Mese: Maggio 2024

Stagione Sinfonica RAI

Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n° 34 in Do maggiore K 338 

I. Allegro vivace
II. Andante di molto
III. Allegro vivace

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 10 in mi minore op. 93

I. Moderato
II. Allegro
III. Allegretto – Largo – Più mosso
IV. Andante – Allegro

Daniele Gatti direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 maggio 2024

Per il suo ritorno con l’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI Daniele Gatti ha scelto Mozart come entrée al plat de résistance della serata costituito dalla Decima Sinfonia di Šostakovič. Cronologicamente il primo e l’ultimo pilastro della evoluzione della sinfonia che, nata nella sua forma classica con Haydn e Mozart nel secondo Settecento, è arrivata al XX secolo e qui ha trovato nel compositore russo il suo ultimo grande interprete.

Se le 104 sinfonie di Haydn spaziano su un periodo molto lungo, il culmine della sua creazione è quello delle ultime dodici (le “Sinfonie londinesi”) che appartengono al periodo 1791-1795 e vengono quindi dopo le ultime sei di Mozart: dal 1782 della “Haffner” (K 385) al 1788 della “Jupiter” (K 551). La K 338 in programma è stata scritta prima della partenza di Mozart per Monaco (novembre 1780) per l’allestimento dell’Idomeneo. La sinfonia è in Do maggiore e ha un carattere esuberante così messo in evidenza da Massimo Mila: «È il capolavoro di quella musicale tracotanza, di quell’orgoglio della propria maestria, che caratterizza le composizioni di Mozart dopo i suoi ritorni dai viaggi all’estero», in questo caso da Parigi, dove aveva presentato, tra l’altro, la sua Sinfonia n° 31, la “Pariser” appunto. Nel complesso il viaggio era stato deludente, ma era comunque stato un’utile esperienza per l’ex enfant prodige. La K 338 è dunque l’ultima sinfonia della sua gioventù salisburghese e fa da ponte alla successiva dirompente maturità viennese, quando è finalmente lontano dalla provinciale corte arcivescovile. Originariamente concepita in quattro movimenti, fu poi ridotta a tre, una struttura più comune nel primo classicismo. A questo proposito il musicologo Alfred Einstein ha avanzato una sua tesi secondo cui il Minuetto in Do maggiore K 409, scritto a Vienna nel maggio 1782, sarebbe stato composto per questa sinfonia, ma non esiste alcuna prova a sostegno di tale affermazione e per di più il Minuetto richiede due flauti che sono invece assenti nell’organico della sinfonia che come fiati prevede due oboi, due corni, due fagotti e due trombe.

Una vivace fanfara in tempo di marcia introduce il primo tema dell’Allegro vivace iniziale mentre il secondo è più lirico. Tono molto festoso è anche quello del secondo movimento, un “Andante di molto” [sic] in Fa maggiore per soli archi, ad eccezione di un fagotto che raddoppia i bassi. Ancora più allegro è ovviamente il finale con un ritmo che richiama quello di una tarantella. Daniele Gatti non sopravvaluta i meriti di questo lavoro che presenta nella sua olimpica gioia compositiva lasciando agli strumentisti dell’orchestra la possibilità brillare nei loro interventi. Nella lettura a memoria di Gatti è la fluidità dei temi e la trasparenza del suono a trovare la più felice realizzazione.

Nei 172 anni che trascorrono tra il lavoro di Mozart e quello di Šostakovič come è cambiato il mondo! Sono mutate la società, la cultura in generale e la musica in particolare. Soprattutto la sinfonia, che è diventata un oggetto più pregno di significato e ideologicamente importante, quasi scomodo, di quanto fosse stato nel passato. È successo con Beethoven e succederà ancora di più con Bruckner e Mahler a fine Ottocento. Non solo a livello estetico, ma anche a livello sociale la sinfonia assume un’importanza e un ruolo che nessun’altra forma strumentale possiede, come fu messo ben in chiaro la prima volta da Paul Bekker nel suo saggio del 1918 Die Sinfonie von Beethoven bis Mahler – testo fondamentale incredibilmente mai tradotto in italiano! Con Šostakovič nel Novecento la sinfonia assurge a un peso tale da farla implodere su sé stessa: le sue quindici partiture, composte tra il 1926 e il 1971, costituiscono un grandioso monumento ideale, spirituale e formale, ma forse saranno le ultime sinfonie. Sulla pelle del massimo compositore russo del Novecento è passata tutta la fatica e la paura di una nazione che è stata protagonista e vittima di una delle più sanguinose vicende che l’umanità abbia patito nella sua storia: prima la rivoluzione russa, poi l’assedio bellico nazista, poi l’epoca di Stalin e il post-stalinismo. Tutte queste vicende sono state vissute di persona da Šostakovič e hanno lasciato un forte impatto nelle sue composizioni. Nel loro insieme le sue sinfonie costituiscono il diario storico e dell’anima di una personalità sensibile, tagliente e attiva in una congiuntura sociale e umana drammatica quant’altre mai furono.

Della Decima sinfonia e dei suoi pregi costruttivi è già stato scritto in occasione della esecuzione di James Conlon con la stessa OSN un anno e mezzo fa. Il moderato iniziale è ritenuto la migliore pagina sinfonica di Shostakovich in assoluto: il compositore rinuncia al movimento allegro per disegnare un «disperato deserto» tramite «una tetra trenodia di desolante miseria» (Franco Pulcini) e Gatti riesce a rendere rabbrividente quell’inizio strisciante dei violoncelli e contrabbassi in un crescendo lentissimo e inesorabile che porta al lancinante pieno a tutta orchestra a metà del movimento e poi alla successiva livida estinzione sonora. Non è solo un gioco di decibel, ma di una diversa qualità del suono quella ottenuta dal direttore milanese: livido all’inizio, dolorosamente abbagliante nel fortissimo. Espressivamente potente è il relativamente breve secondo movimento, lo Scherzo-Stalin, un diabolico gioco di incastri in cui l’alternanza dei piani acustici viene magistralmente realizzata dall’orchestra. Un certo richiamo a Mahler è evidente nel valzer sempre più beffardo del terzo movimento, mentre il quarto porta a quella «isterica aggressività» del finale che lascia il pubblico senza fiato ma prodigo di applausi copiosi e insistenti.

