mentre sua figlia è una Lauretta molto poco ingenua che sotto l’abito provocante tiene un coltello nel reggicalze. La regia da Napoli milionaria del cineasta americano, ripresa da Kathleen Smith Belcher, non si risparmia nelle trovate: il testamento viene trovato al fondo del pentolone degli spaghetti; il morto viene usato come mendicante e recupera pure qualche moneta nel barattolo; i testimoni sono uno cieco e l’altro addormentato («testes viderunt» annuncia imperterrito il notaio). Alcune sono esilaranti, come il rumore del coltello affilato sulla ringhiera da Gianni Schicchi che ricorda il taglio della mano previsto per i complici del misfatto, o il ruolo del piccolo Gheraldino. Altre sono discutibili: con lo stesso coltello la Zita nel finale ammazza lo Schicchi che ha appena il tempo di pronunciare le sue battute prima di stramazzare a terra tingendo quindi di macabro quella che era una scherzosa burla nelle intenzioni dell’autore.

Il direttore Grant Gershon tiene a bada quanto succede in scena con un cast di buoni caratteristi da cui emerge la Lauretta di Andriana Chuchman. Esperienza e presenza scenica compensano i fiati e le agilità vocali ormai compromesse del grande Plácido qui in un ruolo comico che non è molto nelle sue corde. Ma che importa, le ovazioni sono tutte per lui.

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Gianni Schicchi

Giacomo Puccini, Gianni Schicchi

★★★★☆

Piacenza, Teatro Municipale, 22 gennaio 2021

(diretta streaming)

Piacenza omaggia Dante

Tre anni fa il Municipale di Piacenza aveva presentato il Trittico di Puccini nella produzione di Cristina Pezzoli in occasione del centenario della prima rappresentazione avvenuta al Metropolitan di New York il 14 dicembre 1918 – e allora imperversava l’influenza spagnola come adesso un’altra pandemia. La celebrazione ora è ancora più solenne: i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri dal cui canto XXX dell’Inferno è tratto l’episodio di Gianni Schicchi.

Unico titolo della serata, l’esecuzione è preceduta dalla lettura dei versi danteschi da parte dell’attore piacentino Mino Manni sulle immagini del prezioso Codice Landiano custodito nella Biblioteca Comunale. Lo spettacolo avviene a teatro chiuso e senza pubblico e viene trasmesso sulla piattaforma operastreaming. Il regista Renato Bonajuto fa iniziare il suo allestimento con la morte in diretta di Buoso Donati davanti agli ipocriti parenti, una scelta molto discutibile, mentre è ormai accettato che l’ambientazione sia novecentesca, grosso modo il secondo dopoguerra, in un ambiente solenne e austero (scenografie di Danilo Coppola) e della Firenze cantata si veda solo una proiezione in stile pittorico in alto sopra la pesante boiserie. Gustoso il finale, quando oltre la porta si vedono i rossi fumi infernali a cui è destinato da Dante il simpatico «falsatore di persona».

Massimiliano Stefanelli dirige l’orchestra Filarmonica Italiana – non sempre inappuntabile – in una versione ridotta negli strumenti che mette in evidenza ancora di più la modernità della partitura, evidenziando gli interventi dei fiati e i lampi sonori che appartengono alla musica dei russi di primo Novecento. Talora i tempi sembrano un po’ centellinati, ma i concertati sono impeccabili e gli slanci lirici pieni di nostalgia.

Roberto De Candia è uno Schicchi misurato negli effetti comici, ma vocalmente autorevole: la proiezione della voce, la dizione (senza affettare quella toscana che non gli appartiene), l’espressione naturale, il fraseggio e i piani sonori sono tutti elementi atti a costruire il personaggio che si presenta all’inizio come un cafone della campagna per poi diventare l’archetipo dell’italiano furbo e maneggione, sempre attuale. Nella compagnia di canto, non tutta allo stesso livello di qualità, spiccano i due giovani: Matteo Desole ha una voce luminosa e acuti non gridati con cui dipinge perfettamente la vena lirica e spavalda di Rinuccio; Giuliana Gianfaldoni è una sensibile Lauretta che quando nel silenzio dell’orchestra attacca «O mio babbino caro» riesce ancora una volta a far luccicare gli occhi dall’emozione.

