Mese: ottobre 2020

Der Kaiser von Atlantis

Viktor Ullmann, Der Kaiser von Atlantis (L’Imperatore di Atlantide)

★★★★☆

Düsseldorf, Opernhaus, 16 ottobre 2020

(video streaming)

bandiera francese.jpg Ici la version française

L’arte come resistenza e volontà di vivere

Per uno strano caso, a distanza di pochi giorni la Germania – il paese che continua a fare i conti con il suo passato – mette in scena due lavori di compositori che sono stati perseguitati dal Nazismo: a Monaco di Baviera la Bayerische Staatsoper Die Vögel (Gli uccelli) di Walter Braunfels, a Düsseldorf la Deutsche Oper am Rhein Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (L’imperatore di Atlantide o La negazione della morte) di Viktor Ullmann, due parabole che non potevano non fare riferimento alla tremenda realtà del loro tempo.

Che valore hanno la vita e la morte in un mondo in cui le persone sono state private della loro dignità? Questa è la domanda attorno alla quale ruota l’opera di Ullmann composta nel 1943-44 per un ensemble di solisti di prim’ordine tra gli orrori quotidiani del lager di Terezín in cui erano rinchiusi il compositore e il librettista Peter Kien. Il campo di concentramento ceco era stato scelto dalla propaganda nazista come modello per mascherare le atrocità e gli orrori dei campi di sterminio: qui si giravano film di vita apparentemente idilliaca, vi erano dei caffè, vi venivano allestiti concerti e rappresentazioni teatrali (1). La partitura di Ullmann è sopravvissuta quale testimonianza di appassionata resistenza artistica contro un regime inumano.

L’opera racconta la storia del paranoico imperatore Totalitario (Overall) che fa la guerra con una tale passione che persino la Morte decide di prendere posizione contro di lui. Trattenuta dalla silenziosa accettazione delle masse, la roccaforte del sistema dell’ingiustizia imperiale perde il suo potere nel momento in cui la Morte si dimette dai suoi doveri. L’immunità alla morte di cui parla la vicenda doveva suonare crudelmente sarcastica nel lager di Terezín, luogo di morte per 140 mila persone.

Di fronte alla morte meccanizzata su scala industriale presieduta dall’Imperatore di Atlantide, Arlecchino e Morte – «la vita che non può più ridere e la morte che non può più piangere» – si riducono a osservatori di un mondo «che ha dimenticato come dilettarsi nella vita e morire di morte». Quando l’Imperatore dichiara una guerra di tutti contro tutti, la Morte sente di essere stata derubata di ogni dignità e rifiuta di servire ancora l’Imperatore. Se la morte perde il suo orrore, tutto perde senso: che potere ha un despota assassino se nessuno nel suo impero può più morire? Non si possono eseguire esecuzioni, i soldati si dimostrano incapaci di uccidersi a vicenda e ben presto l’intero Paese viene sopraffatto dalle aspre proteste dei morti viventi contro l’immortalità che è stata loro imposta. La Morte si offre di porre fine al suo sciopero se l’Imperatore accetta di sacrificarsi «come il primo a subire questa nuova morte«. L’Imperatore allora dà l’estremo saluto e segue la Morte.

Unica opera che conosciamo essere stata composta nella deprivazione e nell’orrore di un campo di concentramento nazista, si è tentati di innalzare L’imperatore di Atlantide a memoriale di fronte all’oppressione e all’annientamento, fulgido esempio di coraggio e volontà creativa nelle circostanze più disastrose. Ma anche se merita un riconoscimento per la sua posizione unica nel repertorio operistico, questo non deve oscurare la sua specificità e il suo valore artistico intrinseco. Il suo interesse drammatico e musicale trascende le condizioni della sua creazione.

Ciò che non era loro possibile nella vita reale, Ullmann e Kien sono stati in grado di trasporre in arte. La loro espressione artistica è stata un mezzo di resistenza per riaffermare la loro dignità umana e volontà di vivere. Attraverso di essa hanno dimostrato di appartenere alla tradizione culturale europea da cui i nazisti li hanno così brutalmente strappati: in questo lavoro della durata di appena un’ora Ullmann non solo fa riferimento alle influenze della sua contemporaneità, da Schönberg ai balli alla moda degli anni ’20 e ’30, ma include anche criptiche citazioni musicali come il corale di Bach Ein’ feste Burg ist unser Gott e l’inno nazionale tedesco. Di questi temi popolari accostati a passaggi atonali e reminiscenze mahleriane, Axel Kober e i Düsseldorfer Symphoniker offrono una lucida lettura e rendono organico un lavoro frammentario che non ha conosciuto una versione definitiva.

Nella messa in scena di Ilaria Lanzino, Arlecchino (la vita) e la Morte sono legati da un filo – tutta la scenografia di Emine Güner, che disegna anche i costumi, è fatta di fili tesi, come in un lavoro costruttivista di Naum Gabo o un disegno prospettico tridimensionale, che definiscono gli spazi – e la Morte stancamente spegne la fiammella accesa ripetutamente da Arlecchino, qui uno stracciato Pierrot che inneggia alla luna esprimendosi in un quasi Sprechgesang non molto lontano dal Pierrot Lunaire. Quello di Schönberg non è l’unico influsso sulla musica di Ullmann, anche Kurt Weill è presente con i suoi suoni lividi e le marcette.

Diverse fonti ispirano i costumi dei personaggi in scena: l’Imperatore è tutto dipinto d’oro, non ha i baffetti ma nei video che passano dietro di lui il suo atteggiamento ricorda quello di un certo imbianchino di Braunau; l’Altoparlante ha sul petto una spirale come quella dell’Ubu disegnato da Jarry, ma qui luminosa, mentre trucchi antirealistici e parrucche rigide contraddistinguono il Soldato, la Ragazza e il Tamburino, gli altri personaggi di questo atto unico.

