Stephan von Breuning

Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

Parigi, Opéra Comique, 1 ottobre 2021

★★★☆☆

(video streaming)

Fidelio a Guantanamo

«Sprecht leise, haltet euch zurück, | wir sind belauscht mit Ohr und Blick!» (Parlate piano, frenatevi, orecchi e sguardi ci spiano!) cantano i prigionieri a cui è stata concessa una boccata d’aria. Infatti sul palcoscenico dell’Opéra Comique una parete di monitor permette di controllare i detenuti di una prigione di oggi, potrebbe essere il famigerato carcere di Guantanamo. La tecnologia è cambiata, ma è sempre la stessa la violenza e sono gli stessi i soprusi, con i detenuti privati dei loro averi personali che finiscono in parte nelle tasche dell’avido carceriere Rocco, che d’altronde aveva intonato poco prima la sua prosaica lode al denaro: «Hat man nicht auch Gold beineben, | kann man nicht ganz glücklich sein» (Se non hai dell’oro appresso, non puoi esser davvero felice) ai due giovani innamorati Jaquino e Marzelline, in realtà la ragazza è innamorata di una terza persona…

Siamo infatti nel Fidelio, in una produzione che vede Cyril Teste alla messa in scena dell’unica opera di Beethoven. Come era già avvenuto nel suo precedente spettacolo qui alla Salle Favart, l’Hamlet di Thomas, l’artista di Carpentras, che è passato dalle arti visive alla regia lirica, fa dell’aspetto visuale l’elemento centrale della sua lettura con un operatore di steady cam in scena che tallona i personaggi rubando loro dettagli facciali espressivi che vengono proiettati ingigantiti sugli schermi. Cosa già vista molte volte e che qui ha un’invadenza ancora maggiore del solito che la ripresa televisiva mitiga, ma che dal vivo doveva essere ancora più fastidiosa. Il dominio delle immagini è totale: quando Leonore minaccia Don Pizzarro, non lo fa con un revolver, bensì con una macchina da ripresa!

Le scene di Valérie Grall e i costumi di Marie L. Rocca sono coerenti con la visione del regista che dà un taglio contemporaneo alla vicenda pur con una drammaturgia che rimane fedele alla vicenda: invece di carceri tenebrose dai muri grondanti umidità, qui abbiamo un ambiente asettico con lucide sbarre d’acciaio, tute arancioni per i prigionieri e la morte di Florestan è prevista con un’iniezione letale. Accurato è l’uso delle masse corali così come il movimento dei personaggi, ma poco plausibili sono i bambini che entrano incarcere durante il coro dei detenuti, più accettabile la riunione delle famiglie alla fine. Le regia non incappa in errori grossolani, ma neanche si evidenzia per particolare originalità: già altrove il grido di libertà di Florestan è stato considerato buono per qualunque epoca.

Alla testa della sua orchestra Pygmalion, dal suono piuttosto asciutto, Raphaël Pichon dirige un Beethoven settecentesco, senza fremiti romantici, e con un baldanzoso ritmo da Singspiel, ma tiene conto del tipo di voci in scena: i due protagonisti infatti sono cantanti che hanno sempre frequentato ruoli più lirici che drammatici. È il caso dell’australiana Siobhan Stagg, soprano lirico di coloratura, apprezzata Pamina nel Flauto magico di McVicar a Londra, che qui delinea una Leonore non di grande volume sonoro e con in fondo una certa freddezza che non rende particolarmente intenso il suo rapporto col marito Florestan, un Michael Spyres sorprendente per doti drammatiche. Bellissimo il suo spettacolare «Gott!» in crescendo che nasce da un silenzio angoscioso fino a toccare un insostenibile livello di tragicità, pur sempre composta, seguito da un silenzio che agghiaccia il sangue. La bellezza della linea di canto, la luminosità degli acuti, l’intelligenza dell’interprete si fanno ammirare in ogni momento, anche quando ci si aspetterebbe una voce ancora più voluminosa come nel finale della stessa scena con quell’affannoso rincorrersi e accavallarsi delle frasi con cui il pover’uomo ha la visione della sposa che lo salverà anche se solo per accompagnarlo in paradiso. La sua è un’interpretazione che ha preso il cuore e si è impressa nella memoria.

La Marzelline di Mari Eriksmoen e lo Jaquino di Linard Vrielink sono entrambi lodevoli mentre come Rocco troviamo un Albert Dohmen pienamente autorevole. Giustamente perfido ma vocalmente non così minaccioso il Don Pizarro di Gábor Bretz, un’oasi di affabilità il Don Fernando di Christian Immler. Impeccabile il coro Pygmalion.

   

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Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

★★★☆☆

Vienna, Theater an der Wien, 16 marzo 2020

(registrazione video)

Un astratto anelito alla libertà nel Fidelio/Leonore di Vienna

Il 2020 è il 250° anno della nascita di Ludwig van Beethoven e molti sono stati gli interventi sulla stampa specializzata. Uno è quello su Amadeus in cui Paolo Gallarati ha cercato di rispondere al perché il compositore abbia scritto una sola opera: «Che cosa aveva quel libretto per rimanere l’unico adatto a suscitare in Beethoven il necessario entusiasmo creativo?». La risposta sta nello sfondo ideale del testo di Treitschke che entusiasma il compositore, uno spessore difficile da reperire in altri libretti presi in considerazione. «Fede, speranza, carità vi si integrano spronando [Leonora] all’azione attivata dalla brutalità di Pizzarro. Mai nessun operista – neppure Gluck in Alceste – aveva osato conferire alla protagonista un tale spessore di contenuti. […] Anche la figura di Florestano, combattente per la giustizia e difensore della verità, è densa di implicazioni etiche. […] Giustizia e fortezza in Florestano sono guidate evidentemente della prudenza che, nel senso teologico della virtù capace di illuminare l’intelletto a riconoscere il giusto e il bene, è condizione necessaria della sua stessa esistenza. […] Nella coppia protagonista del Fidelio [è dunque presente] il quadro completo delle virtù cristiane: quelle teologali in Leonora e quelle cardinali nell’eroe ingiustamente perseguitato. […] Fidelio non è tanto una celebrazione della libertà. È piuttosto un’apoteosi della giustizia, resa possibile dall’amore, nutrito a sua volta di fede e di speranza: la libertà ne è una conseguenza necessaria, ma non viene mai tirata in ballo, se non come possibilità nell’aria di Florestano e rimpianto dei prigionieri durante il coro che apre il Finale I».

Ed è con queste considerazioni che assistiamo al Fidelio del Theater an der Wien messo in scena nell’ambito del Beethoven-Festival 2020, anno sfortunato per le celebrazioni del 250° della nascita del compositore. La pandemia costringe a registrare la performance a teatro vuoto e la ripresa video di Felix Breisach viene fatta oggetto di un DVD. 