GRAND THÉÂTRE

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Grand Théâtre

Angers (1871)

680 posti

Distrutto da un incendio nel dicembre 1865 il Teatro Municipale, la città di Angers ne decide la ricostruzione che porta alla inaugurazione nel 1871 di un nuovo edificio costituito da un vestibolo, una sala di spettacoli con palchi e una scena. Seguiranno dopo un anno due caffè a completare la struttura. La capacità della sala era originariamente di 1160 posti a sedere, ridotti a ora 680 per uno spettacolo d’opera.

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Il fabbricato è formato da tre corpi, quello centrale avanzato rispetto a quelli laterali. Il piano terra è dominato da due colonne con capitelli ionici, le maschere della tragedia e della commedia portano al primo piano caratterizzato da quattro colonne con capitelli corinzi, grandi finestroni e nelle nicchie le statue di quattro muse. La parte alta della facciata è costituita di un frontone con le armi della città e altre statue con le allegorie della fama, dell’eloquenza e della storia a sinistra, della satira, della musica e del dramma a destra.

Grand théâtre - Angers

Lavori di restauro si sono succeduti negli anni: 1957, 1981 e 1993 quando fu possibile creare una sala esposizioni. Il teatro è sede dell’Orchestre national des Pays de la Loire e dell’Angers-Nantes Opéra.

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Die Opernprobe

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Albert Lortzing, Die Opernprobe (La prova d’opera)

★★★☆☆

Nantes, Théâtre Graslin, 12 marzo 2021

(diretta streaming)

L’ultimo Lortzing

Col sottotitolo Die vornehmen Dilettanten (Gli illustri dilettanti), l’opera comica in un atto di Lortzing Die Opernprobe fu scritta su libretto tratto dalla commedia L’impromptu de campagne (1733) di Philippe Poisson tradotta in tedesco da Johann Friedrich Jünger. Presentata il 20 gennaio 1851 al Teatro dell’opera di Francoforte assieme a un altro atto unico di Friedrich Kaiser, Junker und Knecht, ebbe un buon successo che però il compositore non poté assaporare perché morì il giorno dopo.

Lavoro che rientra nel ricco filone di teatro nel teatro, inizia come Il Maestro di cappella di Cimarosa, ma si distingue per il piccolo intrigo che segue. Ambientata in Germania nel 1794 è la storia di una cameriera  che diventa Kapellmeister in casa di un conte «malato di musica» che comunica con i servitori, tutti musicisti, solo tramite recitativi d’opera seria e vuole far rappresentare un’opera ma il tenore è indisposto. Caso vuole che ne sia appena arrivato uno…