Dei sette interpreti sono da ricordare almeno le belle prove del baritono Emmett O’Hanlon (Imperatore), del basso Luke Stoker (Morte) e del tenore David Fischer (Arlecchino).

(1) Nel suo straziante libro del 1963 Il Requiem di Terezín lo scrittore Josef Bor racconta la vicenda dell’esecuzione del Requiem di Verdi con un coro e un’orchestra formati da deportati, tutti consapevoli di essere destinati presto alla morte. Tra il pubblico, oltre ai prigionieri, c’erano alti gradi nazisti tra cui Adolf Eichmann in persona.

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Un mari à la porte

Jacques Offenbach, Un mari à la porte

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 12 febbraio 2019

(registrazione video)

No, non è Feydeau

Soltanto due teatri in Italia si sono ricordati dei duecento anni passati dalla nascita di Jacques Offenbach, ed entrambi con due rari atti unici: a Martina Franca il Coscoletto in forma semi-scenica mentre a Firenze Un mari à la porte è inopinatamente abbinato a Cavalleria rusticana, una vicenda ben distante nel gusto e accomunata soltanto dal sentimento della gelosia,.

Una stanza buia, con una porta, finestre, un camino. Mezzanotte. Florestan, un compositore di operette in fuga da un marito geloso, dai creditori e da un ufficiale giudiziario, esce dal camino nella stanza di Suzanne mentre fuori si sente il valzer di una festa di matrimonio. L’uomo si nasconde in un armadio proprio mentre entrano la giovane sposa Suzanne e la sua amica Rosita. Suzanne ha appena litigato con il suo nuovo marito e Rosita sta cercando di convincerla a tornare al ballo. Suzanne scopre Florestan e lo supplica di salvare il suo onore uscendo dalla finestra nel giardino, ma la stanza è al terzo piano. Quando Rosita torna – e dopo che Florestan ha spiegato che la sua ultima operetta è stata rifiutata dai Bouffes Parisiens – cercano un modo per farlo uscire senza che sia notato. Mentre Florestan racconta la sua storia, si rende conto che il giovane marito Martel è l’ufficiale giudiziario da cui sta fuggendo. Quando Martel bussa alla porta chiusa, sente la voce di Florestan e crede che Suzanne stia cercando di farlo ingelosire. Nella confusione Suzanne lascia cadere la chiave dalla finestra. Ancora fuori Martel finge di spararsi, poi va a recuperare la chiave caduta in giardino. Mentre è via, Florestan si prepara a scendere in strada con una corda, ma si ricorda improvvisamente che una vecchia zia aveva promesso di pagare i suoi debiti se si fosse sposato, così chiede a Rosita di sposarlo, e dopo lo stupore e la riluttanza iniziali, lei accetta. Quando cala il sipario, il marito entra dalla porta.

Un mari à la porte fu rappresentato il 22 giugno 1859 mentre la Francia, alleata col Regno di Sardegna, faceva guerra all’Austria. Era sì una guerra combattuta al di fuori del paese, ma i morti erano comunque tanti anche per i vincitori della battaglia di Solferino. Ma gli spettatori venivano al Théâtre des Bouffes Parisiens proprio per dimenticare quei fatti e divertirsi con questa surreale vicenda.

Cento e sessanta anni dopo l’atto unico ritorna in scena e il primo problema è la partitura, che non c’è, esiste solo lo spartito per canto e pianoforte e Luca G. Logi, archivista dell’Orchestra del Maggio, ne ricostruisce la parte strumentale con gusto. I registi Luigi di Gangi e Ugo Giacomazzi di Teatrialchemici mettono in scena il lavoro pensando ad Aristofane, in particolare a Gli uccelli, e allestiscono una stanza-voliera riccamente decorata (scene di Federica Parolini) con pennuti sgargianti e un po’ isterici nei costumi di Agnese Rabatti. L’arguto libretto di Alfred Delacour e Léon Morand è reso con volenteroso spirito dai quattro interpreti che hanno a disposizione un solo numero solista, la tyrolienne di Rosita, e per il resto un duetto, un trio e due quartetti. La recitazione ha una sua fluidità ma manca di naturalezza e la dizione è appena accettabile. Il marito tenuto fuori della porta è Patrizio la Placa, Florestan è Matteo Mezzaro, Suzanne Marina Ogii e Rosita Francesca Benitez, la più convincente dei quattro. Valerio Galli, direttore più avvezzo ai drammi veristi, punta al ritmo ma non dimostra sempre quella leggerezza che sarebbe costituente fondamentale di questo repertorio così inusitato da noi.

Lo spettacolo è disponibile su DVD/BR della Dynamic.

 

Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

Birmingham, Aston Hall, 11 marzo 2002

(video streaming)

La Community Opera di Vick nell’unicum beethoveniano

Graham Vick ci ha abituato ad allestimenti in luoghi che non siamo quelli canonici dei teatri d’opera: la sala partenze di un aeroporto (The Ice Break, Birmingham 2015), un teatro di corte barocco (Stiffelio, Parma 2017), un palazzetto dello sport (Paria, Poznań 2019). Ma già nel 2002 aveva messo in scena Fidelio sotto una tenda di circo per la Birmingham Opera Company da lui fondata e di cui è ora il direttore artistico e l’anno prima aveva messo in scena il Wozzeck in un magazzino.