Un anelito assoluto alla libertà sembra essere la lettura che ne dà il regista Christoph Waltz, attore austriaco due volte premio Oscar ora alla sua seconda regia lirica. Depurata di ogni elemento che ricordi l’epoca e il luogo – i costumi di Judith Holste suggeriscono una moderna una società militarizzata – la vicenda di questa pièce à sauvetage si svolge lungo una scenografica monumentale scala, disegnata dallo studio di architettura Barkow Leibinger, che sale a spirale verso un’apertura in alto impossibile da raggiungere, un mondo da cui non si può fuggire. Dal punto di vista visivo l’assenza di colori è totale, sono presenti solo varie sfumature di grigio-verde e grigio-azzurro. Sembra così di fare un salto nel tempo, alle scenografie minimaliste di Wieland Wagner nella Bayreuth degli anni ’50-’60, ma l’astrattezza e simbolicità dell’ambientazione contrasta con il realismo della recitazione dei cantanti-attori nei lunghi dialoghi parlati.

La rappresentazione si apre con il corpo di Florestan che rotola lungo la scala, una scala su cui i personaggi salgono e scendono infaticabilmente generando una certa monotonia. In genere entrano in scena dall’alto, unica eccezione i prigionieri che arrivano dal basso, forse con troppa vivacità, per accoccolarsi sui gradini al sole, se ci fosse il sole, perché l’illuminazione è grigia e uniforme. Più suggestiva l’illuminazione nel secondo atto quando Henry Braham lascia in ombra il corpo di Florestan e la scala illuminata da sotto diventa la volta del sotterraneo. La luce abbagliante del sole si manifesta solo nel finale sul coro giubilante.

Un mese dopo la Staatsoper che aveva messo in scena la Leonore della prima versione, Manfred Honeck sceglie qui la seconda versione dell’opera, quella del 1806 in due atti e col libretto ridotto da Stephan von Breuning – è per questo che viene scelto il titolo Fidelio (che appartiene alla terza versione) invece dell’originale Leonore. Le differenze principali rispetto alla versione del 1805 sono le seguenti: nuova è l’ouverture, la “Leonore 3”; il trio Rocco/Jaquino/Marzelline viene spostato prima del coro dei prigionieri; l’aria dell’oro viene tagliata e il terzetto che segue è accorciato; una marcia introduce l’aria di Pizzarro (che ora non apre più il secondo atto essendo l’opera suddivisa in due) e dopo il duetto Rocco/Pizzarro, il successivo Marzelline/Leonore viene posto dopo la grande scena di Leonore (accorciata); il finale è ridotto; la scena di Florestan apre adesso l’atto II, è diversa la seconda parte della sua aria e pure il duetto con Leonore. Poi l’opera prosegue come nella versione precedente sino al finale che viene ulteriormente ridotto. Per uno schema che mette a confronto le tre versioni si veda qui la nota 2.

Corretta la concertazione di Honeck alla guida delI’orchestra dei Wiener Philharmoniker, con senso della tensione e frasi vibranti. L’Arnold Schönberg Chor si conferma ancora una volta tra i migliori in assoluto, basti la sensibilità con cui dipana il coro dei prigionieri del primo atto, tutto mezze voci, un’intensità espressiva non comune e ottimi solisti. Peccato che la regia non sappia come farlo muovere

Entrambi americani sono i due interpreti principali: Nicole Chevalier è un’intrepida Leonore la cui parte vocale è ben più impegnativa in questa che nella successiva versione. Pur con qualche acuto tirato, il soprano dimostra una buona presa in carica del personaggio, uno dei più drammatici della sua carriera fino a questo momento. Al contrario Florestan in questa versione ha una parte meno spinta e il tenore Eric Cutler può quindi cesellare meglio i toni, cosa che gli è particolarmente congeniale. Gábor Bretz è un Don Pizarro decisamente rozzo, mentre Christof Fischesser delinea un realistico Rocco. La dizione non è la cosa migliore di Mélissa Petit, vivace Marzelline. Corretto lo Jaquino di Benjamin Hulett, modesto il Don Fernando diKároly Szemerédy.

Sì, il titolo è fuorviante. Questa versione è molto diversa dal Fidelio che comunemente vediamo, è proprio un’altra cosa. Dobbiamo farcene una ragione: è come se di Beethoven avessimo due opere, non una.

Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2014

(live streaming)

Beethoven inaugura solennemente la stagione milanese

Più che una prima, un’ultima: quella di Stéphane Lissner è l’ultima inaugurazione come sovrintendente del teatro scaligero e lascia il segno con un Sant’Ambrogio né verdiano né pucciniano, una produzione dell’unicum beethoveniano che viene salutata con entusiasmo da un pubblico un po’ meno mondano del solito.

Successo personale per Daniel Barenboim il cui Fidelio è un’intensa meditazione sul tema della libertà e dei valori illuministici che rifulgono nel grande finale che anticipa l’”Inno alla gioia” della Nona Sinfonia – oltre che dell’amore coniugale, fatto da uno come Beethoven che non si volle mai sposare…

La lettura del direttore insiste sui colori cupi della partitura, con tempi gloriosamente lenti accesi a tratti da scoppi altamente drammatici. C’è chi fa il nome di Klemperer per citare un modello del passato. Barenboim sceglie la “Leonora 2” come introduzione e anche questo la dice lunga sulla sua scelta: una lettura sinfonica che trascura la leggerezza del Singspiel, con i finali d’atto concertati in modo solenne.

Nella parte del titolo Anja Kampe compensa eventuali problemi vocali con un’espressività e un temperamento che fanno della sua Leonora una delle più intense degli ultimi tempi, e in fatti è uno dei ruoli più frequentati dalla cantante. La bonarietà di Rocco trova in Kwanchul Youn prova convicente e la sua dolcezza di emissione ben contrasta con la rabbiosa espressione del Don Pizarro di Falk Struckmann che sfrutta l’affaticamento della voce per dare risalto alla cattiveria del personaggio. Cammeo di gran lusso quello di Peter Mattei, perfetto Don Fernando. Efficace è anche lo Jacquino di Florian Hoffman, mentre un po’ leggerina è la Marzelline di Mojca Erdmann. Rimane il Florestan di Klaus Florian Vogt dalla buona linea di canto ma dal timbro sbiancato che rende l’eroe incatenato un bambino fastidioso all’ascolto. Ottima la prova del coro spesso inquadrato dall’alto nella ripresa televisiva di Patrizia Carmine, ma si preferirebbe che molti dei coristi non stessero con gli occhi incollati sui monitor dei sottotitoli, come si vede chiaramente nei primi piani.