Una serata ricca di intense emozioni quella regalataci dal vincitore del “Premio Abbiati” della critica musicale italiana come miglior direttore del 2023, premio assegnatogli per la terza volta nella sua quarantennale carriera.

Bohème: Breathe – Umphefumlo

Mark Dornford-May, Bohème: Breathe – Umphefumlo

Internationale Filmfestspiele Berlin 2015

Mimì in Sudafrica

Recentemente le opere di tema orientale di Puccini sono state oggetto di discussioni sull’appropriazione di una cultura da parte di un’altra: è stato il caso della Turandot con la cultura cinese o di Madame Butterfly con quella giapponese. Il tema del yellowface si è aggiunto così a quello del blackface. Ma nel 2015 una ben diversa operazione capovolgeva i termini: Mark Dornford-May, un inglese trapiantato in Sudafrica, con un film su La bohème – sempre Puccini! – girato in un sobborgo di Cape Town e cantato in lingua Xhosa, dimostra come si possa arrivare alla geniale appropriazione politico-culturale della tradizione operistica europea da parte di una cultura a noi estranea. Di qui a dire che così, con la reciproca appropriazione, il problema è risolto il passo è lungo e non ne dimostra la relativizzazione, essendo ancora enormi i nostri debiti coloniali con il resto del mondo. Ma l’operazione di Dornford-May, che dieci anni prima aveva già girato una U-Carmen nella baraccopoli di Khayelitsha, non solo dimostra una volta di più l’universalità dei sentimenti, la vitalità e contemporaneità dell’opera lirica, ma indica anche un modo diverso di fruirla, con buona pace dei melomani tradizionalisti.

Nel 2000 Dornford-May e il direttore d’orchestra Charles Hazlewood si sono recati in Sudafrica, dove hanno tenuto audizioni in tutto il paese, selezionando più di 2.000 persone per formare una compagnia di teatro lirico per lo Spier Festival, che sarebbe diventata l’Isango Ensemble. Da allora Oltre alla U-Carmen sono stati messi in scena The Magic Flute – Impempe Yomlingo con la partitura mozartiana trasposta per orchestra di marimba e A Christmas Carol. Nell’estate del 2012, La Boheme – Abanxaxhi, una partnership unica con il Fondo Globale per la lotta all’AIDS, alla tubercolosi e alla malaria, si è esibita per cinque settimane a Londra. Il regista si è scontrato con la stampa e parte dell’establishment artistico per un suo articolo su un giornale sudafricano in cui deplorava il “volto bianco” del teatro sudafricano e la mancanza di critici in grado di parlare qualsiasi lingua africana. 

Con il suo film su La bohème Dornford-May ha voluto porre l’accento sul fatto che nel 2014 nel mondo due milioni di persone sono morte di TBC, essendo Khayelitsha uno dei posti più colpiti. La vicenda della Mimì di Murger malata di tisi e degli amici bohémien trova riscontro nella brutale realtà degli studenti africani che lottano per il cibo, per una casa e per le medicine.

Strumenti a percussione e un coro sostituiscono la grande orchestra mentre le voci sono quelle fresche ma ben impostate di cantanti locali: citiamo almeno Mhlekakai Mosiea (Lungelo/Rodolfo), Bususuwe Nhejane (Mimì) e Pauline Malefane (Zolka/Musetta), l’interprete principale di U-Carmen. I direttori musicali sono Mantisi Dyantis, che ne ha curato l’arrangiamento e la stessa Malefane che assieme al regista ha scritto la sceneggiatura.

La drammaturgia è brillantemente adattata nel passaggio dalla Parigi ottocentesca all’oggi di uno slum sudafricano. I giovani hanno grandi sogni per il futuro, segnalati da inserti scherzosi in cui reggono cartelli quali “Premio Nobel” per Mimi che studia di ventare una botanica e intanto dipinge fiori, “Playboy, dio del sesso, rivoluzionario” per l’artista Mandisi/Marcello. Il pagamento dell’affitto richiesto dal padrone di casa è qui risolto con un principio di incendio che fa fuggire tutti lasciando l’immobile senza luce così da far incontrare i due giovani Mimi e Lungelo/Rodolfo a lume di candela. Alcindoro qui è un boss della malavita locale e Musetta è Zoleka, una cantante jazz che si accompagna alla tastiera per intonare «As I go by…» (Quando m’en vo…).

Mimì muore sotto un cavalcavia mentre il rumore del treno che passa lì vicino copre i rintocchi di una lontana campana. Cambia l’ambientazione, cambiano i tempi, ma l’emozione e lo strazio sono gli stessi. E si scopre che l’immortale “Che gelida manina” è altrettanto commovente in lingua Xhosa.

P.S. Un sincero ringraziamento a Giuliano Danieli che al convegno “Puccini in scena, ieri e oggi” organizzato a Lucca dalla Associazione Nazionale Critici Musicali ha fatto conoscere questo film e mi ha poi dato la possibilità di visionarlo.