Il conflitto tra la libertà personale e la tirannia del potere corrotto è trasposto ai nostri tempi da Vick che immerge il pubblico nella rappresentazione grazie al progetto scenico di Paul Brown. Il presentatore televisivo che sta raccontando la trama è interrotto da manifestanti con dei cartelli mentre Rocco ordina agli spettatori che aspettano fuori in piedi di prendere posto all’interno della tenda dove si sta svolgendo una triste festa di matrimonio, quello di Florestan e Leonore, appunto, di cui vediamo le immagini nei monitor sparsi nella sala. Il tavolo del pranzo delle nozze si scopre essere una fila di lavatrici…

Su altri video si vede il direttore dirigere l’orchestra da qualche parte. I cantanti si esprimono in inglese nella traduzione di David Pountney, così che i testi recitati e cantati sono ben comprensibili per il pubblico. Una parete nella tenda scende e vediamo l’orchestra mentre Leonore si veste da uomo. Un’altra parete andrà giù per far entrare Rocco e Jaquino che si uniscono a Marzelline e Fidelio per intonare il sublime quartetto.

 

Il pubblico è attirato da un’altra parte dove viene accolto, come allo Speakers’ Corner di Hyde Park, da individui che parlano su piedistalli improvvisati sul sottofondo della marcia che introduce Don Pizarro. Poliziotti in tenuta da sommossa spingono la folla verso un’altra parte ancora per incontrare il governatore. Quello dei prigionieri è intonato da un coro dietro l’orchestra, tra la gente ci sono solo figuranti: duecento persone scelte tra la gente della città. Vick ama mescolare professionisti con dilettanti, questa è la sua visione del teatro: avvicinare il maggior pubblico possibile, e lui ci riesce provocandolo a interagire con il dramma che in questo modo si allarga alla “platea”. Al pubblico è richiesto un impegno molto maggiore che in un normale teatro d’opera e qui a Birmingham sotto la tenda della Aston Hall gli spettatori seguono realmente il viaggio di Leonore alla ricerca del suo uomo, «un viaggio mistico nel cuore delle tenebre, nelle prigioni che ci costruiamo da noi stessi», dice il regista, e i figuranti illustrano queste “prigioni” con grande intensità: chi è legato, chi è senza la vista, chi è attanagliato da un’angoscia. Tornato a casa ognuno di loro si ricorderà certamente di questa esperienza. Così come il pubblico, a cui durante l’intervallo vengono dati dei cappucci neri. Nella seconda parte dello spettacolo a un ordine dall’alto («Dont look») devono infilarsi il cappuccio in testa e per un po’ piombare nell’oscurità per vivere qualla di Florestan, «God, such darkness here!». Quando si levano il cappuccio sono nei gelidi e bui sotterranei con Leonore di cui condividono l’angoscia della ricerca e la trepidazione della scoperta. Ma l’incontro dei due coniugi fa scoprire altre situazioni di schiavitù e durante la ripresa dell’ouverture Leonore 2 una folla di miseri avanza verso l’orchestra: il dramma non è più solo personale, ma la liberazione dei singoli non è la liberazione dei molti, purtroppo. La gioia finale non è condivisa da tutti. Questo è il pessimistico messaggio che ci lascia il regista.

In uno spettacolo come questo quasi non conta l’eccellenza degli interpreti, invece qui ci sono degli ottimi cantanti, soprattutto nelle parti maschili: il realistico Rocco di Jonathan Best (il migliore), il Jaquino di John Apperton, il maestoso Don Pizarro di Keel Watson, il lirico Florestan di Ronald Samm, il Don Fernando di Michael Druiett. Voce un po’ leggera quella della Leonore di Jane Leslie MacKenzie, più adatta al personaggio la Marzelline di Donna Bateman. Non si sa se sia un caso o se sia voluto, gli interpreti di Florestan e Pizarro (l’oppresso e l’oppressore) sono molto simili, due corpulenti cantanti di colore.

La versione orchestrale adattata per l’occasione a 16 strumentisti (un solo quartetto d’archi!) è di Julian Grant ed è resa molto efficacemente da William Lacey che neanche per un momento fa rimpiangere la versione originale, né per peso orchestrale né per incisività.

Il barbiere di Siviglia

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Florence, Teatro del Maggio Musicale, 23 October 2020

 Qui la versione italiana

Damiano Michieletto’s youthful Barbiere returns to Florence

When in 1816 an opera was announced, based on the same subject of Giovanni Paisiello’s Il barbiere di Siviglia, many regarded it as an act of arrogance and outrageous pride against the most revered composer of the time. The tactic of giving it a different title was little use: when on 20th February the stage of the Teatro di Torre Argentina saw the debut of Almaviva, o sia L’inutile precauzione (Almaviva, or The Useless Precaution), the performance was the target of stormy protests by supporters of the old master. Nevertheless, the second performance was a success and the following ones triumphant, a triumph lasting until today, making Gioachino Rossini’s Il barbiere di Siviglia the opera buffa par excellence and one of the most beloved by the public…

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Zaide

foto © Yasuko Kageyama

Wolfgang Amadeus Mozart, Zaide

★★★★☆

Rome, Teatro dell’Opera, 22 octobre 2020

 Qui la versione italiana

La turquerie inachevée de Mozart au prisme des hypothèses d’Italo Calvino

C’est l’opéra de Mozart le plus problématique à mettre en scène qui inaugure la nouvelle saison de l’opéra romain. Resté inachevé, il a été mis de côté par le compositeur et ce n’est qu’en 1799, huit ans après sa mort, que sa femme Constance en a trouvé les pages et les a offertes à un éditeur. Mais elles ont été publiées en 1838 et ce n’est qu’en 1866 qu’elles firent  l’objet d’une adaptation comprenant une ouverture et un finale composé par Johann Anton André, lequel avait édité les fragments. Peut-on reconstituer exactement la genèse de l’œuvre ?