C’è musica al castello del conte. Tutto lo staff sta provando un’opera sotto la direzione di Hannchen, la cameriera, investita del ruolo di Kapellmeister. Mentre l’ensemble si prende una pausa, Hannchen nota due estranei in giardino. Chi e cosa potrebbero essere? Il servo Martin è incaricato di scoprirlo. Nonostante riesca a contattare uno dei due, non scopre ancora nulla e Hannchen prende allorain mano la situazione. Sente uno dei due cantare una canzone: il cantante è Adolph von Reintal, un giovane barone. Poiché suo zio voleva costringerlo a sposare una donna a lui completamente sconosciuta, aveva deciso di di scappare di casa con il suo servo Johann. Quando Reintal vede Luise, la bella figlia del conte, si infiamma subito. Vuole conquistare questa ragazza, a qualunque costo, tanto più che il suo servo ha saputo nel frattempo che lei non è ancora impegnata e che dovrebbe essere l’unica figlia del conte. Pensa a quale pretesto potrebbe usare per fare la sua conoscenza. Poi ha l’idea: lui e il suo servo si presentano come cantanti itineranti in cerca di un ingaggio. Hannchen ha ascoltato la loro conversazione e deduce correttamente che il giovane straniero non può essere altro che l’uomo che in realtà è destinato ad essere lo sposo della contessa. Dopo che Hannchen ha preso Luise in confidenza con il pretesto della segretezza, Luise è felicissima, perché segretamente ha già iniziato ad avere un debole per lo straniero. Ora vengono serviti caffè e torta. La contessa sta aspettando lo sposo di Luise, ma le viene detto da suo marito che non verrà. Il vecchio Reintal gli aveva inviato una lettera per dirgli che il fidanzamento non avrebbe avuto luogo, almeno non per il momento. Inaspettatamente, il servo Martin annuncia i cantanti stranieri. Quando il più giovane – è Reintal, naturalmente – canta un’aria, il cuore del vecchio conte si scalda. Arriva il momento in cui il conte e la contessa si ritirano. Non appena partono Reintal confessa il suo amore a Luise mentre Johann flirta con Hannchen. Alla fine – nel frattempo è arrivato anche il vecchio Reintal – il fidanzamento ha luogo.

L’Opéra d’Angers-Nantes produce questo lavoro poco conosciuto di un autore altrettanto poco conosciuto. In buca l’Orchestre National des Pays de la Loire è diretta da un vivace Antony Hermus che realizza le semplici ma belle melodie che punteggiano i dialoghi recitati in francese mentre le arie sono nel tedesco originale. La musica ricorda Weber nella felicità melodica e Mozart in certa strumentazione.

Due sono le orchestre: una in buca (quella che suona veramente…), l’altra sul palcoscenico con i coristi  in costume settecentesco  che mimano gli strumentisti. Nulla di nuovo nella regia di Éric Chevalier che illustra la vicenda senza particolari intenzioni. Nel cast non si distinguono interpreti di qualità particolari ma tutti si dimostrano efficacemente preparati.

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Il segreto di Susanna

Ermanno Wolf-Ferrari, Il segreto di Susanna

★☆☆☆☆

Monaco, Nationaltheater, 26 aprile 2021

(diretta streaming)

Un pasticcio greve e fumoso

Tre dei maggiori successi di Ermanno Wolf-Ferrari videro il loro debutto a Monaco: Le donne curiose (1903, Residenz), I quattro rusteghi (1906, Hoftheater) e Il segreto di Susanna (1909, Hoftheater, in tedesco col titolo Susannes Geheimnis). Succederà lo stesso anche per il meno conosciuto Das Himmelskleid (1927, Nationaltheater).

Nella città bavarese il compositore aveva studiato da giovane e vi tornò dopo il fiasco veneziano della sua prima opera, Cenerentola (1900). Il pubblico tedesco sembrava apprezzare maggiormente il suo stile, tanto che una nuova versione di Cenerentola ebbe un’ottima accoglienza a Brema nel 1902 aprendogli la strada del successo internazionale: fino allo scoppio della Grande Guerra i suoi lavori furono tra i più rappresentati nei teatri, anche italiani. Dopo le due opere goldoniane, Wolf-Ferrari era approdato con Il segreto di Susanna al teatro contemporaneo con la vicenda della contessa che non osa confessare il suo vizio nascosto, quello di fumare come una donna emancipata del XX secolo.