Vincerò, ma anche no

Alfonso Antoniozzi, Vincerò, ma anche no

136 pagine, Janus Editore, 2021

Lo strillo in copertina “Tutto quello che nessuno ha mai detto sull’opera lirica” è ambizioso se non addirittura pretenzioso, ma il nome dell’autore è una garanzia: Alfonso Antoniozzi – grande cantante, intelligente regista, assessore alla cultura della sua città (Viterbo), docente di Teoria e tecnica dell’interpretazione, uomo di spettacolo a tutto tondo – è un animale di palcoscenico che conosce benissimo il suo ambiente e di lui ci si può sicuramente fidare. Più cauto è comunque il sottotitolo ufficiale “Pratico manualetto per i neofiti dell’Opera”. Di questo infatti si tratta, di un’introduzione per chi è digiuno di opera e al massimo riconosce Vincerò o Brindiamo, brindiamo, perché li ha sentiti cantati da il Volo…

«Mi auguro che questo libro possa essere una delle cento chiavi possibili che aprono le porte di un teatro d’opera allo spettatore», scrive Antoniozzi, che utilizza dieci celeberrime pagine del repertorio lirico per incuriosire e stimolare quella «passione che aspetta di essere scoperta, una di quelle che non vi lasciano più e che vi migliorano l’esistenza».

Ma il librino non è rivolto solo ai neofiti, anche gli appassionati vi possono trovare qualche spunto curioso presentato con una scrittura brillante e ironica. Con il criterio inflessibile di parlare solo di interpreti non più viventi – con l’eccezione di Renata Scotto, al tempo ancora in vita – Antoniozzi confessa di non avere avuto il coraggio di scrivere giudizi sui colleghi, anche se solo positivi. Oltre che ai colleghi, l’autore si rivolge ai critici musicali e ai musicologi rivelando che anche se il testo non è pensato a loro, se volessero lo stesso leggerlo non mancano i motivi per «allenare le sinapsi che sovrintendono all’ironia e magari persino all’autoironia». E infatti così è.

Ognuno dei dieci esempi è formato da un’introduzione/digressione delle peripezie legate alla composizione dell’opera da cui l’aria è tratta, al compositore e alla sua epoca; dalla trama dell’opera; da una parafrasi del testo; da una guida all’ascolto e dall’interpretazione scelta che si può ascoltare/vedere in rete tramite il QR-code opportunamente stampato.

Pagliacci / Cavalleria rusticana




Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Amsterdam, Muziektheater, 28 settembre 2019

★★★★★

(registrazione video)

Carsen fa Pirandello

Ad Amsterdam la stagione lirica è inaugurata da una produzione di Robert Carsen che si rivela una delle sue migliori. Si tratta di Pagliacci e Cavalleria rusticana, in quest’ordine, invertito rispetto a quello tradizionalmente adottato perché Carsen parte dal prologo di Pagliacci con la tirata di Tonio sull’autore che «al vero ispiravasi» e rivolto al pubblico «piuttosto che le nostre povere | gabbane d’istrioni, le nostr’anime | considerate, poiché noi siam uomini | di carne ed ossa», per puntare su una rappresentazione meta-teatrale che accomuna i due lavori e li collega.

 In Pagliacci la folla è il coro stesso che dalle prime file della platea diventa personaggio prima rispondendo con infantile entusiasmo agli «squilli di tromba stonata» dei teatranti di fiera e poi salendo in palcoscenico per seguire da vicino lo spettacolo delle maschere concluso dal doppio assassinio. Uno spettacolo senza commedia dell’arte, ma con elementi clowneschi: il naso rosso di Tonio, le scarpe smisurate, il trucco dei visi. I costumi sono di Annemarie Woods e le luci come sempre dello stesso Carsen e di Peter van Praet mentre la scenografia di Radu Boruzescu mostra due sipari rossi – i diversi livelli della rappresentazione – e un palcoscenico vuoto con sedie raffazzonate, stender appendiabiti e tavolini per il trucco. Il set della farsa all’interno dell’opera è una replica degli stessi camerini. Tonio è un tecnico di palcoscenico e fari, tralicci, quinte sono a vista a sottolineare la commistione tra vita reale e finzione scenica.

Dopo l’intervallo, Cavalleria inizia col “fermo immagine” del tragico finale di Pagliacci, i due cadaveri a terra e la folla sbigottita. Gli spettatori-performer indossano abiti identici a quelli di tutti i giorni e il loro direttore, Ching-Lien Wu, appare come sé stessa mentre dirige una prova. Santuzza non è stata disonorata socialmente, ma licenziato dal cast e Mamma Lucia è una direttrice di scena. Qui non c’è la Sicilia, non c’è colore locale. Solo il teatro, dove la finzione è talora più convincente della realtà e la distinzione tra l’uno e l’altra è una linea piuttosto sfocata. Più che il Verismo, Carsen ha in mente Luigi Pirandello che qualche decennio dopo avrebbe esplorato il sofferto rapporto tra attore e personaggio. La lettura di Carsen potrebbe sembrare audace, ma è la sua attenta regia con tanti particolari di grande teatralità e l’attenzione alla recitazione dei cantanti a rendere del tutto convincente l’azzardo.

Questo grazie anche alla direzione di Lorenzo Viotti, che ha sostituito il previsto Sir Mark Elder. La sua concertazione è ricca di sfumature e colori, più brillanti e con tempi spediti in Pagliacci, più sobri e con tempi dilatati in Cavalleria. Magnifica è la resa dell’Intermezzo e in ogni momento l’attenzione ai cantanti è suprema. In questo è aiutato da un coro superlativo e da solisti di grande interesse. Nella prima parte il Canio di Brandon Jovanovich conferma le doti attoriali del tenore americano accanto a una vocalità atipica che qui però risulta molto efficace per la grande proiezione, il fraseggio spezzato, gli acuti potenti. Il suo lavoro di immedesimazione rende il personaggio totalmente credibile e di grande impatto. Nedda ideale per il timbro lirico è quella del soprano Aylin Pérez. Il suo canto è senza sforzo, con mezzevoci e pianissimi suadenti, trilli puliti e un buon controllo anche nel registro medio e basso, ottenuto mantenendo lo stesso timbro uniforme. Roman Burdenko è un giustamente spregevole Tonio dalla voce imponente che si piega alle esigenze del ruolo. Marco Ciaponi (Beppe) è un magnifico Arlecchino, lirico e di bel fraseggio. Silvio di lusso dal timbro pieno e morbido quello di Mattia Olivieri, di avvenente fisicità nel sensuale duetto con Nedda.