Il bello spettacolo di Deborah Warner è in perfetto accordo con la scelta stilistica di Barenboim. La scenografia di Chloe Obolensky ci mostra una specie di capannone industriale dismesso, fra scale arrugginite e vecchi bidoni, efficace la scena della discesa nella prigione di Florestan dove lo spettatore sente i brividi del freddo e dell’oppressione del buio preparato da un lentissimo calo delle luci in sala durante il preludio. L’ambientazione è giustamente contemporanea – la repressione dei prigionieri politici è sempre attuale – e agli imbecilli che si sono scandalizzati perché Marzelline appare col ferro da stiro consigliamo di andarsi a leggere la didascalia della scena prima: «Marzelline stira la biancheria davanti alla sua porta, accanto a lei c’è un braciere dove riscalda il ferro». Per una volta che il regista è fedele alle didascalie! Un altro merito della Warner è l’ammirevole e inappuntabile recitazione e la perfetta gestione delle masse con il coup de théâtre dell’irruzione finale che esalta visivamente l’aspetto idealistico della pagina beethoveniana con una luce abbagliante e un allegro sventolio di sciarpe rosse.

Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

Birmingham, Aston Hall, 11 marzo 2002

(video streaming)

La Community Opera di Vick nell’unicum beethoveniano

Graham Vick ci ha abituato ad allestimenti in luoghi che non siamo quelli canonici dei teatri d’opera: la sala partenze di un aeroporto (The Ice Break, Birmingham 2015), un teatro di corte barocco (Stiffelio, Parma 2017), un palazzetto dello sport (Paria, Poznań 2019). Ma già nel 2002 aveva messo in scena Fidelio sotto una tenda di circo per la Birmingham Opera Company da lui fondata e di cui è ora il direttore artistico e l’anno prima aveva messo in scena il Wozzeck in un magazzino.

Il conflitto tra la libertà personale e la tirannia del potere corrotto è trasposto ai nostri tempi da Vick che immerge il pubblico nella rappresentazione grazie al progetto scenico di Paul Brown. Il presentatore televisivo che sta raccontando la trama è interrotto da manifestanti con dei cartelli mentre Rocco ordina agli spettatori che aspettano fuori in piedi di prendere posto all’interno della tenda dove si sta svolgendo una triste festa di matrimonio, quello di Florestan e Leonore, appunto, di cui vediamo le immagini nei monitor sparsi nella sala. Il tavolo del pranzo delle nozze si scopre essere una fila di lavatrici…

Su altri video si vede il direttore dirigere l’orchestra da qualche parte. I cantanti si esprimono in inglese nella traduzione di David Pountney, così che i testi recitati e cantati sono ben comprensibili per il pubblico. Una parete nella tenda scende e vediamo l’orchestra mentre Leonore si veste da uomo. Un’altra parete andrà giù per far entrare Rocco e Jaquino che si uniscono a Marzelline e Fidelio per intonare il sublime quartetto.

 

Il pubblico è attirato da un’altra parte dove viene accolto, come allo Speakers’ Corner di Hyde Park, da individui che parlano su piedistalli improvvisati sul sottofondo della marcia che introduce Don Pizarro. Poliziotti in tenuta da sommossa spingono la folla verso un’altra parte ancora per incontrare il governatore. Quello dei prigionieri è intonato da un coro dietro l’orchestra, tra la gente ci sono solo figuranti: duecento persone scelte tra la gente della città. Vick ama mescolare professionisti con dilettanti, questa è la sua visione del teatro: avvicinare il maggior pubblico possibile, e lui ci riesce provocandolo a interagire con il dramma che in questo modo si allarga alla “platea”. Al pubblico è richiesto un impegno molto maggiore che in un normale teatro d’opera e qui a Birmingham sotto la tenda della Aston Hall gli spettatori seguono realmente il viaggio di Leonore alla ricerca del suo uomo, «un viaggio mistico nel cuore delle tenebre, nelle prigioni che ci costruiamo da noi stessi», dice il regista, e i figuranti illustrano queste “prigioni” con grande intensità: chi è legato, chi è senza la vista, chi è attanagliato da un’angoscia. Tornato a casa ognuno di loro si ricorderà certamente di questa esperienza. Così come il pubblico, a cui durante l’intervallo vengono dati dei cappucci neri. Nella seconda parte dello spettacolo a un ordine dall’alto («Dont look») devono infilarsi il cappuccio in testa e per un po’ piombare nell’oscurità per vivere qualla di Florestan, «God, such darkness here!». Quando si levano il cappuccio sono nei gelidi e bui sotterranei con Leonore di cui condividono l’angoscia della ricerca e la trepidazione della scoperta. Ma l’incontro dei due coniugi fa scoprire altre situazioni di schiavitù e durante la ripresa dell’ouverture Leonore 2 una folla di miseri avanza verso l’orchestra: il dramma non è più solo personale, ma la liberazione dei singoli non è la liberazione dei molti, purtroppo. La gioia finale non è condivisa da tutti. Questo è il pessimistico messaggio che ci lascia il regista.

In uno spettacolo come questo quasi non conta l’eccellenza degli interpreti, invece qui ci sono degli ottimi cantanti, soprattutto nelle parti maschili: il realistico Rocco di Jonathan Best (il migliore), il Jaquino di John Apperton, il maestoso Don Pizarro di Keel Watson, il lirico Florestan di Ronald Samm, il Don Fernando di Michael Druiett. Voce un po’ leggera quella della Leonore di Jane Leslie MacKenzie, più adatta al personaggio la Marzelline di Donna Bateman. Non si sa se sia un caso o se sia voluto, gli interpreti di Florestan e Pizarro (l’oppresso e l’oppressore) sono molto simili, due corpulenti cantanti di colore.

La versione orchestrale adattata per l’occasione a 16 strumentisti (un solo quartetto d’archi!) è di Julian Grant ed è resa molto efficacemente da William Lacey che neanche per un momento fa rimpiangere la versione originale, né per peso orchestrale né per incisività.

Leonore

Ludwig van Beethoven, Leonore

★☆☆☆☆

Vienna, Staatsoper, 1 febbraio 2020

(video streaming)

Fatta così, certo che è meglio Fidelio

Titolo non infrequente nei cartelloni sinfonici, la versione originale dell’unica opera di Beethoven prende questa volta la strada delle scene alla Staatsoper di Vienna. La messa in scena di Amélie Niermeyer mette in rilievo tutte le fragilità della versione 1805 e se con le recenti esecuzioni di René Jacobs si poteva avere qualche dubbio, questa edizione li fuga tutti: dal punto di vista drammaturgico il Fidelio è indubbiamente superiore alla Leonore.

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L’assurdità della regia non sta certo nell’ambientazione in un carcere moderno, ma il fatto che la lettura della Niermeyer punti soprattutto al rapporto tra Marzelline e Leonore, quest’ultima sempre più turbata dalla finzione con cui illude la fanciulla («Quanto mi costa questo mio inganno»), verso la quale sembra poi inopinatamente attratta, tanto da far perdere il significato dell’opera stessa: «die treue Gattenliebe», il salvataggio del marito per amore. Qui quello che sembra contare maggiormente è la complicità fra le due donne, con Marzelline che mette il velo da sposa al “ragazzo” mentre, come se non bastasse il fatto di travestirsi da uomo, lo sdoppiamento di Leonore in un alter-ego annulla il senso di solitudine della donna, che qui ha la “confidente” a cui aggrapparsi nei momenti decisivi.