La Bayerische Staatsoper mette ora in produzione questo breve intermezzo in tempo di pandemia e i pochi personaggi in scena sono la soluzione ideale alle esigenze sanitarie di distanziamento mentre la breve durata risolve il problema del coprifuoco serale, anche se il teatro è vuoto e lo spettacolo è registrato a porte chiuse con l’orchestra sul palcoscenico. La scenografia è ridotta a pochi mobili e un tappeto persiano. Entrano in scena i cantanti ma quando inizia l’opera vera e propria parte un film: da questo momento lo spettatore vedrà alternarsi l’azione “reale” in teatro con i cantanti e un filmato cinematografico ambientato in una casa con gli stessi cantanti in una pantomima muta. Sante non è un domestico bensì uno psicologo per terapia di coppia – per lo meno così viene presentato all’inizio, perché in seguito si dimostra ben poco professionale con la sua ambigua intimità sia con la contessa che col conte. Gag inutili ed esagerate – il fumo che esce dall’armadio, la battaglia dei cuscini con le piume svolazzanti, i mobili sfasciati dopo la lite – marcano una regia greve: la leggerezza di tono dell’opera è completamente persa nelle sconclusionate immagini e l’ambientazione contemporanea con “peccaminose” sigarette elettroniche non è per nulla convincente. Axel Ranisch è un cineasta tedesco che dal 2013 si occupa anche di regia d’opera ma qui non ha dato certo il meglio.

Il direttore Yoel Gamzou cerca di sottolineare la brillante strumentazione e la ricchezza melodica della composizione ma la musica è ridotta al ruolo di colonna sonora mentre degli interpreti – il Conte Gil di Michael Nagy e la Contessa di Selene Zanetti – in questo contesto si notano più le qualità sceniche che vocali. All’attore Heiko Pinkowski va la palma quale più sgradevole presenza sul palcoscenico dei teatri lirici degli ultimi anni.

Parsifal

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Foto © Wiener Staatsoper/Michael Pöhn

Richard Wagner, Parsifal

★★★★★

Vienne, Staatsoper, 18 avril 2021

(streaming)

 Qui la versione italiana

Un Parsifal « de la maison des morts… »

Il semble qu’à un moment donné de sa vie, Wagner ait envisagé une trilogie centrée sur les personnages de Lohengrin, Parsifal et du Christ. Complémentaire de la tétralogie consacrée au mythe des Nibelungen, cette trilogie aurait développé le thème du passage du mythe à la religion. Comme on sait, le compositeur n’a réalisé que les œuvres consacrées à Lohengrin, son œuvre « de jeunesse », et à Parsifal, auquel est dédié l’opéra qui conclut sa carrière artistique et humaine…

la suite sur premiereloge-opera.com

Parsifal

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Foto © Wiener Staatsoper/Michael Pöhn

Richard Wagner, Parsifal

★★★★★

Vienna, Staatsoper, 18 aprile 2021

(video streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

Parsifal da una casa di morti

Sembra che a un certo punto della sua vita Wagner avesse pensato a una trilogia centrata sulle figure di Lohengrin, Parsifal e Cristo. Complementare alla tetralogia dedicata al mito nibelungico, questa trilogia avrebbe sviluppato il tema del passaggio dal mito alla religione. Come sappiamo il compositore concretizzò solo la parte destinata a Lohengrin, soggetto della sua opera “giovanile”, e a Parsifal, cui fu dedicata l’opera che concludeva la sua carriera artistica e umana.

Con il Parsifal il musicista accoglieva dunque il personaggio di Perceval/Parzival dei poemi di Troyes e di Eschenbach per trasferire in ambito cristiano la leggenda celtica e pagana in cui centrale era la sacralità della natura, solo in parte ripresa nel lavoro di Wagner nell’episodio dell’uccisione del cigno – visto come animale sacro e inviolabile in quanto simbolo degli stati superiori dell’essere umano e quindi una sorta di creatura celeste – e nel racconto di Gurnemanz della rinascita della primavera nel giorno di Venerdì Santo: «das merkt nun Halm und Blume auf den Auen, | dass heut des Menschen Fuss sie nicht zertritt» (di questo ora s’avvedon stelo e fiore sui prati: che non li calpesta, oggi, piede di uomo).