Burdenko ritorna nella seconda parte come Alfio, e forse se ne poteva fare a meno. Santuzza di eccezione è quella di Anita Rachvelishvili, tra le migliori in assoluto con una resa vocale e teatrale sconvolgente. Brian Jagde è un giusto Turiddu musicale, dalla bella linea di canto e mai eccessivo nell’interpretazione. Credibile e fascinosa la Lola di Rihab Chaieb, mentre Elena Zilio è la Mamma Lucia di sempre.

The Gondoliers

Arthur Sullivan, The Gondoliers

Glasgow, Theatre Royal, 28 ottobre 2021

★★★★☆

(video streaming)

L’ultimo grande successo e capolavoro di G&S

Terz’ultima delle Savoy Operas, The Gondoliers or The King of Barataria fu anche l’ultimo grande successo di William Schwenck Gilbert e Arthur Sullivan, 553 repliche successive alla prima del 7 dicembre 1889, ed è forse il loro massimo capolavoro.

Le relazioni tra librettista e compositore, anche a causa del tiepido successo della loro ultima collaborazione, The Yeomen of the Guard, erano diventate tese. Alle smanie di Sullivan per scrivere un’opera seria in cui la musica «doveva essere predominante» Gilbert aveva risposto: «Se voi avete la sorprendente impressione di essere stato negletto negli ultimi dodici anni, e se siete serio nella vostra intenzione di voler scrivere un’opera in cui “alla musica debba essere assegnato il riguardo primario” (dal che capisco trattarsi di un’opera in cui il libretto, e di conseguenza il librettista, devono occupare un posto subordinato), non c’è certo la possibilità di trovare un modus vivendi soddisfacente per entrambi. Voi siete un esperto nella vostra professione, e io nella mia. Se ci vogliamo rimettere insieme deve essere come maestro e maestro, non come maestro e servo». Essi si riappacificarono, ma rimase sotterranea una vena di rancore fra i due che alla fine sarebbe uscita allo scoperto.

Nell’aprile del 1890 Gilbert scoprì che le spese di manutenzione del teatro, tra cui un nuovo tappeto per l’atrio anteriore del teatro, erano state addebitate alla partnership invece che a carico di Carte. Gilbert affrontò Carte, ma il produttore si rifiutò di riconsiderare i conti, cosa che fece infuriare Gilbert. Le cose degenerarono presto, Gilbert perse le staffe con i suoi soci e intentò una causa contro Carte. Sullivan sostenne Carte rilasciando una dichiarazione giurata in cui affermava erroneamente che c’erano delle piccole spese legali in sospeso a causa di una battaglia che Gilbert aveva avuto nel 1884 con Lillian Russell, mentre in realtà quelle spese erano già state pagate. Quando Gilbert lo scoprì, chiese la ritrattazione della dichiarazione giurata; Sullivan rifiutò e Gilbert si sentì tradito. Sullivan sentiva che Gilbert stava mettendo in dubbio la sua buona fede, e Sullivan aveva altri motivi per rimanere nelle grazie di Carte: Carte stava costruendo un nuovo teatro, la Royal English Opera House (oggi Palace Theatre), per produrre l’unica grande opera di Sullivan, Ivanhoe. Dopo la chiusura di The Gondoliers nel 1891, Gilbert ritirò i diritti di rappresentazione dei suoi libretti, giurando di non scrivere più opere per il Savoy. L’aggressiva azione legale di Gilbert, anche se coronata da successo, aveva amareggiato Sullivan e Carte. Dopo molti tentativi falliti da parte di Carte e di sua moglie, Gilbert e Sullivan si riunirono grazie agli sforzi del loro editore musicale, Tom Chappell. Nel 1893 produssero la loro penultima collaborazione, Utopia, Limited, ma The Gondoliers si sarebbe rivelato l’ultimo grande successo di Gilbert e Sullivan. Utopia fu solo un modesto successo e la loro ultima collaborazione, The Grand Duke, nel 1896, fu un fallimento. Dopo di allora, i due non collaborarono mai più.

Il tempo trascorso su The Gondoliers fu più lungo che per le altre opere, Sullivan dimostrò tutta la sua maestria in cori e concertati complessi dal punto di vista del contrappunto delle voci e trascinanti ritmi di danze di gusto spagnolo. I loro sforzi non furono inutili e i risultati non delusero le aspettative: i critici furono estremamente favorevoli e il pubblico in delirio. Come era successo con The Mikado l’ambientazione esotica, qui una Venezia di fantasia nel primo atto e il palazzo del regno di Barataria nel secondo, aveva spinto Gilbert a premere sul pedale della satira sociale. Il libretto è un’incantevole presa in giro delle attrattive e delle insidie del potere, del privilegio e del clientelismo.