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Il suo doppio compare alla fine dell’ouverture (la “Leonore II”) durante la quale abbiamo visto Leonore e Florestan rifugiarsi in una camera d’albergo (?) per scialbi giochi erotici fino a che lui entra in bagno e scompare lasciando una camicia insanguinata (!) ed è a questo punto che appare l’alter-ego della donna. La scena la rivedremo durante il risveglio di Florestan (sembra che la regista ci tenga davvero…). Nel testo, riscritto da Moritz Rinke, i nuovi recitativi non si preoccupano troppo della continuità con i numeri musicali, ma sviluppano invece i banali dialoghi fra le due figure, con Leonore che si chiede se sia giusto quello che fa, fino alla fine, quando la donna è sventrata da Pizarro e la copia se la spassa col marito…

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Sono tanti i momenti insensati di questa brutta regia – c’è anche un Rocco in paillette, come il coro, nell’interminabile e ributtante finale –, ma non è più convincente la componente musicale con la plumbea direzione di Tomáš Netopil e un cast vocale di estrema mediocrità, dalla Leonore senza personalità di Jennifer Davis, in difficoltà nelle agilità e con notevoli problemi di intonazione, alla acida Marzelline di Chen Reiss, dal grezzissimo Pizarro di Thomas Johannes Mayer, allo sgradevole Jacquino di Jörg Schneider. Fortunatamente la parte di Florestan è qui molto meno impegnativa che in Fidelio, per cui Benjamin Bruns se la cava senza infamia nonostante i tempi letargici scelti da Netopil, in compenso lui si muove troppo, saltellando qua e là sul palcoscenico. Falk Struckmann è un esausto Rocco e Samuel Hasselhorn un fatuo Don Fernando. Anche qui lasciano perplessi alcune scelte, come quella di iniziare parlato, «O Hoffnung, Komm’», il grande monologo di Leonore.

Il compassato pubblico dell’opera di Vienna ha salutato i realizzatori dello spettacolo con una salva imponente di buu. Come omaggio a Beethoven nei 250 anni dalla nascita (1770-2020) era difficile fare peggio.

Fidelio

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Ludwig van Beethoven, Fidelio

★★☆☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 14 Novembre 2019

(live streaming)

La banale terribilità del male

Marzelline strimpella Für Elise su un vecchio pianoforte verticale e Rocco batte a macchina. Scene di ordinaria banalità borghese con mobili anni ’50 e tappezzeria a fiorami. Che siamo nell’alloggio di una guardia carceraria ce lo fanno capire i fasci di luce dei fari che talora tagliano la scena e i comandi all’altoparlante, ma si potrebbe essere sul set di un film di Hitchcock. Oltre la vetrata un bosco verdeggia mentre con la sigaretta in bocca Marzelline accenna a passi di twist quando arriva Fidelio che chiunque capirebbe trattarsi di una donna, lei no. Durante il quartetto compare Bamby che osserva i quattro seduti a un tavolo. Nel secondo atto fuori della vetrata ci sarà invece un lupo.

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Intanto, lentissimamente, la parete tappezzata si è aperta e si vedono i loculi dei prigionieri stipati come in un armadio a muro. È evidente che abbiano subito delle torture, come il corpo nudo coperto di sangue di un giovane incappucciato e incatenato. Nel mentre Rocco simula il matrimonio dei due giovani e immortala la scena con un apparecchio fotografico. Talora vengono proiettati testi di Müller e Büchner sulla violenza del potere. Durante il terribile duetto tra Rocco e Pizzarro, Marzelline si prova il velo da sposa, la sua ossessione. Dopo l’aria di Fidelio/Leonore «Komm Hoffnung», cantata davanti a un sipario nero, rientriamo nella casa di Rocco invasa dai prigionieri che dormono per terra e che si risvegliano per cantare «O welche Lust» all’interno del soggiorno. Il secondo atto si apre sullo stesso soggiorno e la drammatica musica che accompagna il risveglio di Florestan fa da sottofondo agli assalti di Jaquino e poi di Pizzarro nei confronti di Marzelline. Il buio («Gott, welch Dunkel hier») e le catene non impediscono a Florestan di battere a macchina pagine che ingombrano il pavimento, però la luce è quasi accecante (“la tortura della luce sempre accesa”). Ciononostante Rocco e Florestan si lamentano del buio della cella. Pizzaro è intanto rientrato in scena tirandosi su la zip dei pantaloni e si versa mestamente un bicchiere di vino. Si sa, omne animal post coitum triste… L’apoteosi finale è quanto mai tetra: Jaquino ubriaco è a un tavolo con gli altri protagonisti mentre un coro, che sembra formato da infermieri, intona tristemente il tema giubilante e si porta via Pizarro. Rocco soddisfatto si rimette alla macchina da scrivere.

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Il regista svizzero Georges Delnon non va per il sottile con la sua messinscena nel mettere in luce la perversione del potere, ma il tema era già presente nell’opera senza bisogno di sottolinearlo a questo modo e la sua lettura non aggiunge molto alla potenza della denuncia. La mancanza di regia attoriale e la schematicità delle psicologie alterate dei personaggi rendono lo spettacolo greve e monotono, non aiutato dalla scena fissa disegnata da Kaspar Zwimpfer o dalla ingenuità dei video.

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Non è molto meglio l’aspetto musicale, con una lettura disorganica di Asher Fisch che manca i momenti di lirismo o quelli esaltanti del finale e impone tempi esasperatamente lenti a un’orchestra imprecisa e disomogenea e a un coro non avvezzo a questo repertorio. Modesto il secondo cast in cui si notano più i difetti che i pregi. Magdalena Anna Hofmann è una Leonora dal timbro infelicissimo con acuti gridati o traballanti e agilità impacciate. Il Florestan di Daniel Frank parte con una bella bella messa di voce e uno squillo sicuro, ma presto evidenzia problemi di fiato. Rocco oltremodo monotono è quello di Petri Lindroos e petulante il tono della Marzelline di Anna Maria Sarra. Restano il sicuro mestiere di Lucio Gallo, un Pizzarro sadicamente definito nonostante i limiti vocali, e la personalità dello Jaquino di Sascha E. Kramer. Un po’ poco per l’unico capolavoro teatrale di Beethoven che viene messo in scena solo per la terza volta a Bologna. Lo spettacolo è già stato dato ad Amburgo come coproduzione con la Staatsoper della città anseatica.