Ma Parsifal è soprattutto centrato sul concetto della redenzione (Erlösung), tema che ossessionava il compositore che si reputava un grande peccatore e che odiava la sensualità a cui opponeva la castità. Quello della redenzione è un tema presente in quasi tutti i suoi drammi, ma in questo suo ultimo lavoro è primario assieme a quello della sofferenza, incarnato dalla figura di Amfortas.

Ma che cosa ha da dire oggi a noi questa “azione scenica sacra” che mescola cristianesimo, paganesimo e filosofie varie? La drammaturgia contemporanea cerca sovente significati alternativi a quelli che non sente più attuali, in parole povere, ci si inventa di tutto pur di sfuggire a un’ambigua visione pseudo-cristiana come quella del Parsifal.

Ed è ciò che avviene sul palcoscenico della Staatsoper di Vienna in questo nuovo allestimento di Kirill Serebrennikov che firma regia e scene. È la produzione che rimpiazza quella di Hermanis del 2017 ambientata nello Steinhof viennese, là orripilante ospedale psichiatrico. Qui le note cariche di tensione del preludio si dipanano sull’immagine di un campo di prigionia realisticamente ricostruito: nella drammaturgia di Sergio Morabito la foresta di Monsalvat non racchiude cavalieri, ma anime perse (morte direbbe Dostoevskij) al di qua e al di là delle sbarre.

Kirill Serebrennikov è un artista dissidente russo che nel 2017 ha subito il carcere in seguito a una condanna per presunta appropriazione indebita che a molti è sembrata volesse celare una condanna politica per la sua critica antigovernativa. La persecuzione da parte delle potenze statali russe non gli ha impedito di svolgere la sua attività, ma non è stato autorizzato a lasciare il paese e ha dovuto utilizzare strumenti digitali e assistenti che lavorano sul posto per questa produzione, allestendo lo spettacolo da remoto, dalla lontana Russia. Così era nato anche il Così fan tutte di Zurigo del 2018 e ora Parsifal, non a caso letto come un’opera di liberazione: la redenzione invocata nel testo è la liberazione tout court. In tedesco lösen, che troviamo in Erlösung (redenzione) significa liberare e lo scoprimento del Graal nel finale consiste nell’apertura delle celle e del portone del carcere per lasciar uscire i prigionieri. Non si può dire che il tema non sia quanto meno di attualità oggi quando le voci di Alexei Navalnij e di tanti altri dissidenti, in Russia come in Turchia e altrove, sono messe a tacere con la detenzione in carcere se non con la morte.

Nella lettura di Serebrennikov tutta la stucchevole liturgia dell’opera, tanto criticata da Nietzsche, semplicemente sparisce, sostituita da un gioco drammaturgico di grande intensità tra gli esemplari umani racchiusi in questa moderna colonia penale dove sono all’ordine del giorno maltrattamenti e risse sotto lo sguardo indifferente di guardie corrotte.

In alto tre schermi rimandano immagini in bianco e nero di particolari degli internati, della loro vita, dei loro tatuaggi. O ci mostrano un giovane Parsifal che si aggira tra le rovine innevate di un monastero. Il personaggio eponimo è infatti sdoppiato: durante il preludio, una foto di grandi dimensioni di Parsifal (Jonas Kaufmann) occupa lo schermo in alto. A poco a poco l’immagine viene ingrandita fino a quando rimangono solo gli occhi. Poi lo zooming torna indietro e  appare un altro uomo, più giovane. Il Parsifal “anziano” ha perso fiducia nella sua capacità di redenzione e ripensa al suo passato rivivendo sé stesso in un giovane interpretato dall’attore russo Nicolaij Sidorenko. Qui la maturità, là la giovinezza; qui pausa e retrospettività, là l’impetuoso, proverbiale camminare sui cadaveri: il giovane si unisce a questa società tutta al maschile e commette un omicidio appena arrivato in prigione quando con una lametta tra i denti taglia la gola del prigioniero che gli si è avvicinato nella doccia comune, un efebico albino con ali di cigno tatuate sulla schiena…

Gurnemanz ha un ruolo di rilievo nel carcere, di mediatore tra i reclusi e le guardie, e oltre alla sua attività di raccontare storie si occupa anche dei tatuaggi le cui immagini più richieste sono una lancia che perfora la pelle, una croce, un calice. Non è peregrino il riferimento alla macchina della Colonia penale di Kafka.

