Giuseppe Verdi, La traviata
Parigi, Opéra Garnier, 28 settembre 2019
(video streaming)
A Parigi una Traviata 2.0
Assieme a Stiffelio, La traviata è l’unica altra opera in cui Verdi mette in scena la sua contemporaneità. Per questo entrambi i lavori ebbero grandi problemi con la censura: la società borghese del tempo non amava vedersi raffigurata nei suoi vizi e nelle sue ipocrisie, preferiva rispecchiarsi in vicende storiche del passato sublimate dal tempo e dalla distanza. Il romanzo di Dumas, La Dame aux camélias, era stato pubblicato da neanche cinque anni e l’adattamento teatrale era uscito un anno prima: per ricreare l’impatto che quel lavoro aveva avuto sui contemporanei di Verdi, ora a distanza di 170 anni i registi rendono attuale l’ambientazione per il pubblico di oggi e sempre meno infatti si vedono Violette in crinoline ottocentesche o in stile Belle Époque, meno che mai in costumi settecenteschi, come aveva dovuto fare Verdi per aggirare la censura in alcune città degli stati che formavano l’Italia di allora.
Ecco quindi che al Palais Garnier Simon Stone adatta la vicenda ai nostri tempi: Violetta è una star dei social con milioni di follower; ha una sua linea di cosmetici; come VIP salta le file per entrare nei locali alla moda ma proprio per la vita troppo indipendente della donna il principe saudita che doveva sposare la sorella di Alfredo «si ricusa al vincolo» – e questo è l’elemento meno convincente della drammaturgia, mentre passa invece il fatto che non sia la tisi a minare la salute della giovane bensì una recidiva tumorale. Tutto questo lo veniamo a sapere fin dal preludio dai messaggi che scorrono sugli schermi a led che tappezzano le facce di un parallelepipedo rotante che si mostra cavo per il locale trendy, per la Place des Pyramides o per la stanza dell’ospedale oncologico in cui viene ricoverata Violetta. Le scene sono firmate da Bob Cousins e l’interessante gioco luci si deve a James Farncombe. Questa dicotomia tra realtà virtuale e reale è l’elemento più intrigante della messa in scena di Stone, che poi indugia in «scene che potrebbero urtare la sensibilità dei più giovani o dei non informati», come si legge su un avviso dell’Opéra National che mette in guardia il pubblico dalle esplicite immagini al neon che decorano la festa da Flora, praticamente un’orgia in costume, e dei goliardici costumi dei partecipanti, ideati da Alice Babidge, con falli di gomma ben in mostra ma nei posti sbagliati.
Per sottolineare il cambiamento d’atmosfera tra l’ambiente urbano e quello rurale del secondo atto, nella produzione di Černjakov alla Scala Alfredo affettava le zucchine, qui invece spinge una carriola piena digrappoli d’uva che poi pigia coi piedi per il vino fatto in casa, mentre per il latte c’è una placida vacca che Violetta sta mungendo – ma che diventerà un trattore nelle riprese dello spettacolo a Monaco di Baviera – e c’è pure una piccola chiesetta per ricordare alla giovane che «dal ciel non furono tai nodi benedetti». Angosciante il terzo atto nel reparto trasfusioni di un ospedale, dove ogni paziente è accompagnato da qualcuno, Violetta invece è sola, si stacca la flebo e delirando rivive il passato: la fila per entrare nel locale trendy, il retro della discoteca con i bidoni di immondizia, la piazza con la statua dorata, le immagini sul cellulare del felice passato. Poi la vediamo coricata nel lettino di ospedale in uno spazio vuoto e abbagliante di bianco, ma non muore nel lettino: si avvia verso un’apertura e sparisce nella nebbiolina. Un finale poco convincente.
Quella che invece risulta del tutto convincente è la direzione di Michele Mariotti, dai lividi accordi del preludio del primo atto a quello straziante del terzo, dagli angosciosi colpi dei timpani di «Amami Alfredo» alle ruvide e desolate strappate degli archi di «Addio del passato». Mariotti presta grande attenzione alle voci e al loro equilibrio sonoro con la fossa orchestrale. Riapre poi i tagli di tradizione così che la sua Traviata risulta integrale salvo alcuni da capo nelle cabalette dei due uomini.
Trionfo personale per la Violetta di Pretty Yende che esordisce nella parte, a suo agio nelle agilità e nei virtuosismi del primo atto come nella tragica intensità del terzo quando è finalmente e totalmente nella pelle della protagonista, mentre fino a quel momento c’era una certa freddezza. Non sembra scoccare invece la stintilla tra i due protagonisti, più convincenti da soli che in duo. Benjamin Bernheim ha voce ampia e ben sfumata, la recitazione non è un gran che ma così delinea un Alfredo un po’ impacciato e superficiale, come in realtà è il personaggio. Jean‑François Lapointe è un Germont padre non particolarmente convincente ma gioca in casa e il pubblico è in delirio per lui. Julien Dran (Gaston) e Thomas Dear (Dottor Grenvil) sono quelli che si fanno più notare nella folta schiera di comprimari. Preciso e scenicamente sciolto il coro del teatro diretto da José Luis Basso.
⸪