Atto I. A Venezia, ventiquattro contadine dichiarano la loro passione per i bei fratelli gondolieri Marco e Giuseppe Palmieri, che si bendano per scegliere equamente le loro spose. Alla fine, Giuseppe sceglie Tessa e Marco sceglie Gianetta, e tutti e quattro si recano in chiesa per un doppio matrimonio. Il Duca e la Duchessa di Plaza-Toro, insieme alla figlia Casilda, arrivano dalla Spagna per incontrare Don Alhambra del Bolero, il Grande Inquisitore. Mentre il loro tamburino Luiz parte per annunciare l’arrivo del Duca, il Duca e la Duchessa rivelano alla figlia un segreto che hanno custodito per vent’anni: quando lei aveva solo sei mesi, è stata data in sposa al figlio neonato del Re di Barataria, che è stato portato a Venezia da Don Alhambra e ora è lui stesso Re dopo la morte del padre in un’insurrezione. Casilda è quindi diventata regina di Barataria e i suoi genitori l’hanno portata a Venezia per farle conoscere il marito. Segretamente innamorata di Luiz, Casilda si rassegna a una vita separata da lui. Don Alhambra arriva e spiega che il piccolo Principe di Barataria è stato allevato dal gondoliere veneziano Baptisto Palmieri, che aveva un figlio della stessa età e che ha dimenticato quale dei due fosse. I due ragazzi – Marco e Giuseppe Palmieri – crebbero e divennero a loro volta gondolieri. Solo la balia Inez, che li ha accuditi (e che è anche la madre di Luiz), sa chi è il primo, ma ora vive con un brigante in montagna. Il Grande Inquisitore invia Luiz a cercarla. Quando Marco e Giuseppe arrivano con le loro mogli, Don Alhambra spiega che uno di loro è il Re di Barataria, ma nessuno sa quale. Nonostante le loro convinzioni repubblicane, i “fratelli” sono entusiasti e accettano di recarsi subito a Barataria, regnando insieme fino a quando non sarà possibile identificare il vero Re. Don Alhambra avvisa le mogli che non possono essere ammesse a Barataria fino a quando il Re non sarà stato dichiarato, trascurando di dire che il vero Re è già sposato con Casilda.
Atto II. A Barataria, Marco e Giuseppe, fedeli alle loro radici repubblicane (d’adozione), insieme governano in uno stile idealista, anche se un po’ caotico. Vivono una vita splendida, ma sentono la mancanza delle mogli. Ma ben presto, faticando a sopportare la separazione, le signore arrivano da Venezia e tutti festeggiano con un gran ballo. Don Alhambra arriva a palazzo e scopre che Marco e Giuseppe hanno promosso tutti alla nobiltà, e comunica che il vero Re è stato sposato con Casilda da bambino ed è quindi un bigamo involontario. Le mogli dei gondolieri sono sconvolte nello scoprire che nessuna di loro sarà regina. Il Duca e la Duchessa di Plaza-Toro arrivano con Casilda e, sconvolti dalla mancanza di sfarzo e di cerimonie di benvenuto, si impegnano a educare Marco e Giuseppe a un corretto comportamento regale. I due ex gondolieri rimangono soli con Casilda, che promette di essere una moglie fedele per uno di loro, e quando arrivano le altre mogli, tutti e cinque cantano della loro strana situazione. Don Alhambra arriva con la nutrice Inez, che conosce la vera identità del Re. La donna confessa che quando il Grande Inquisitore è arrivato per portare via il Principe bambino, ha sostituito il proprio figlio piccolo, tenendo il vero Principe sotto la propria guardia. Così il Re non è né Marco né Giuseppe, ma Luiz, e Casilda scopre di essere già sposata con l’uomo che ama. I due gondolieri, sebbene delusi per non essere diventati Re, tornano a Venezia felici con le loro mogli.

La produzione della Scottish Opera, realizzata in collaborazione con la D’Oyly Carte Opera Company e la State Opera South Australia, è diretta con brio da Derek Clark che dà vita alla più solare e gioiosa delle Savoy Operas. Sotto la sua guida la Schottish Opera Orchestra si dimostra un duttile strumento per realizzare la non facile partitura ricca di invenzioni musicali argute e sapienti allo stesso modo. Frizzante è il est di interpreti efficacissimi nel tratteggiare i sapidi personaggi di questa storia surreale: i fratelli Palmieri, i gondolieri del titolo, Marco (William Morgan) e Giuseppe (Mark Nathan); le spose Gianetta (Ellie Laugharne) e Tessa (Sioned Gwen Davies); gli spiantati e altezzosi aristocratici spagnoli The Duke of Plaza-Toro (l’esilarante Richard Suart) e The Duchess of Plaza-Toro (Yvonne Howard); il Grande Inquisitore Don Alhambra del Bolero (Ben McAteer); Casilda (Catriona Hewiston), Luiz (Dan Shelvey) e tutti gli altri.

Fedele alla tradizione della d’Oyly Carte ma con un pizzico di modernità è l’arguto allestimento di Stuart Maunder, direttore artistico della State Opera South Australia di cui si ricorda il delizioso Mikado. Assieme alle scene di Dick Bird, al gioco luci di Paul Keogan e alle fluide coreografie di Isabel Baquero il risulato è uno spettacolo visivamente godibilissimo che il culmine nei costumi dello stesso Bird, uno per tutti quello della Duchessa: una gonna di due metri e mezzo di larghezza, sbrindellata e sbiadita nel primo atto, riportata allo splendore di sete dorate nel secondo assieme alla parrucca in cui è infilzata una lunga gondola. Il costumista si diverte non solo con la profusione di fiori e nastri degli abiti settecenteschi delle contadine, ma con il costume dei fratelli gondolieri che devono condividere il ruolo di re. Per non parlare dell’abito da fenica spagnola di Casilda che sfoggia anche una benda nera su un occhio – non sempre lo stesso… – a mo’ di principessa Eboli!

La recita è stata filmata e trasmessa dalla rete BBC4 ed è attualmente disponibile su Operavision oltre che su YouTube.