Amfortas è uno di loro e, come se non bastasse la ferita che non si rimargina mai, se ne procura altre nel tentativo vano di togliersi la vita. E poi c’è Kundry, una giornalista fotografa in visita al carcere che non sembra tanto interessata alle condizioni igienico-sanitarie del luogo, quanto alla fisicità dei reclusi. Infatti la vediamo nel secondo atto, quello del castello di Klingsor, dirigere “Schloss”, una rivista di life style dove lavorano solo donne, le “fanciulle incantatrici”, in cerca di modelli maschili.

Nel finale anche Kundry e Amfortas si trascinano allo scoperto e con loro tutti gli altri; persino il “cigno”, il giovane compagno di prigionia ammazzato, si risveglia a nuova vita per godere della libertà. Il palcoscenico è vuoto, Parsifal (quello anziano) rimane solo e si siede sui gradini, il viso coperto tra le mani. Era tutto solo un ricordo? «Dies alles – hab’ ich nun geträumt?» (Tutto questo l’ho dunque sognato?) si era chiesto nel secondo atto.

Serebrennikov ha pensato a farsi strada nella testa di Parsifal per lasciare che le sue esperienze e i suoi ricordi si trasformassero in una serie di immagini dinamiche in una sorta di realismo fantastico. Tuttavia, questa polifonia scenica non è solo di impatto visivo: qui è stato progettato un dramma in cui la sofferenza e la compassione si incontrano e dove l’empatia umana non ha bisogno di alcuna motivazione religiosa per essere efficace.

Non tutto è chiaramente condivisibile nella sua lettura, ma Serebrennikov riesce a creare un’atmosfera di grande intensità, evocando immagini talora inquietanti – si vede, tra le altre cose, un prigioniero che, come l’artista performer russo Petr Pavlenskij, si cuce la bocca – che acquistano rilevanza drammaturgica in contrasto con l’ipnotica e solenne musica concepita da Wagner, una magia narcotica magnificamente realizzata dalla direzione di Philippe Jordan che, in contrasto con la crudezza che si vede in palcoscenico, elegantissimo in una impeccabile marsina, dirige un’orchestra che il Parsifal potrebbe suonarlo a occhi chiusi. I suoni hanno un impasto e una ricchezza di colori di impatto grandioso, i tempi scelti dal direttore svizzero solenni e drammatici allo stesso tempo, piene di tensione le pause.

Determinante per l’efficacia del messaggio trasmesso è la recitazione degli interpreti, qui sommi. Il nome Parsifal nella lingua araba (Wagner lo indica come nativo dell’Arabia) ha un connotato di purezza che né il tedesco “reine Tor” né l’italiano “puro folle” rendono con precisione. L’indole del personaggio è meglio espressa dal francese “pure naïf”, una semplicità di carattere che contrasta coi tormentati personaggi con cui si deve confrontare. Dopo Monaco, con la produzione Audi/Petrenko, Jonas Kaufmann ritorna a incarnare il personaggio e lo fa con la maturità della sua vocalità. Il personaggio ripiegato su sé stesso ha perso ogni eroismo e con le mezze voci il cantante conferma la pienezza di un’interpretazione a suo modo insuperabile.

È difficile credere che per Elīna Garanča sia un debutto quello come Kundry, tanta è l’intensità e la bellezza vocale, magistrale nel racconto della madre di Parsifal nel secondo atto. Dopo un primo atto in un dimesso trench beige e un secondo atto da Il diavolo veste Prada, diventata un’assassina la ritroviamo distrutta prigioniera nel terzo atto. Con una recitazione da premio Oscar il mezzosoprano lettone firma una delle sue più grandiose interpretazioni. Wolfgang Koch ritorna come Klingsor, qui un disgustoso Harvey Weinstein, e Ludovic Tézier è un dolente Amfortas vocalmente impeccabile. Parola scolpita ed espressiva è quella di Georg Zeppenfeld, Gurnemanz.