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Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

★★★★☆

Salisburgo, Großes Festspielhaus , 13 agosto 2015

(video streaming)

Fidelio reloaded

Namenlose (indicibile) e unaussprechlich (inesprimibile) sono i termini più sovente utilizzati nel libretto del Fidelio, che si tratti di pena («o namenlose Pein!) o che si tratti di gioia e piacere («O namenlose Freude! unaussprechlich süßer Lust! unaussprechlich süßes Glück!). Solo la musica può dire quello che le parole non riescono a esprimere. Dell’altissimo messaggio di libertà e affermazione della nobiltà dello spirito che sopravvive e si rigenera dopo la sofferenza, nel testo purtroppo c’è poca traccia: i librettisti sono legati a un modello drammaturgico da opera comica che solo le note di Beethoven riescono a sublimare. I dialoghi parlati sono sempre stati, qui più che in ogni altro singspiel, un grosso problema per chi affronta la messa in scena del Fidelio.

Nell’agosto 2015 sull’enorme palcoscenico della Großes Festspielhaus Claus Guth risolve drasticamente il problema eliminandoli totalmente (tanto a Salisburgo tutti conoscono la vicenda!) e li sostituisce con fruscii, respiri, rumori metallici, sibili sinistri, installazioni sonore da film di fantascienza. Il monolito nero, che giganteggia nella monumentale sala vuota («il salone dell’inconscio») dagli altissimi muri di pannelli bianchi e dal pavimento in legno elegantemente intarsiato, non può non far pensare a 2001 A Space Odissey di Kubrick. Ma c’è ancora un altro film di riferimento per il regista: Don Pizarro ha un suo alter ego con cappotto nero e occhiali scuri che è il sosia perfetto dell’Agente Smith di Matrix degli (allora) fratelli Wachowski.

La pièce à sauvetage diventa un dramma psicologico, un «mosaico delle solitudini in cui ognuno è prigioniero» dice il regista, e la libertà è quella dalle prigioni della mente che ci imponiamo noi stessi. Completamente diverso sembra invece il pensiero del direttore Franz Werner-Möst il quale, sempre in un’intervista, afferma che Beethoven non vuole penetrare nella mente dei suoi protagonisti né si preoccupa dei loro destini individuali, ma è interessato a un’idea universale di libertà e uguaglianza magistralmente espressa nella sua musica. Il pubblico di Salisburgo sembra condividere l’opinione del maestro concertatore che saluta con ovazioni fragorose, mentre verso il regista esprime sonori dissensi.

La messa in scena può lasciare perplessi sulle intenzioni, ma è di grande eleganza. La scenografia di Christian Schmidt utilizza pochi elementi: nel secondo atto il monolito si solleva per scoprire la buca destinata a Florestan e il pavimento diventa pericolosamente inclinato; nella scena finale un tappeto rosso e un enorme lampadario di cristallo vorrebbero suggerire la festosità dell’azione, contraddetta però dal coro fuoriscena che ha un che di minaccioso per il prigioneiro salvato che infatti si tappa le orecchie e anche prima sfuggiva alle carezze della moglie con movimenti scomposti. Le luci laterali che proiettano ombre sui muri sottolineano i conflitti interpersonali dei personaggi in scena. Come Don Pizzarro anche Fidelio ha un alter ego: una Leonora con gli stessi abiti ma con un’acconciatura più femminile, la quale si esprime con i gesti dei non udenti (un’allusione alla sordità del compositore?) con un effetto piuttosto distraente. Per quanto lo spettacolo sia visivamente eccezionale e intrigante nella concezione, non è esattamente il dramma di Beethoven.

Successo pieno per Franz Werner-Möst: la sua lettura nobilita l’architettura musicale e l’esecuzione dell’ouverture “Leonora terza” prima della scena finale è pienamente convincente, realizzata con maestosità e slancio entusiasmante e salutata da un uragano di applausi.

Eccellente Adrianne Pieczonka una Leonora di presenza maestosa, la voce possente, gli acuti luminosi, ma è nel Florestan di Jonas Kaufmann che si concentra l’attenzione della serata, ruolo di elezione per il tenore tedesco che lo ha ripreso molte altre volte. Il suo «Gott!» in crescendo e nel buio rimane un momento indimenticabile. Poi la sua opulenza vocale dovrà fare i conti con i movimenti convulsi del corpo richiesti dalla regia.

Hans-Peter König come Rocco, Olga Bezsmertna (Marzelline), Norbert Ernst (Jaquino) e Tomasz Konieczny (Pizarro) completano l’eccellente cast.

Leonore

Ludwig van Beethoven, Leonore

Parigi, Philharmonie, 7 novembre 2017

(esecuzione in forma di concerto)

Il Beethoven biedermeier di René Jacobs

E se avesse ragione René Jacobs che considera Leonore, la versione originaria, migliore e più riuscita del Fidelio che si è imposto nei teatri? La sua proposta in forma di concerto alla Philharmonie di Parigi della prima versione dell’opera beethoveniana è molto convincente a questo proposito.

Léonore ou L’amour conjugal (1794) di Jean-Nicolas Bouilly era stata già messa in musica con successo da Ferdinando Paër nel 1804 nel testo in italiano (Leonora o L’amore coniugale), ma prima ancora nel 1798 era stato Pierre Gaveux a scrivere dei numeri musicali per la pièce di Bouilly mentre Mayr nel 1806 scriverà il suo L’amor coniugale.

Quando Beethoven si entusiasma al soggetto è il 1801, ma ne inizia la composizione solo nel 1803. È all’apice della sua carriera di compositore, nel pieno del suo “periodo eroico”: la Terza Sinfonia “Eroica”, le sonate per pianoforte “Waldstein” e “Appassionata”, il Triplo Concerto sono solo alcuni titoli dei capolavori di questi anni. È quindi un musicista maturo e consapevole dei suoi mezzi espressivi quello che affronta il suo primo e unico lavoro teatrale – resteranno solo progetti ipotetici quelli di un Macbeth e di un Faust.

Il singspiel in tre atti su libretto di Joseph Sonnleithner Leonore oder Die eheliche Liebe op. 72 (traduzione letterale del testo di Bouilly) che va in scena al Theater an der Wien il 20 novembre 1805 è dunque un lavoro che ha avuto una gestazione di due anni ed è un esperimento perfettamente realizzato dal punto di vista drammatico e musicale. Purtroppo venne presentato nel momento sbagliato (i suoi amici e mecenati avevano lasciato la capitale in seguito all’invasione napoleonica e in platea c’erano solo soldati francesi), con un soggetto scabroso per l’epoca (la lotta contro la tirannia e l’affermazione della libertà e della giustizia) e per di più con una compagnia di canto del tutto inadeguata. Le critiche colpirono talmente il compositore, che pure credeva nella sua opera, che Beethoven si mise subito al lavoro per una revisione sia del testo, affidata all’amico Stephan von Breuning, sia della musica, impietosamente tagliata e ridotta a due atti. Come sappiamo, neanche questa revisione presentata nel 1806 avrà successo e otto anni dopo Beethoven ritornerà una terza volta su questo lavoro, ulteriormente rimaneggiato nel testo da Georg Friedrich Treitschke e con una musica profondamente modificata per più di metà della partitura, con tagli drastici e aggiunte tali da farne un’opera quasi completamente diversa, anche nel titolo questa volta: Fidelio. Analoghe vicende subiranno le diverse ouverture dell’opera.