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Il barbiere di Siviglia

foto © Michele Monasta

Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia

★★★☆☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 23 ottobre 2020

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Il barbiere ritorna a Firenze con un Michieletto vintage

Quando nel 1816 fu annunciata la presentazione di un’opera buffa che aveva come soggetto lo stesso de Il barbiere di Siviglia di Giovanni Paisiello molti gridarono al delitto di lesa maestà nei confronti del più venerato maestro dell’epoca: un atto di arroganza e superbia imperdonabile. A poco valse l’espediente di intitolarlo diversamente e quando il 20 febbraio sulle tavole del romano Teatro di Torre Argentina debuttò Almaviva, o sia l’inutil precauzione, la rappresentazione fu fatta oggetto di tempestose proteste da parte dei sostenitori del vecchio maestro con l’intenzione di far fallire l’opera. Ma già la seconda ripresa si mutò in successo e le successive in trionfo. Un trionfo che continua ancora oggi e fa de Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini l’opera buffa per antonomasia e una delle più amate dal pubblico.

Si tratta di un’opera che per la perfezione del meccanismo teatrale fa il pari con Le nozze di Figaro, entrambe non a caso partorite dalla caustica penna di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, che pochi anni prima della Rivoluzione Francese aveva infiammato i pubblici e messo in allarme le corti europee con le sue irriverenti commedie. Nel libretto di Cesare Sterbini non ci sono scontri tra classi sociali, ma il personaggio più vivo della vicenda è il popolano Figaro, certo non il nobile Almaviva, mentre con Don Bartolo e Don Basilio è messo allegramente in caricatura il benpensante conformismo.

Il barbiere di Siviglia è tra le opere più eseguite al mondo e i registi si sono sbizzarriti con la sua messa in scena, ma senza quasi mai sconvolgere la vicenda, al più sottolineando la comicità dei personaggi. Ed è quello che fa Damiano Michieletto in questa produzione ideata nel lontano 2003 per la Scuola di Formazione del Maggio Fiorentino ripresa ora dallo stesso teatro. Nel 2014 a Parigi il regista aveva proposto una versione completamente nuova del Barbiere, ma qui si ritorna a quella di 17 anni fa con la ripresa di Silvia Paoli. La sua messa in scena ha la freschezza e l’ingenuità delle cose giovanili.

I personaggi si stagliano come maschere della commedia dell’arte in una scena che sarebbe errato definire minimale o concettuale, anche se c’è solo un fondale che cambia colore grazie all’efficace gioco luci di Alessandro Tutini e pochi altri oggetti genialmente utilizzati – sedie rosse, una scala blu, cuscini gialli, ombrelli, palloni – mentre i variopinti costumi di Carla Teti caratterizzano i caricaturali travestimenti del Conte, Figaro con i capelli che sembrano orecchie volpine, Bartolo un panciuto e inoffensivo cane da guardia, Don Basilio verde come un rettile con la coda mentre i due giovani vestono di rosso. L’utilizzo dei colori primari e delle luci richiama il teatro di Robert Wilson, ma solo visualmente, perché tanto là i movimenti sono stilizzati e lenti, quanto qui hanno una prorompente vivacità. Lo spettacolo è incorniciato dagli annunci ferroviari di un fantomatico treno Firenze-Siviglia per cui vediamo i “passeggeri” di due affollate carrozze di seconda classe sobbalzare al ritmo saltellante dell’ouverture «ma ad un certo punto il ritmo del treno comincia a crescere, cresce, cresce, prende il volo e tutti i tranquilli passeggeri vengono catapultati involontariamente nell’opera diventando i protagonisti di questa surreale dimensione», scrive il regista.

La freschezza della messa in scena si rispecchia nella freschezza della direzione di Michele Gamba che concerta con grande precisione i cantanti in scena, mette in evidenza i contrasti cromatici e dinamici della partitura che rende sorprendentemente nuova, come se l’ascoltassimo per la prima volta, con i suoi umoristici suoni onomatopeici, gli intricati concertati, i preziosi spunti melodici.

In scena un cast che include ben tre cantanti russi: Ruzil Gatin, Vasilisa Beržanskaia e Evgenij Stavinskij. Il primo è un Conte di Almaviva di rara eleganza ed efficace presenza scenica che sfoggia legati e mezze voci mirabili ma al momento buono sa far svettare la voce in acuti luminosi e agilità prese con agio. È doppiamente incomprensibile allora il taglio del suo rondò finale. Vasilisa Beržanskaia è una Rosina di grande temperamento con un’estensione vocale che passa da un registro basso quasi da contralto a quello acuto in cui dipana infallibili colorature. La voce cavernosa di Evgenij Stavinskij rende ancora più comico il suo Don Basilio nell’iconica «La calunnia». Il Don Bartolo di Carlo Lepore raggiunge la perfezione: pochi come lui sanno definire la comicità del personaggio senza esagerare, esibendo mezzi vocali ragguardevoli e una dizione da manuale. La facilità con cui realizza la sua «A un dottor della mia sorte» rende ancora più sorprendente il fatto che in passato molti bassi non riuscissero nell’impresa e ne chiedessero la soppressione. Ottima prova l’hanno fornita Carmen Buendía, una Berta dagli istinti sessuali nient’affatto sopiti che sotto la grigia uniforme nasconde un provocante intimo di seta rossa, e Matteo Guerzé efficace nelle due parti di Fiorello e dell’Ufficiale. Resta il personaggio del titolo, ma qui Massimo Cavalletti, nonostante la disinvolta presenza scenica, delude per una certa mancanza di musicalità e ricorso al parlato.