Pessoa – Since I’ve been me

Robert Wilson, Pessoa – Since I’ve been me

Firenze, Teatro della Pergola, 5 maggio 2024

L’omaggio di Robert Wilson al Portogallo che festeggia 50 anni di democrazia

Luce, spazio, tempo. Gli spettacoli di Robert Wilson nascono prima dalla luce, poi dagli spazi e dai tempi teatrali. Non fa eccezione l’ultima sua creazione ora in prima mondiale alla Pergola.

Pessoa – Since I’ve been me (Pessoa – Da quando sono io) è uno spettacolo multilingue commissionato e prodotto dal Teatro della Pergola di Firenze e dal Théâtre de la Ville di Parigi nel segno del progetto comune “L’Attrice e l’Attore Europei” e coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg. È un viaggio poetico nell’immaginario del poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935).

Oltre la regia, Robert Wilson cura luci e scene, mentre la drammaturgia è affidata a Darryl Pinckey e i costumi sono disegnati da Jacques Reynaud. Scrive il regista: «L’idea che sia una produzione internazionale, che ci siano attori di paesi differenti, con background culturali differenti, e che sia uno spettacolo in varie lingue mi sembra giusta per Pessoa. Pessoa era un uomo fatto di tante “persone” diverse, un portoghese cresciuto in Sudafrica. Una maniera di approcciare questo lavoro è cercare di capire come trattare questo insieme di personalità. Nella mia testa c’è proprio un prisma con tutte le diverse personalità, i diversi aspetti di Pessoa».

Nel 2024 il Portogallo festeggia mezzo secolo dalla Rivoluzione dei Garofani che riportò la democrazia nel Paese dopo anni di dittatura. Diventa quasi naturale pensare a Pessoa, l’enigmatico poeta dai molti eteronimi. L’utilizzo del multilinguismo è la chiave di interpretazione del lavoro del poeta che oltre al portoghese si esprimeva nella lingua della madre (inglese) e in francese per amore dei suoi prediletti letterati. L’italiano si è aggiunto come sigillo all’universalità europea dell’opera di Pessoa.

Gli spettatori vengono accolti a sipario chiuso dall’attrice portoghese Maria de Madeiros, regista di Capitães de Abril (Capitani di aprile), un film del 2000 sulla ribellione dei giovani ufficiali che posero fine alla dittatura di Salazar. L’attrice è vestita e truccata in modo da somigliare al poeta, ma ricorda anche Charlie Chaplin con la sua malinconia e leggerezza, le stesse facce dell’anima di Pessoa.

Con l’apertura del sipario entriamo in un tripudio di luci, colori e rumori fragorosi quando arrivano in scena le altre personalità eteronome nate dalla immaginazione del poeta (Alexander Search, Bernardo Soares, Vicente Guedes, Alberto Caeiro, Álvaro de Campos e Ricardo Reis), ossia il magnifico cast internazionale: Aline Belibi, francese; Rodrigo Ferreira, brasiliano; Klaus Martini, italo-albanese; Janaína Suaudeau, franco-brasiliana; Sofia Menci e Gianfranco Poddighe, italiani. I diversi quadri richiamano paesaggi o viaggi (una nave a vela di carta), che per Pessoa sono principalmente viaggi della mente, fino all’ironico e scatenato ballo finale in abiti da marinai americani. I versi del Livro do desassossego (Libro dell’inquietudine), da cui viene tratto il titolo dello spettacolo, sono inseriti in una gioiosa, comica, anarchica, clownesca giostra di battute aforistiche che vogliono esprimere la folle e tragica insensatezza della vita. La totale dedizione ed eccezionale bravura degli interpreti così come le invenzioni visive di Wilson vengono alla fine salutate da applausi convinti e insistiti.

THEATRE ROYAL

Theatre Royal

Glagow (1867)

1541 posti

Il teatro fu aperto nel 1867 come Royal Colosseum and Opera House da James Baylis. Il Royal, i suoi negozi e l’adiacente Alexandra Music Hall furono progettati da George Bell dello studio Clarke & Bell, che divenne il presidente fondatore del Glasgow Institute of Architects. Baylis presentò una serie di attività di spettacolo nel suo auditorium: pantomime, commedie, arlecchinate e opera.

Nel 1879 l’auditorium fu distrutto da un incendio e fu ricostruito secondo il classico design rinascimentale francese, come si vede oggi, dal famoso architetto teatrale Charles J. Phipps, creando tre gallerie invece di due e facendo sì che la porta d’ingresso si affacciasse su Hope Street invece che su Cowcaddens Road. Il teatro continuò a ospitare circa 3.000 persone. Oggi è il più grande esempio sopravvissuto del lavoro teatrale di Charles Phipp in Gran Bretagna.

Nel 1895 la società diventò Howard & Wyndham Ltd, quotata in borsa, e crebbe fino a possedere e gestire il più grande gruppo di teatri di qualità in Scozia e Inghilterra, con il Royal come fiore all’occhiello. Nello stesso anno un incendio distrusse nuovamente l’auditorium, che fu ricostruito sei mesi dopo sotto l’attenzione di Charles Phipps con pochi cambiamenti visibili. 

Nel 1957, il teatro fu venduto alla Scottish Television in una joint venture con la Howard & Wyndham Ltd per la conversione del Royal in Scottish Television Theatre, studi e uffici, diventando la sede principale della rete commerciale ITV nella Scozia centrale. Il 3 novembre 1969, il teatro prese fuoco e la STV trasportò la maggior parte della produzione nel suo teatro di Edimburgo, fino a poche settimane dopo, quando le riprese ricominciarono. Nel 1974, la Scottish Television si trasferì nei locali adiacenti, costruiti su misura, e offrì il Theatre Royal alla Scottish Opera, che lo acquistò con il sostegno del pubblico, trasformandolo nella sua sede e nel primo teatro d’opera nazionale della Scozia. Ne seguì un’importante opera di ricostruzione e ristrutturazione, che comportò la creazione di un foyer ampliato, di una nuova scala principale, di una fossa orchestrale ingrandita per ospitare 100 musicisti, di aree di backstage ampliate e di camerini modernizzati. L’auditorium è stato riportato al suo pieno splendore e gli intonaci sono tornati ai colori originali crema e oro, con il soffitto ornato dai colori originali oro, crema e blu pallido. Alle pareti principali fu aggiunta la carta da parati William Morris. La riapertura avvenne nell’ottobre 1975 con una rappresentazione di gala di Die Fledermaus, trasmessa in diretta televisiva.