Dopo la “Leonore II” (delle quattro esistenti la più efficace sul piano drammaturgico), l’aria di Marzelline e il suo duetto con Jaquino (scambiati di ordine in Fidelio), la versione del 1805 prevede un delizioso terzetto con i precedenti e Rocco («Ein Mann ist bald genommen») espunto nel 1814. In questo primo atto si ha dunque una progressione degli effettivi vocali che passano dall’aria solistica, al duo, al terzetto, al quartetto. La cosa si ripeterà anche negli altri atti arrivando nel finale al coro. Il secondo atto inizia con una marcia che prepara l’ingresso di Don Pizarro, seguiranno poi un duetto di Leonore con Marzelline («Um in der Ehe froh zu leben», con violino e violoncello obbligati, tagliato in Fidelio) che precede la grande aria della protagonista titolare, qui molto più lunga e vocalmente acrobatica, accompagnata da un concertino formato da tre corni e un fagotto. L’entrata di Florestan nel terzo atto invece è qui molto meno teatrale e manca della perorazione finale in fa maggiore. Diverso è poi l’insieme delle scene finali: Pizarro esce durante il quartetto seguito da Rocco con la pistola presa a Leonora, i due coniugi restano soli convinti che sia suonata la loro ultima ora e la «namenlose Freude» (la gioia senza nome) che cantano è quella di poter morire assieme abbracciati l’uno all’altra. Ma in quel momento si sente da fuori un “coro della vendetta” e tutti pensano siano gli sgherri di Don Pizarro che stanno venendo a porre una tragica fine alla tormentata esistenza dei prigionieri. Invece, con un abile gioco di suspense, la porta si apre e nell’oscurità entra lentamente il coro: solo allora si scopre trattarsi della voce del popolo, gli eredi di quelli che entrarono nella Bastiglia, che arrivano a far giustizia del tiranno Don Pizarro.

In Leonore viene più sviluppata la dimensione psicologica dei personaggi, mentre in Fidelio guadagna strada il dramma di idee e la simbologia dei caratteri in un discorso musicale molto più compresso, con tutte le scene ampiamente accorciate, essendo l’aria di Florestano unica eccezione alla regola. Qui ognuno dei tre atti è centrato su un protagonista: il primo è un singspiel in cui domina Marzelline; il secondo, con la figura di Leonore, è più melodrammatico e ricorda nello stile Cherubini; Florestan è il personaggio emblematico del terzo atto, quello tragico, i cui temi sono già stati preannunciati nell’ouverture.

L’ipotesi di René Jacobs è convincente, si diceva, poiché riesce a dare alla partitura un suono tale da far sembrare Leonore da un lato un’opera postuma di Mozart, dall’altra una precorritrice dei drammi wagneriani. Con a disposizione una delle migliori orchestre barocche – si fa fatica a credere che gli strumenti della Freiburger Barockorchester siano d’epoca o comunque ricostruiti per questa prassi esecutiva vista la bellezza dei suoni che ne scaturiscono e la facilità con cui sembrano essere suonati – il tono biedermeier raggiunge in certi punti una drammaticità inusuale con colori e tempi perfettamente risonanti nella spettacolare sala della Philharmonie. La particolare disposizione dell’orchestra – con i legni tutti raggruppati a destra – permette di distinguere nettamente i singoli strumenti apprezzando di ognuno il bellissimo timbro e sono molti i momenti in cui il particolare colore orchestrale è come se si svelasse per la prima volta all’ascolto.

L’esecuzione in forma di concerto di un’opera in una lingua straniera ha indotto Jabobs a riscrivere i dialoghi accorciandoli e modernizzandoli. Il maestro si è preso poi altre libertà quando all’inizio fa canticchiare a Marzelline un lied dello stesso Beethoven (Zärtliche Liebe) o quando la fa intervenire assieme a Rocco sull’elogio del denaro («Hat man nicht Gold beineben»). Coerente alla sua lettura, e allo spirito di Leonore rispetto al successivo Fidelio, è la scelta dei cantanti. In questa versione la parte di Leonore, essendo pur sempre drammatica, ha momenti di impervia vocalità che il soprano Marlis Peterson riesce a gestire molto bene. Bisogna però dimenticare le voci wagneriane che si sono cimentate in questa parte: la sua è più esile e simile a quella di Marzelline che qui invece è piena, magnificamente timbrata e agile in Robin Johannsen, ben lontana dalle soubrettine ascoltate spesso. Essendo privo dei caratteri esaltati che avrà nella versione finale, Florestan qui è un tenore mozartiano che trova in Maximilian Schmitt un interprete elegante anche se un po’ incolore. Pure il Pizarro di Johannes Weisser manca dei toni drammatici che ci si dovrebbe aspettare da uno dei cattivi più cattivi del teatro d’opera mentre si apprezza la robustezza e rotondità di timbro del Rocco di Dimitry Ivaschenko.

Eccellentissimo l’apporto del coro della Zürcher Sing-Akademie, preciso ed espressivo, che assieme ai solisti ha avuto una presenza determinante in questa esecuzione semi-scenica che ha efficacemente sfruttato gli spazi dell’ampio palcoscenico dell’auditorium parigino.

Forse non è che Leonore sia migliore di Fidelio: è diversa e di certo merita un posto nelle programmazioni dei teatri lirici del mondo come l’“altra opera” del maestro di Bonn.

Fidelio

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★★★☆☆

L’unicum operistico di Beethoven

In forma di singspiel su libretto di Joseph Sonnleithner, Fidelio o l’amore coniugale è tratto da quel Léonore ou l’amour conjugal (1798) di Jean-Nicolas Bouilly basato sulla vicenda vera di una donna che nella Spagna del XVI secolo si era travestita da uomo per salvare il marito dalla prigione. La stessa storia era stata la base per i libretti delle opere di Gaveaux (Léonore, 1798), Paer (Leonora, 1804) e Mayr (L’amore coniugale, 1805)

Viene rappresentata la prima volta il 20 novembre 1805 in tre atti col titolo Fidelio oder Die eheliche Liebe e l’ouverture conosciuta come “Leonore 2” (op. 72) di circa 14 minuti (1) dinanzi a un pubblico speciale: gli ufficiali napoleonici che in quei giorni occupano Vienna! Non c’è da stupirsi se non è un gran successo.

Poco dopo Beethoven ne appronta una versione in due atti, su libretto ridotto da Stephan von Breuning, che debutta l’anno dopo col titolo Leonore oder Die eheliche Liebe, preceduta dall’ouverture “Leonore 3” in Do maggiore (op. 72a), di circa 16 minuti.