Purtroppo lo spettacolo termina in modo deludente: non solo al Conte di Almaviva viene tagliato il rondò finale, come s’è detto, ma il regista non trova di meglio che riportare in scena i palloni del finale primo. Qui è mancato il coup de théâtre che rende la serata indimenticabile. Peccato.

Zaide

foto © Yasuko Kageyama

Wolfgang Amadeus Mozart, Zaide

★★★★☆

Roma, Teatro dell’Opera, 22 ottobre 2020

bandiera francese.jpg Ici la version française

La turcheria incompiuta di Mozart e le molte ipotesi di Italo Calvino

L’opera di Mozart più problematica da mettere in scena inaugura la stagione lirica romana. Rimasta incompiuta, fu messa da parte dall’autore e solo nel 1799, otto anni dopo la sua morte, la moglie Constanze ne trovò le pagine e le offrì a un editore. Ma queste furono pubblicate nel 1838 e si dovette aspettare il 1866 per ascoltarle in un adattamento che includeva un’ouverture e un finale composti da Johann Anton André, colui che aveva curato la pubblicazione dei frammenti. Ma che cosa era successo?

Nel 1779 durante la ripresa del suo Thamos, König in Ägypten Mozart aveva deciso di mettere in musica per i Böhm, una compagnia teatrale destinata all’esecuzione di opere in tedesco, un libretto propostogli dall’amico Johann Andreas Schachtner, lo stesso che aveva collaborato al Bastien und Batienne dieci anni prima. Il soggetto, l’ambiente turco e il titolo Das Serail (Il serraglio) anticipano il futuro Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio).

La contemporanea commissione dell’Idomeneo da parte del principe elettore di Monaco rallentò molto la scrittura di Zaide, come venne poi conosciuta essendo questo il titolo scelto dall’André. La morte dell’arciduchessa Maria Teresa e la conseguente chiusura per lutto dei teatri austriaci bloccarono definitivamente il progetto di cui rimangono quindici numeri musicali di cui non siamo sicuri quale sia l’effettivo ordine, mancano l’ouverture, il finale e i testi recitati. Non è chiara quindi la vicenda, né si sa sa quanti atti dovrebbero essere – tre secondo la consuetudine per un Singspiel, o due? – quindi neppure quanti numeri siano mancanti o che potrebbero essere confluiti nel Ratto.

Nelle produzioni moderne il problema di dare un senso compiuto ai frammenti manoscritti della Staatsbibliotek Preussicher Kulturbesitz di Berlino è stato variamente risolto. Qui a Roma si riprende il testo che Italo Calvino (1) aveva scritto per la produzione del festival di Batignano del 1981 (2). Lo scrittore non vuole creare l’illusione di un’opera compiuta, ma cerca di «mettere in valore quello stato d’animo di sospensione che ogni opera incompiuta comunica»: nella sua “ricostruzione” i personaggi dicono o cantano solo le parole accompagnate dalla musica, mentre un attore recitante avanza ipotesi su come collegare i vari numeri ed esprime possibili ipotesi narrative che i personaggi in scena mimano a loro volta.

Come si vede siamo nel mondo de Il castello dei destini incrociati, una struttura combinatoria per raccontare storie diverse con gli stessi elementi diversamente composti, là affidata alle carte dei tarocchi, qui ai pezzi originali di Mozart. La morale di Calvino è che i numeri musicali lasciati da Mozart sono come gioielli incastonati in un mosaico che è stato distrutto ma sono riutilizzati nella cupola di una moschea che viene a sua volta distrutta, ma le gemme no e serviranno ancora una volta ad abbellire «altri mosaici, lungo le scale di un bazar, nel cortile di un caravanserraglio, nella reggia di un califfo, in una fortezza sul deserto, in cima alla cuspide di un minareto, nel fondo di una vasca dove le odalische fanno il bagno…».

Il tutto rimarrebbe un divertimento puramente letterario se in scena non entrasse in gioco il senso teatrale di Graham Vick che fa di questo espediente la chiave del suo intelligente e divertente spettacolo grazie anche alla scenografia di Italo Grassi che trasforma il palcoscenico del Costanzi in un cantiere edile (qui si costruisce un’opera!) con ironici riferimenti alla storia narrata e all’ambiente orientale. Così le reti di plastica diventano le persiane traforate dell’harem, il tubo per calare le macerie il tronco di una svettante palma, il getto di una pompa lo zampillo di una fontana del giardino, le scintille di un saldatore la coda della cometa di cui parla Zaide, la sabbia da costruzione quella di una duna del deserto.

All’inizio tutta fila liscio: al coro degli schiavi che si consolano del loro destino «Jeder Mensch hat seine Pein» (Ogni uomo ha la sua pena), praticamente un quartetto per tenori, segue il melologo di Gomatz «Unerforschlische Fügung!» (Destino imperscrutabile), un lungo monologo con musica che non può non ricordare il Fidelio beethoveniano, e quindi la “soave ninna nanna” «Ruhe sanft, mein holdes Leben» (Riposa sereno, dolce vita mia) di Zaide. Si continua con il duettino tra i due innamorati, seguono gli interventi di Gomatz e Allazim e quindi il terzetto, che però viene interrotto dal narratore, insoddisfatto di come sono andate le cose, che si immagina altre possibilità. E l’orchestra riprende il tema musicale delle varie scene che vengono riassunte e ricombinate offrendo ogni volta una trama differente. Succederà nuovamente nella seconda parte, dove all’agognato quartetto “finale” si arriva dopo che tre diversi snodi narrativi sono stati presi in considerazione e sviluppati.