Assolutamente magnifica la ripresa video con i lenti movimenti della telecamera. In conclusione uno spettacolo memorabile da non perdere.

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Prima la musica poi le parole / Der Schauspieldirektor

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bozzetti delle scenografie

Antonio Salieri, Prima la musica poi le parole

Wolfgang Amadeus Mozart, Der Schauspieldirektor (L’impresario teatrale)

★★★☆☆

Venezia, Teatro Malibran, 9 ottobre 2020

(video streaming)

Primedonne al Malibran

Un’opera buffa italiana e un Singspiel tedesco che prendono in giro il mondo del teatro settecentescosono i due atti unici che nacquero su richiesta dell’Imperatore Joseph II per una rappresentazione privata nel giardino d’inverno del castello di Schönbrunn. Scopo dell’Imperatore era di mettere in competizione i due compositori, uno italiano e l’altro austriaco, per rendere più frizzante la serata la cui occasione era il passaggio a Vienna della sorella dell’imperatore, l’arciduchessa Maria Cristina moglie del principe Alberto di Sassonia governatore dei Paesi Bassi. Se allora a Vienna era spettato a Salieri, il compositore di corte, chiudere le serata, qui a Venezia l’onore tocca a Mozart, ovviamente.

Su libretto di Giovanni Battista Casti, Prima la musica poi le parole ebbe come interpreti femminili Nancy Storace, la prima Susanna de Le nozze di Figaro , e Celeste Coltellini, futura acclamata Nina pazza per amore.

La scena si apre nella casa del Maestro di Cappella, intento a discutere aspramente col poeta poiché il loro signore (il conte Opizio) ha commissionato loro la stesura di un’opera lirica in soli quattro giorni. Il furbo maestro (vedendo l’impossibilità di comporre un’opera lirica in quattro giorni) rivela al poeta che ha intenzione di riciclare la partitura di una sua vecchia opera poco conosciuta, il vate però si lamenta del fatto che fare prima la musica delle parole è come «far l’abito, e poi far l’uomo a cui s’adatti». Il Maestro allora lo deride sostenendo che è chi scrive la musica a fare tutta la fatica, sprona poi il poeta a muoversi a scrivere qualche verso per un’aria poiché a breve sarebbe giunta una cantante virtuosa dell’opera seria, Donna Eleonora. Successivamente alla scena si aggiunge Tonina, una cantante dell’opera buffa che contribuirà con le sue lamentele (insieme a quelle di Donna Eleonora) a creare scompiglio, ma alla fine tutto si risolverà per il meglio: le cantanti si metteranno d’accordo e il poeta si appacificherà col maestro.

Opera “aperta” è invece Der Schauspieldirektor di Mozart, che la sera del 7 febbraio 1786 aveva preceduto il divertimento di Salieri. Il lavoro, la cui trama innocente fu suggerita dall’Imperatore stesso, è preceduta da un’ouverture la cui scala e carattere sono affini a quelli dell’ouverture de Le nozze di Figaro,  scritta e rappresentata nello stesso anno. Nella prima parte un impresario di teatro sceglie attori e cantantanti per formare una compagnia per uno spettacolo. I dialoghi appartengono all’attualità dell’epoca e in tempi moderni il testo è usualmente riscritto. Nella seconda parte si assiste alla rivalità tra i due soprani che si sesibiscono in un’aria e un rondò cui seguono un terzetto e un vaudeville finale. Si contano quindi solamente quattro brani vocali nella partitura.