Col titolo Fidelio l’opera è ripresentata nel 1814 in una terza versione riveduta sia nel testo da Georg Friedrich Treitschke sia nella musica e preceduta dalla pimpante ouverture in Mi maggiore, meno di sette minuti, con cui viene comunemente eseguita oggi. (2)

Atto primo. In una prigione Marcellina, la figlia del carceriere Rocco, è corteggiata da Jaquino, che non vuol capacitarsi dell’improvviso mutamento dei sentimenti della fanciulla. Marcellina infatti non lo prende più in considerazione da quando ha cominciato a lavorare nel carcere Fidelio di cui si è innamorata. Questi è in realtà Leonora, moglie di Florestano, che per ritrovare il marito misteriosamente scomparso va a cercarlo nel carcere governato dal suo peggior nemico, Pizarro, e per penetrarvi ha dovuto travestirsi e conquistarsi la fiducia del carceriere Rocco. Entrano Rocco e Leonora/Fidelio, il cui zelo viene inteso dal padre di Marcellina come un segno d’amore per la figlia. Rocco raccomanda a Marcellina e Fidelio, che considera promessi sposi, di badare anche al denaro, sempre necessario, e accoglie con fiducia e favore la proposta di Fidelio di aiutarlo nei lavori più pesanti del carcere, anche nei sotterranei (dove Leonora ha il sospetto che possa trovarsi il marito Florestano). Al suono di una marcia entra Pizarro, che riceve una lettera in cui viene avvertito dell’imminenza di una ispezione. Pizarro decide di uccidere il prigioniero nascosto nei sotterranei e pregustando la vendetta chiede a Rocco di fargli da sicario e, allo sdegnato rifiuto del vecchio carceriere, gli ordina di preparare la tomba per il misterioso prigioniero del sotterraneo, che egli stesso ucciderà. Leonora, che ha ascoltato di nascosto il loro dialogo, inorridisce per i propositi di Pizarro; ma si sente rasserenata dalla speranza. Convince poi Rocco a concedere ai prigionieri di uscire dal carcere i prigionieri, felici di respirare finalmente l’aria libera. Pizarro è furioso per l’iniziativa di Rocco, e fa di nuovo chiudere i prigionieri, che si congedano mestamente dalla luce del sole.
Atto secondo. Florestano è incatenato in un oscuro carcere sotterraneo, ma è serenamente consapevole di aver fatto il proprio dovere e in una visione Leonora come un angelo lo conduce alla libertà. Sopraggiungono Rocco e Leonora/Fidelio per preparare la tomba come ha ordinato Pizarro. Florestano si riprende, interroga Rocco e viene riconosciuto da Fidelio, che ancora non può rivelarsi; ma ottiene di dargli il conforto di un po’ di pane e di vino. Florestano può solo promettere una ricompensa in un mondo migliore. Giunge Pizarro per compiere l’assassinio, e si rivela a Florestano prima di colpirlo. Ma Leonora si interpone e a sua volta si fa riconoscere. Superata la sorpresa, Pizarro vorrebbe uccidere lei insieme con Florestano; ma è fermato da Leonora che lo minaccia con una pistola. Si odono intanto gli squilli di tromba che annunciano l’arrivo del ministro. Pizarro, seguito da Rocco, deve andare a riceverlo; erompe la gioia di Leonora e Florestano, Nel finale, nel cortile del carcere, Don Fernando, il ministro, annuncia un messaggio di libertà e fratellanza. Rocco richiama la sua attenzione sulla sorte di Florestano, che Fernando riconosce con stupore. Pizarro è arrestato e a Leonora stessa tocca il compito di togliere le catene al marito. Coro e solisti partecipano alla gioiosa celebrazione finale.

Caratteristica della partitura di Fidelio è la potente progressione che dall’inizio conduce alla fine: «Comincia come un’amabile opera comica, si trasforma in seguito in un dramma commovente, si sviluppa fino alla suprema tensione tragica e si risolve infine nel commosso splendore di un magnifico inno di esaltazione umanitaria e religiosa.» (Maurice Kufferath)

Questa edizione dell’Opera di Zurigo del 2004 è diretta con forte senso del dramma da un Harnoncourt che si dimostra in gran forma fin dalla applauditissima ouverture. Dieci anni prima aveva già fatto scalpore la sua direzione dell’opera in forma di concerto. In questa edizione sono opportunamente molto accorciati i dialoghi parlati. L’orchestra è straordinaria nel lancinante preludio alla scena di Florestan nel carcere (che meraviglia i fiati!) e radiosamente fulgida nel finale. Peccato solo che Harnoncourt non inserisca prima della scena conclusiva l’esecuzione della “Leonora terza”, prassi inaugurata da Mahler e seguita comunemente fino a qualche decennio fa, ma ora purtroppo in disuso. Quasi intollerabilmente brusco è infatti il passaggio dal duetto appassionato dei due protagonisti alla marcetta che porta alla conclusione della vicenda. L’esecuzione in questo momento dell’ouverture “Leonora terza”, la più bella e musicalmente sviluppata di tutte, ha proprio lo scopo di ricapitolare i fatti, inserire una cesura e preparare con maggior solennità il coro finale.

Il regista Jürgen Flimm privilegia la storia d’amore coniugale a scapito di eventuali critiche sociali o politiche messe in luce da altre produzioni. Qui tutto è incentrato sui due protagonisti i cui interpreti sono entrambi eccellenti vocalmente e credibili dal punto di vista drammatico. Soprattutto Jonas Kaufmann: il «Gott!» con cui esordisce nel secondo atto viene emesso con un pianissimo appena percettibile fino ad arrivare al fortissimo con una messa di voce di una progressione impressionante. La finlandese Camilla Nylund veste molto bene i panni maschili della protagonista e vocalmente è corretta, ma non ci stava male un po’ più di passione nel tratteggiare il ruolo della moglie che supera con coraggio tante dure prove per liberare l’amato consorte. Efficace come tormentato Rocco è l’ungherese László Polgár di autorevole presenza scenica. Potente ma a tratti sforzata risulta la voce di Alfred Muff nel ruolo di Don Pizzarro, forse il cattivo più cattivo di tutta la storia dell’opera.

Il regista della ripresa video è innamorato dei primissimi piani e dei dettagli che mettono impietosamente in rilievo il trucco dei personaggi. Inoltre rovina irrimediabilmente l’effetto dell’uscita dei prigionieri dai sotterranei alla luce puntando la cinepresa nella buca orchestrale per buona parte della scena con un Harnoncourt che canta i primi versi del sublime coro. E quando finalmente la cinepresa torna sul palcoscenico i coristi sono già tutti schierati al proscenio e il mirabile coup de théatre voluto da Beethoven è andato a farsi benedire. Anche il regista Flimm manca clamorosamente alcuni momenti del dramma, quali lo svelamento di Fidelio come Leonora, un colpo di scena che passa quasi inosservato, o il rapinoso duetto «Namenlose Freude!» allorché i due personaggi cantano la gioia di avere rispettivamente «Mein Mann/mein Weib an meiner Brust» (Il mio sposo/la mia sposa sul mio petto) senza neanche guardarsi e alla distanza di quattro metri. E che dire di Jaquino che gira sempre armato di un fucile con cui alla fine abbatte Don Pizzarro che scappa? O della pistola con cui Marzelline alla fine tenta di suicidarsi? Se aggiungiamo svariati coltelli e pugnali, sono molte le armi che circolano in questa produzione.