L’ironia del gioco viene affidata a interpreti non solo scenicamente convincenti ma vocalmente eccellenti quali il soprano Chen Reiss, tenera Zaide dal timbro d’argento che sa però dar prova di temperamento nella sua invettiva contro Solimano «Tiger! Wetze nur die Klauen» (Tigre, affila i tuoi artigli). Collaudati ed infallibili sono Juan Francisco Gatell (Gomatz) e Markus Werba (Allazim), due mozartiani di lunga data. Soliman qui ha la voce di un tenore, quella non strabordante di Paul Nilon. Voce da vendere invece, e di grande qualità espressiva, è quella dell’Osmin di Davide Giangregorio, che si conferma ottimo baritono dopo la bella prova nel suo debutto come il Ferrando del Trovatore di Macerata. La sua parte, e non solo per il nome del personaggio, è quella che più anticipa la buffoneria del Ratto, mentre Zaide è una Contessa in fieri e Gomatz, come si è detto, un Florestan avanti lettera. Soliman non ha la statura e complessità di Selim, ma qui nessuno riesce a sviluppare una psicologia convincente e su questo devono fare i conti Calvino col suo testo e Vick con la sua messa in scena.

La voce narrante è quella di un Remo Girone con qualche piccola amnesia mentre Daniele Gatti offre di questi frammenti una lettura di olimpica serenità (l’accompagnamento della sublime «Ruhe saft» che magari avremmo preferito in un tempo più lento, ma solo per goderne maggiormente) ma anche percorsa da brividi preromantici (il Melodram di Gomatz). Gli risponde un’orchestra del teatro in gran forma con alcuni godibili assoli strumentali. Dopo l’anteprima giovani sei sono le repliche romane, ma lo spettacolo verrà ripreso nel Circuito Lirico Lombardo. Un’occasione da non perdere.

(1) Zaide – Trame per l’incompiuto Singspiel… ora in “Testi per musica” (Romanzi e racconti, vol III, Milano, 2004). Si tratta di uno dei pochi interventi di Calvino nell’opera dopo le collaborazioni con Liberovici negli anni ’50 e prima de La vera storia (1982) e Un re in ascolto (1984) di Luciano Berio. Nel programma di sala Luca Badini Confalonieri ricorda poi la sua amicizia col mozartiano Massimo Mila.

(2) Lì la regia fu affidata ad Adam Pollock, mentre fu lo stesso Graham Vick ad allestirla a Venezia nel 1985.

 

Stagione Sinfonica RAI

Nino Rota, Musiche per i film di Fellini

Marcello Rota, direttore

Cristina Mosca, soprano

Rota dirige Rota

Quest’anno avrebbe compiuto 100 anni. Parliamo di Federico Fellini a cui la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI dedica un omaggio con le esecuzioni delle musiche dei suoi film, tutte di Nino Rota.

Caso forse unico di collaborazione totale tra un regista e il compositore delle sue colonne sonore, fino alla fine nel 1979 Rota ha scritto le musiche di tutti i suoi film: Lo sceicco biancoI vitelloniLa stradaIl bidoneLe notti di CabiriaLa dolce vita8 ½Giulietta degli spiritiFellini SatyriconRomaAmarcordIl Casanova di Federico FelliniProva d’orchestra, oltre agli episodi felliniani di Boccaccio ’70 Tre passi nel delirio e al suo documentario I clowns.

L’omaggio è ripartito in due serate: l’8 ottobre è stato eseguito il balletto La strada, mentre il 14 musiche da altri suoi film precedute dalla proiezione dell’edizione restaurata di Prova d’orchestra, il suo pessimistico lavoro del 1979, pieno periodo degli anni di piombo ma ancora molto attuale oggi, che nell’auditorium Arturo Toscanini ha avuto un riverbero ancora più forte.

In entrambe le serate sul podio si è presentato un direttore che ha lo stesso cognome, Marcello Rota, il quale ha dimostrato una volta di più la straordinaria maestria del compositore, il più stravinskiano del Novecento italiano, come scrive Oreste Bossini nelle note del programma di sala, con un gusto strumentale e un’erudizione che non è sempre facile trovare in altri musicisti del secolo scorso. Basti ascoltare il tono antico quasi alieno con cui inizia la musica del suo Satyricon, o i suoni liquidi del Casanova, il film più complesso e oscuro del regista riminese. Prima è stato possibile immergersi nella nostalgia de I vitelloni, de Lo sceicco bianco e de La dolce vita, dove la musica diventa uno dei tanti personaggi. Qui è entrata in scena Cristina Mosca, voce sontuosa e fascinosa presenza, che ha vocalizzato soavemente e ha interpretato la canzone del film con un’intensità tale da scatenare anzi tempo gli applausi del pubblico. Il soprano uscito dal Conservatorio di Alessandria è riuscito a mantenere in perfetto equilibrio l’impostazione della voce con il gusto della canzone e, cosa non da poco, a perforare con agio l’opulento suono orchestrale. La cantante è ritornata ancora per Le notti di Cabiria e per il Casanova. Con Amarcord la musica delinea il paesaggio della memoria oggetto del film e qui Marcello Rota ha saputo condurre l’orchestra in ambienti sonori diversissimi e sorprendenti. 

Ha concluso il programma Prova d’orchestra, suonata molto meglio della scalcinata orchestra del film. E qui non c’è stato pericolo che la parete di fondo dell’auditorium crollasse sotto i colpi di una wrecking ball… L’esiguo ma tenace pubblico – esiguo causa pandemia, non certo per mancanza di interesse ché anzi tutti i posti disponibili erano esauriti – ha applaudito con convinzione ottenendo un fuori programma a cui ha partecipato col battito delle mani al ritmo della trascinante marcetta che conclude  8 ½. 