Pochi mesi dopo, il Theatre Royal divenne anche la sede dello Scottish Ballet, avviato nel 1969 mentre nel 1997 una ristrutturazione ha permesso di effettuare un’ampia ricablatura e ridecorazione. Le pareti rosso ciliegia, le poltrone turchesi e la moquette rossa e turchese hanno sostituito lo schema del 1975. Nel 2005 la Scottish Opera ha affittato la gestione del teatro all’Ambassador Theatre Group, anche se l’edificio continua a essere la sede degli spettacoli della Scottish Opera e dello Scottish Ballet.     I finanziamenti del governo scozzese, della Heritage Lottery e di altri enti a partire dal 2012 hanno permesso alla Scottish Opera di costruire un nuovo foyer all’angolo tra Hope Street e Cowcaddens, in parte sul sito dell’ex Alexandra Music Hall. Costato 14 milioni di sterline, è stato inaugurato nel dicembre 2014 ed è un edificio in gran parte ellittico, che contiene nuovi ingressi, foyer, bar, caffè, aree di ospitalità, spazi per l’istruzione e aree espositive del patrimonio, oltre a ascensori per tutti i livelli, tra cui una terrazza aperta sul tetto, e centrato da una scala a chiocciola aperta.

The Tender Land

Grant Wood, American Gothic, 1930

Aaron Copland, The Tender Land

Torino, Piccolo Regio Giacomo Puccini, 4 maggio 2024

La fanciulla del Midwest

Contemporaneamente al Farwest pucciniano, il Teatro Regio di Torino mette in scena il Midwest americano con The Tender Land di Aaron Copland (1900-1990), opera commissionata dalla Lega dei Compositori della NBC nel 1953. Sarà praticamente l’unico esemplare lirico del compositore americano noto per le musiche dei balletti Rodeo, Billy the Kid e Appalachian Spring, le danze sinfoniche El salón Mexico, colonne sonore di film, ma anche autore di tre sinfonie, musica da camera e vocale.

Il soggetto viene tratto da Let Us Now Praise Famous Men di James Agee, un libro-reportage del 1941 con fotografie di Walter Evans che ritraevano la povertà rurale di famiglie di mezzadri dell’Alabama durante la grande crisi. I proprietari terrieri avevano avvertito i contadini che avrebbero ospitato i due forestieri Agee ed Evans: «presi l’idea di base del libretto da quel libro: due uomini che vengono dal mondo esterno e invadono la vita di una famiglia di provincia. I due uomini diventarono così braccianti migranti. Esaminai attentamente le fotografie del libro fra le quali mi colpirono le facce di una madre che sembrava passiva e pietrificata e di una figlia non ancora indurita da una vita di stenti. Quale effetto avrebbe avuto l’impatto dei due forestieri e delle loro vite? La risposta a questa domanda divenne il mio soggetto», dirà Copland in una intervista. La stesura del libretto viene affidata a Horace Everett, pseudonimo di Erik Johns, che sposta l’azione dal profondo sud al Midwest, come il Kansas della fattoria di Dorothy del Mago di Oz.

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

L’opera è ambientata nel Midwest degli Stati Uniti negli anni Trenta in primavera, all’epoca del raccolto, presso una famiglia di contadini formata da Ma Moss, madre di Laurie, la figlia maggiore, e di Beth, la figlia minore, più il nonno Grandpa Moss.

Atto I. Laurie sta per laurearsi. Mr. Splinters, il postino, arriva per consegnare il pacco con l’abito per la laurea. Racconta anche che la figlia del vicino è stata spaventata da due sconosciuti che si aggirano in zona. Due vagabondi, Top e Martin, arrivano in cerca di lavoro. Grandpa Moss accetta di assumerli per il raccolto. Tra Laurie e Martin nasce subito una simpatia reciproca. 
Atto II. La festa di laurea è in corso. Ma Moss sospetta che Top e Martin siano i due sconosciuti che stanno causando problemi in zona e chiede a Mr. Splinters di chiamare lo sceriffo. Laurie e Martin si baciano. Nel frattempo arriva lo sceriffo con la notizia che i due sconosciuti sono stati catturati. Nonostante questo, Grandpa Moss dice ai ragazzi che devono andarsene la mattina successiva. 
Atto III. Durante la notte, Laurie e Martin sognano di fuggire insieme. Ma Martin capisce che questa vita girovaga non fa per la ragazza e si allontana furtivamente con Top. Quando Laurie scopre di essere stata abbandonata, decide comunque di andare via di casa. Ma Moss e Beth cercano di farle cambiare idea senza riuscirci. Laurie se ne va, e Beth resta sola davanti alla casa a giocare come faceva all’inizio.

The Tender Land non fu accettata dalla NBC proprio mentre Copland era sotto inchiesta dalla Commissione McCarthy per “attività antiamericane” perché appartenente all’American Committee for Democracy and Intellectual Freedom e per aver parlato al Cultural and Scientific Conference for World Peace. L’opera non andò quindi in televisione ma fu messa in scena alla New York City Opera il 1° aprile 1954 diretta da Thomas Schippers. L’atmosfera opprimente del maccartismo di quel periodo si riflette nella figura di Grandpa Moss che continua a ripetere che i due giovani sono «Dirty strangers. Dogs! No good dirty bums!» (Sozzi stranieri. Cani. Sporchi barboni buoni a nulla) e anche quando vengono scagionati dall’accusa di aver molestato delle ragazze, per lui «They’re guilty all the same. | I won’t have ‘em on my place» (Sono colpevoli lo stesso. Non li voglio qui). Non stupisce quindi la voglia di emancipazione di Laurie e la sua fuga da casa.