Tre tracce audio, nessun extra e sottotitoli in italiano seppure con alcuni svarioni.

(1) L’ouverture “Leonore 1” (op.138), di circa 9 minuti, non fu mai utilizzata allo scopo cui era destinata.

(2) Ecco uno schema della struttura delle tre versioni.

Prima versione (1805), Fidelio oder die eheliche Liebe, Joseph Sonnleithner, 3 atti
Ouverture “Leonore 2”
Atto I
1) aria «O wär’ ich schon mit dir vereint» (Marzelline)
2) duetto «Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein» (Jacquino/Marzelline)
3) terzetto «Ein Mann ist bald genommen» (Rocco/Ja/Marzelline)
4) quartetto «Mir ist so wunderbar» (Marzelline/Leonore/Rocco/Jacquino)
5) aria «Hat man nicht auch Gold beineben» (Rocco)
6) terzetto «Gut, Söhnchen, gut» (Rocco/Leonore/Marzelline)
Atto II
7) Marcia
8) aria «Ha! Welch ein Augenblick!» (Pizzarro)
9) duetto «Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile!» (Pizarro/Rocco)
10) duetto «Um in der Ehe froh zu leben» (Marzelline/Leonore)
11) recitativo «Ach, brich noch nicht, du mattes Herz!» e aria «Komm, Hoffnung, laß den letzten Stern»(Leonore)
12) coro «O, welche Lust!» e finale (tutti)
Atto III
13) recitativo «Gott! Welch Dunkel hier!» e aria «In des Lebens Frühlingstagen» (Florestan)
14) melodram «Wie kalt ist es in diesem unterirdischen Gewölbe!» e duetto «Nur hurtig fort, nur frisch gegraben» (Leonore/Rocco)
15) terzetto «Euch werde Lohn in bessern Welten» (Florestan/Rocco/Leonore)
16) quartetto «Er sterbe! Doch er soll erst wissen» (Pizzarro/Florestan/Rocco/Leonore)
17) recitativo «Ich kann mich noch nicht fassen» e duetto «O namenlose Freude!» (Florestan/Leonore)
18) finale «Zur Rache, zur Rache, zur Rache» (coro, tutti)

Seconda versione (1806), Leonore oder die eheliche Liebe, Stephan von Breuning, 2 atti
Ouverture “Leonore 3”
Atto I
1) aria «O wär’ ich schon mit dir vereint» (Marzelline)
2) duetto «Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein» (Jacquino/Marzelline)
4) quartetto «Mir ist so wunderbar» (Marzelline/Leonore/Rocco/Jacquino)
6) terzetto «Gut, Söhnchen, gut» ( Rocco/Leonore/Marzelline) ridotto
7) Marcia
8) aria «Ha! Welch ein Augenblick!» (Pizzarro)
9) duetto «Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile!» (Pizzarro/Rocco)
3) terzetto «Ein Mann ist bald genommen» (Rocco/Jacquino/Marzelline) spostato
11) recitativo «Ach, brich noch nicht, du mattes Herz!» e aria «Komm, Hoffnung, laß den letzten Stern»( Leonore)
10) duetto «Um in der Ehe froh zu leben» (Marzelline/Leonore)
12) coro «O, welche Lust!» e finale (tutti) ridotto
Atto II
13) recitativo «Gott! Welch Dunkel hier!» e aria «In des Lebens Frühlingstagen» (Florestan)
14) melodram «Wie kalt ist es in diesem unterirdischen Gewölbe!» e duetto «Nur hurtig fort, nur frisch gegraben» (Leonore/Rocco)
15) terzetto «Euch werde Lohn in bessern Welten» (Florestan/Rocco/Leonore)
16) quartetto «Er sterbe! Doch er soll erst wissen» (Pizzarro/Florestan/Rocco/Leonore)
17) recitativo «Ich kann mich noch nicht fassen» e duetto «O namenlose Freude!» (Florestan/Leonore)
18) finale «Zur Rache, zur Rache, zur Rache» (coro, tutti)

Terza versione (1814), Fidelio, Georg Friedrich Treitschke, 2 atti
Ouverture “Fidelio”
Atto I
2) duetto «Jetzt, Schätzchen, jetzt sind wir allein» (Jacquino/Marzelline)
1) aria «O wär’ ich schon mit dir vereint» (Marzelline)
4) quartetto «Mir ist so wunderbar» (Marzelline/Leonore/Rocco/Jacquino)
5) aria «Hat man nicht auch Gold beineben» (Rocco) ripristinata
6) terzetto «Gut, Söhnchen, gut» (Rocco/Leonore/Marzelline)
7) Marcia
8) aria «Ha! Welch ein Augenblick!» (Pizzarro)
9) duetto «Jetzt, Alter, jetzt hat es Eile!» (Pizzarro/Rocco)
11) recitativo «Abscheulicher, wo eilst di hin?» diverso e aria «Komm, Hoffnung, laß den letzten Stern» (Leonore)
12) coro «O, welche Lust!» e finale (tutti)
Atto II
13) recitativo «Gott! Welch Dunkel hier!» e aria «In des Lebens Frühlingstagen» (Florestan) diversa
14) melodram «Wie kalt ist es in diesem unterirdischen Gewölbe!» e duetto «Nur hurtig fort, nur frisch gegraben» (Leonore/Rocco)
15) terzetto «Euch werde Lohn in bessern Welten» (Florestan/Rocco/Leonore)
16) quartetto «Er sterbe! Doch er soll erst wissen» (Pizzarro/Florestan/Rocco/Leonore)
17) duetto «O namenlose Freude!» (Florestan/Leonore) diverso
18) finale «Heil sei dem Tag, heil sei der Stunde» (coro, tutti) diverso

  • Fidelio, Lacey/Vick, Birmingham, 11 marzo 2002
  • Fidelio, Barenboim/Warner, Milano, 7 dicembre 2014
  • Fidelio, Werner-Möst/Guth, Salisburgo, 13 agosto 2015
  • Leonore, Jacobs, Parigi, 7 novembre 2017 (versione concerto)
  • Fidelio, Fisch/Delnon, Bologna, 14 novembre 2019
  • Leonore, Netopil/Niermeyer, Vienna, 1 febbraio 2020 
  • Fidelio, Honeck/Waltz, Vienna, 16 marzo 2020
  • Fidelio, Parigi, Pichon/Teste, 1 ottobre 2021