La musica da film è quella che quasi non si deve notare, non deve distogliere l’attenzione dall’immagine, deve «spalleggiarla» come diceva Fellini, ma quando è ben fatta, come quella di Nino Rota, è altrettanto godibile se eseguita a regola d’arte da un’orchestra come quella della RAI sotto una bacchetta amorevole ed esperta.

Adelson e Salvini

Vincenzo Bellini, Adelson e Salvini

★★★★☆

Jesi, Teatro Pergolesi, 13 novembre 2016

(registrazione video)

Un esordiente Bellini che già mostra una grande personalità 

Prima opera di Vincenzo Bellini a coronamento dei suoi studi, Adelson e Salvini vide la luce nel 1825, presumibilmente il 12 febbraio, al teatrino del Collegio Musicale S. Sebastiano di Napoli. Il saggio ebbe un grande successo, tanto che fu replicato ogni domenica per tutto il resto dell’anno. Si tratta di un’opera semiseria in tre atti con dialoghi parlati su un libretto di Andrea Leone Tottola che era già stato messo in musica senza successo da Vincenzo Fioravanti nel 1816. Il testo è basato sul racconto omonimo di François-Thomas-Marie De Baculard D’Arnaud tratto dalla raccolta delle sue Épreuves du sentiment (pubblicate nel 1775-1778).

Atto I. Irlanda, XVII secolo. Lord Adelson, momentaneamente in viaggio, ospita nel suo castello la fidanzata Nelly, una giovane orfana, e l’amico Salvini, un pittore italiano segretamente innamorato di Nelly e a sua volta amato in segreto da Fanny, una giovane irlandese cui dà lezioni di pittura. Nel castello si è infiltrato Geronio, spia del colonnello Struley, proscritto tempo addietro dal padre di Adelson. Struley è per giunta lo zio di Nelly, che intende far rapire dal castello per vendicarsi della famiglia Adelson. Salvini, combattuto tra l’amore per Nelly e l’amicizia verso Adelson, medita il suicidio, mentre il servo napoletano Bonifacio Beccheria tenta di confortarlo con bizzarri ragionamenti. Salvini è tra l’altro angustiato da un problema di coscienza: ha intercettato una lettera di Adelson alla fidanzata e ora non sa se consegnarla. Finalmente si decide, ma quando Nelly gli chiede di leggerle la lettera a voce alta, Salvini si inventa una notizia fatale: per volontà di uno zio, Adelson è costretto a sposare la figlia di un duca, rompendo il fidanzamento. Adelson fa ritorno al castello, accolto da grandi festeggiamenti, ma si sorprende nel non vedere tra i suoi ospiti l’amico pittore. Atto II. Tutto è pronto per le nozze tra Adelson e Nelly ma l’assenza dell’amico preoccupa il castellano. Quando finalmente lo trova, Salvini sta per spararsi un colpo di pistola. Adelson lo ferma, intuisce che il gesto è dettato da un’infelice passione amorosa e, credendo di identificare in Fanny l’oggetto di tanto amore, gli concede la mano dell’allieva pittrice. Nessuno dei due fa tuttavia il nome della ragazza e, in un gioco di equivoci, Salvini ringrazia con slancio l’amico, credendo che gli abbia concesso la mano di Nelly. Rimasto solo, Salvini è avvicinato da Struley, che intende approfittare della sua passione per Nelly per portare a compimento i suoi piani criminali. Mentendo, il proscritto confida a Salvini che Adelson è in realtà già segretamente sposato a Milady Artur e che la promessa e il matrimonio con Nelly non sono che l’inganno di un abile seduttore. Struley fa incendiare un casino in fondo al parco del castello affinché, alla vista delle fiamme, tutti accorrano sul luogo del disastro e i suoi uomini possano rapire Nelly. Salvini, dopo aver riferito alla fanciulla del presunto inganno di Adelson, diviene inizialmente complice del colonnello e di Geronio. Atto III. L’incendio è domato, ma s’ode di lontano un colpo di rivoltella. Bonifacio si precipita in scena raccontando che Salvini, resosi conto dell’inganno, ha pugnalato Geronio ed è rimasto leggermente ferito da una pallottola di Struley, riuscendo però a liberare Nelly. Nelly è sfuggita all’agguato di Struley ma è priva di sensi. Adelson, che ha capito finalmente chi era il vero oggetto dell’amore di Salvini, gli mostra l’orfana facendogli credere che sia morta. Salvini vorrebbe uccidersi, ma quando vede Nelly rialzarsi la sua gioia è tanto grande che la sua passione si sublima e, rinunciando definitivamente alla fidanzata dell’amico, egli si dichiara pronto a sposare la piccola Fanny.

Bellini utilizzò alcune musiche dell’Adelson e Salvini in altre opere: parte della sinfonia finirà in quella del Pirata e la romanza di Nelly, «Dopo l’oscuro nembo», diverrà la cavatina di Giulietta nei Capuleti e Montecchi. Per non dire di certi momenti che sembrano preannunciare La sonnambula.

Il 1825 è anche l’anno del Viaggio a Reims e di Rossini c’è molto nel personaggio buffo di Bonifacio, più “belliniano” è invece quello di Nelly. Il taglio delle scene e l’alternanza di numeri solistici e ensemble dimostra già l’istinto teatrale del compositore catanese. Allora l’esecuzione avvenne con un’orchestra da camera e soli cantanti maschi, gli allievi della classe di canto, con il buffo Bonifacio che si esprimeva in dialetto. Nella seconda versione di tre anni dopo la sua parte fu trasposta in italiano, i dialoghi parlati trasformati in recitativi secchi, i tre atti ridotti a due e modificato il finale (1). In questa versione è stato portato in scena poche volte in epoca moderna (1985 al Metropolitan di Catania diretta da Andrea Licata e l’edizione discografica del 1992 diretta da Daniele Rustioni). Nel 2016 a Jesi Adelson e Salvini è eseguito tale e quale quello di 190 anni fa, ossia nella prima versione grazie alla scoperta nel 2001 nella biblioteca del Conservatorio di Milano di pagine che hanno permesso di integrare lacune di manoscritti già noti. Ancora diverso però qui il finale: Salvini crede di aver ucciso Nelly e si consegna ad Adelson per essere punito. Il lord allora svela la ragazza sana e salva e nel giubilo generale la sposa. Chissà cosa succederà di Salvini e Fancy.