Con i guanti e distanziati i personaggi messi in scena da Italo Nunziata in questo spettacolo al Teatro Malibran di Venezia appartengono agli anni’30-’40 per il lavoro di Salieri, agli anni ’50-’60 per quello di Mozart, dove il regista si ispira a Pirandello e si diverte a prendere in giro il birignao e la recitazione sopra le righe degli attori. Qui i dialoghi sono recitati in italiano e le arie sono cantate nell’originale tedesco. Le essenziali scenografie sono distinte per stile: più realistiche quelle della prima parte, più astratte quelle della seconda, entrambe di allieve della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti veneziana come pure i costumi. L’ambientazione “moderna” è più riuscita per il lavoro di Mozart, essendo quello di Salieri molto legato all’ambiente teatrale coevo zeppo di citazioni di opere dell’epoca. Ne viene fuori uno spettacolo ben congegnato ma un po’ freddo, che non sembra rendere attuale lo spirito per cui erano nati i due lavori.

Alla testa dell’orchestra del Teatro La Fenice a ranghi ridotti, Francesco Maria Sardelli si dimostra come al solito abile concertatore in questo repertorio: pulizia di suono e attenzione al colore strumentale i pregi maggiori. In scena giovani interpreti: Szymon Chojnacki (il compositore), Francesco Vultaggio (il poeta), Francesca Boncompagni (Donna Eleonora, virtuosa seria), Rocío Pérez (Tonina, buffa).

Particolarmente virtuosistica l’aria «Là tu vedrai chi sono» di Donna Eleonora, che sembra anticipare quella della Regina della Notte del Flauto magico, cosa che viene maliziosamente sottolineata dal regista che fa scendere dietro alla cantante il fondale stellato dipinto da Schinkel per la produzione berlinese del 1815.

Più numerosi i personaggi dell’Impresario teatrale, sei attori e quattro cantanti. Ai tre già sentiti nella prima parte – Szymon Chojnacki (Herr Buff), Rocío Pérez (Frau Herz) e Francesca Boncompagni (Fräulein Silberklang) – si aggiunge Valentino Buzza (Herr Vogelsang). La parte del leone la fanno ovviamente le due dame con due arie virtuosistiche che mettono in luce le qualità della Boncompagni dalle sicure agilità e dagli acuti fulminanti e della Pérez, cantante di temperamento.

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Les contes d’Hoffmann

 

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Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

★★★★☆

Zurich, Opernhaus, 11 avril 2021

(streaming)

Qui la versione italiana

Un dénouement heureux pour l’opéra d’Offenbach

La version de référence des Contes d’Hoffmann, opéra laissé inachevé après la mort d’Offenbach, reste celle de Michael Kaye et Jean-Christophe Keck. Andreas Homoki, surintendant de l’opéra de Zurich et, en cette occasion, également metteur en scène, a donc bien fait d’opter pour celle-ci, qui est la plus complète (trois heures et demie de musique), et la plus cohérente du point de vue dramaturgique. Du finale inachevé, Homoki donne une version optimiste qui ne correspond pas tout à fait à l’esprit de l’opéra : Hoffmann vainc Lindorf et s’échappe avec Stella ; c’est le premier et seul moment où nous le voyons sourire après les événements tragiques qu’il aura traversés…

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La traviata

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Giuseppe Verdi, La traviata

★★★★☆

Rome, Teatro dell’Opera, 9 avril 2021

(streaming)

 Qui la versione italiana

La solitude de Violetta

Le Barbier, La Traviata, La Bohème : sans ces titres, la programmation des théâtres italiens serait diminuée de moitié ! Après la belle expérience d’Il barbiere di Siviglia en temps de pandémie, l’Opéra de Rome tente à nouveau l’expérience avec une Traviata diffusée en streaming sur RAI 3  (film non encore disponible en France).

Ce film est le résultat de cinq jours de tournage en direct, le film ayant ensuite été monté en studio. Le réalisateur et metteur en scène Mario Martone est responsable de la mise en scène, du tournage et du montage. Il dit de son travail…

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