Fidelio

Ludwig van Beethoven, Fidelio

Parigi, Opéra Comique, 1 ottobre 2021

★★★☆☆

(video streaming)

Fidelio a Guantanamo

«Sprecht leise, haltet euch zurück, | wir sind belauscht mit Ohr und Blick!» (Parlate piano, frenatevi, orecchi e sguardi ci spiano!) cantano i prigionieri a cui è stata concessa una boccata d’aria. Infatti sul palcoscenico dell’Opéra Comique una parete di monitor permette di controllare i detenuti di una prigione di oggi, potrebbe essere il famigerato carcere di Guantanamo. La tecnologia è cambiata, ma è sempre la stessa la violenza e sono gli stessi i soprusi, con i detenuti privati dei loro averi personali che finiscono in parte nelle tasche dell’avido carceriere Rocco, che d’altronde aveva intonato poco prima la sua prosaica lode al denaro: «Hat man nicht auch Gold beineben, | kann man nicht ganz glücklich sein» (Se non hai dell’oro appresso, non puoi esser davvero felice) ai due giovani innamorati Jaquino e Marzelline, in realtà la ragazza è innamorata di una terza persona…

Siamo infatti nel Fidelio, in una produzione che vede Cyril Teste alla messa in scena dell’unica opera di Beethoven. Come era già avvenuto nel suo precedente spettacolo qui alla Salle Favart, l’Hamlet di Thomas, l’artista di Carpentras, che è passato dalle arti visive alla regia lirica, fa dell’aspetto visuale l’elemento centrale della sua lettura con un operatore di steady cam in scena che tallona i personaggi rubando loro dettagli facciali espressivi che vengono proiettati ingigantiti sugli schermi. Cosa già vista molte volte e che qui ha un’invadenza ancora maggiore del solito che la ripresa televisiva mitiga, ma che dal vivo doveva essere ancora più fastidiosa. Il dominio delle immagini è totale: quando Leonore minaccia Don Pizzarro, non lo fa con un revolver, bensì con una macchina da ripresa!

Le scene di Valérie Grall e i costumi di Marie L. Rocca sono coerenti con la visione del regista che dà un taglio contemporaneo alla vicenda pur con una drammaturgia che rimane fedele alla vicenda: invece di carceri tenebrose dai muri grondanti umidità, qui abbiamo un ambiente asettico con lucide sbarre d’acciaio, tute arancioni per i prigionieri e la morte di Florestan è prevista con un’iniezione letale. Accurato è l’uso delle masse corali così come il movimento dei personaggi, ma poco plausibili sono i bambini che entrano incarcere durante il coro dei detenuti, più accettabile la riunione delle famiglie alla fine. Le regia non incappa in errori grossolani, ma neanche si evidenzia per particolare originalità: già altrove il grido di libertà di Florestan è stato considerato buono per qualunque epoca.

Alla testa della sua orchestra Pygmalion, dal suono piuttosto asciutto, Raphaël Pichon dirige un Beethoven settecentesco, senza fremiti romantici, e con un baldanzoso ritmo da Singspiel, ma tiene conto del tipo di voci in scena: i due protagonisti infatti sono cantanti che hanno sempre frequentato ruoli più lirici che drammatici. È il caso dell’australiana Siobhan Stagg, soprano lirico di coloratura, apprezzata Pamina nel Flauto magico di McVicar a Londra, che qui delinea una Leonore non di grande volume sonoro e con in fondo una certa freddezza che non rende particolarmente intenso il suo rapporto col marito Florestan, un Michael Spyres sorprendente per doti drammatiche. Bellissimo il suo spettacolare «Gott!» in crescendo che nasce da un silenzio angoscioso fino a toccare un insostenibile livello di tragicità, pur sempre composta, seguito da un silenzio che agghiaccia il sangue. La bellezza della linea di canto, la luminosità degli acuti, l’intelligenza dell’interprete si fanno ammirare in ogni momento, anche quando ci si aspetterebbe una voce ancora più voluminosa come nel finale della stessa scena con quell’affannoso rincorrersi e accavallarsi delle frasi con cui il pover’uomo ha la visione della sposa che lo salverà anche se solo per accompagnarlo in paradiso. La sua è un’interpretazione che ha preso il cuore e si è impressa nella memoria.

La Marzelline di Mari Eriksmoen e lo Jaquino di Linard Vrielink sono entrambi lodevoli mentre come Rocco troviamo un Albert Dohmen pienamente autorevole. Giustamente perfido ma vocalmente non così minaccioso il Don Pizarro di Gábor Bretz, un’oasi di affabilità il Don Fernando di Christian Immler. Impeccabile il coro Pygmalion.

   

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