 

Nelle parole del regista Roberto Recchia le intenzioni della sua lettura: «Più che la specificità irlandese è rilevante che il protagonista, l’italiano Salvini, si trovi su un’isola, che circonda con il suo mare la prigione senza sbarre in cui si trova rinchiuso (volontariamente), ospite dell’amico Adelson. Molto forte nella partitura la presenza dell’Italia, grazie soprattutto al peso rilevante di Bonifacio Voccafrolla, che supera i limiti normalmente concessi al versante buffo nel genere semiserio. E così in Adelson e Salvini finisce per esserci molta più Italia che Irlanda, come se il pittore e il suo amico napoletano, nella trasferta sull’isola, in valigia si fossero portato pasta, pommarola e cuccuma. Abbiamo quindi deciso di sfruttare questa contraddizione tra la connotazione forte dell’ambientazione e la contemporanea “genericità” di linguaggio drammaturgico e musicale per sottolineare gli altri due aspetti che emergono chiari dal libretto: la follia di Salvini e la sua professione di pittore. Follia tutta romantica e non certamente patologica in senso moderno: Salvini è discendente diretto di Werther, vittima di un’irrequietezza romanticamente giovanile e di un amore impossibile e convenzionale, e tenterà più volte il suicidio per sfuggire al suo demone. Questa “follia” si traduce, sulle tele di Salvini, in ritratti mai terminati, dove a mancare è sempre il volto dell’amata, al punto che l’insipida Fanny si sente autorizzata a credersi lei l’oggetto del desiderio dell’attraente italiano. L’Irlanda che vedremo in scena, a questo punto, è il frutto della fantasia del pittore: le grandi tele dipinte diventano fondali e quinte teatrali di una rappresentazione che probabilmente avviene nella fantasia del protagonista […]. Con Benito Leonori e Catherine Buyse Dian abbiamo cercato di portare questi due aspetti – pittura e follia – all’estremo: come modello pittorico abbiamo scelto quello di William Etty, pittore inglese attivo negli anni belliniani, che con la sua ossessione per il nudo e con le sue tele sovente non terminate ci sembrava ben tradurre il tormento folle di Salvini. E anche nello stile dei costumi, l’intento è quello di restituire tutti gli altri personaggi come emanazioni del pennello del pittore: di foggia ottocentesca ma realizzati con tela grezza, sui quali la pittura interviene a definire le forme e i dettagli, anche questi non terminati, in un work in progress che vuole definire l’incubo irrazionale in cui si è rinchiuso il protagonista». Infatti la scenografia è formata da dipinti che a mo’ di quinte e fondali delimitano i vari ambienti che risultano quindi non ricostruiti realisticamente illuminati dalle luci antinaturalistiche di Alessandro Carletti. La recitazione dei cantanti viene messa a prova dai dialoghi parlati con risultati complessivamente accettabili, ma il più convincente sembra Clemente Antonio Daliotti, gustoso Bonifacio a suo agio nell’arguto vernacolo napoletano. Il resto del cast non è molto omogeneo, ma fortunatamente gli interpreti più convincenti sono quelli delle parti principali: Mertu Sungu, vocalmente generoso nell’impegnativa parte di Salvini; Rodion Pogossov un autorevole Adelson; Cecilia Molinari, esperta rossiniana, trepida Nelly.

José Miguel Perez-Sierra a capo della Orchestra Sinfonica Rossini dipana saldamente una partitura senza grandi varietà dinamiche. Soddisfacente il coro istruito da Carlo Morganti.

(1) Molto più sbrigativo quello della seconda versione: Salvini, resosi conto dell’inganno, ha pugnalato Geronio ed è rimasto leggermente ferito da una pallottola di Struley, riuscendo però a liberare Nelly. Salvini entra in scena e riconsegna la fidanzata all’amico. Ha deciso che partirà per Roma, per trattenervisi un anno prima di tornare al castello e sposare Fanny.

LNOBT

Lietuvos nacionalinis operos ir baleto teatras

Vilnius (1974)

1100 posti

In Lituania il Teatro dell’Opera fu fondato a Kaunas nel 1920. Dopo l’occupazione tedesca e poi sovietica per la seconda volta, nel 1948 fu trasferito da Kaunas a Vilnius.

Nel 1974 fu costruito un nuovo edificio disegnato dall’architetto Elena Nijolė Bučiūtė e dal 1998 il teatro è chiamato Teatro Nazionale dell’Opera e del Balletto i cui scopi sono: coltivare, creare e sviluppare le tradizioni delle arti performative musicali nazionali, formare e presentare al pubblico le tradizioni del teatro musicale contemporaneo, trasmettere in modo creativo i valori musicali della world music; creare le condizioni affinché artisti e artisti lituani e internazionali talentuosi e riconosciuti possano partecipare alle attività creative del teatro; formare l’immagine della cultura artistica del paese presentando i risultati della cultura musicale nazionale in paesi stranieri; educare, formare e soddisfare il bisogno pubblico di arti performative teatrali musicali professionali.