L’opera fu accolta freddamente dalla critica per le ingenuità del libretto e la mancanza di melodie nella musica. «Le successive riprese, nonostante considerevoli, ripetute revisioni, non ebbero un esito molto migliore. Oltre alla debolezza del libretto, per di più imperniato su una tradizione familiare rurale molto datata (praticamente scomparsa dopo la seconda guerra mondiale), si imputa alla partitura una certa rigida ripetizione di temi popolari che già figurano nei balletti del compositore. In effetti Tender Land si può considerare un tentativo non del tutto convinto e quindi solo in parte riuscito: la staticità della struttura sociale rappresentata sembra condizionare anche il tessuto musicale, provocando una certa monotonia. Solo col progredire dell’azione, nel corso della quale prendono il sopravvento le figure e i modi più sciolti e liberi dei due vagabondi, e in particolare di Martin, anche la musica, come la psicologia dei personaggi, si apre, facendosi più ariosa e appassionata» scrive Francesco Cavallone. La scrittura di Copland è quella di un canto di conversazione abbastanza monotono che diventa più lirico nel quintetto con cui termina il primo atto «The promise of living», la pagina più pregevole. Gradevole è anche il duetto d’amore del secondo atto da cui deriva il titolo dell’opera: «The plains so green, | the tender land, | where we begin, | to understand». L’impegno ad americanizzare il modello operistico tradizionale lo porta a non utilizzare i numeri chiusi e a inserire temi popolari filtrati però da una cultura molto europea – Copland era stato infatti allievo di Nadia Boulanger. Meno evidente qui è l’influenza del jazz, che troviamo invece in altri suoi lavori. Insomma, la commissione soffre di un certo accademismo che non riesce a far decollare e rendere più popolare questa “piccola storia americana”.

La ricca orchestrazione richiesta dalla commissione della NBC è un po’ esagerata per la semplice e intima vicenda e per questa prima nazionale al Piccolo Regio Giacomo Puccini di Torino è stata utilizzata una revisione per orchestra ridotta a tredici soli elementi, dieci archi e tre fiati, la stessa della versione originale di Appalachian Spring, che Alessandro Palumbo concerta con dedizione ma senza troppe variazioni di colori. Sul palcoscenico molti degli ormai più che affermati allievi del Regio Ensemble: Irina Bogdanova (Laurie); Tyler Zimmermann (Grandpa Moss); Ksenia Khubunova (Ma Moss) e Andres Cascante (Top) a cui si uniscono Michael Butler (Martin), Valentino Buzza (Mr Splinter) e altri validi comprimari.

L’allestimento di Paolo Vettori esalta l’intimità – per non dire claustrofobia – della storia, ambientandola in una scatola chiusa, disegnata da Claudia Boasso, sulla cui parete di fondo si aprono finestrelle per i ritratti dei vecchi antenati o dei singoli coristi nella scena della festa per il diploma di Laurie. Unico richiamo alla natura è un grande albero rosso proiettato sul fondo, forse l’albero genealogico dei Moss su cui la ribelle Laurie innesterà un nuovo ramo?

Con i costumi di Laura Viglione e le luci di Gianni Bertoli viene realizzato uno spettacolo visivamente piacevole e applaudito dal pubblico.


Stagione Sinfonica RAI

Igor’ Stravinskij, Symphony in three movements 

I. [primo movimento]
II. Andante – Interludio
III. Con moto

John Adams, Doctor Atomic Symphony

I. The Laboratory
II. Panic
III. Trinity

Leonard Bernstein, Symphony nr.2: The Age of Anxiety per pianoforte e orchestra

First Part. a) The Prologue. b) The Seven Ages. c) The Seven Stages
Second Part. a) The Dirge. b) The Masque. c) The Epilogue

Robert Treviño direttore, Yulianna Avdeeva pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 2 maggio 2024

Tutto incentrato sulla Seconda Guerra Mondiale il programma impaginato da Robert Treviño per il 19° concerto della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI. Il primo brano è la Sinfonia in tre movimenti che Stravinskij scrisse negli anni di guerra e che ebbe la sua prima esecuzione il 26 gennaio 1946 quando il compositore stesso la diresse alla testa della New York Philharmonic. Non una musica a programma questa “sinfonia di guerra”, ma testimonianza della reazione agli eventi bellici visti dalla lontana California. Una pagina che nella sua frammentarietà riflette bene il turbine di sensazioni difficilmente esprimibili. Iniziata nel 1942, nel suo primo tempo senza titolo e senza indicazioni di tempo Stravinskij aveva pensato inizialmente a un concerto per pianoforte e orchestra ispirato dalla visione di un film documentario sulla tattica della terra bruciata in Cina contro l’invasione giapponese, con una parte centrale su un tessuto sinfonico scabro e ritmicamente impetuoso. Anche la seconda parte, che risale al 1943, è collegata a un film, quello che Henry King stava ricavando da Il canto di Bernadette di Franz Werfel sulle supposte apparizioni della Madonna a Lourdes. Naufragata la collaborazione con la produzione cinematografica, del progetto sopravvisse la cantabilità dell’andante affidato all’arpa, momento che doveva accompagnare la scena dell’apparizione della Vergine alla pastorella. I caratteri del periodo classico di Stravinskij, la politonalità e secchezza ritmica, lo stile sarcastico, il contrasto degli stili si ritrovano nel terzo movimento che inizia senza soluzione di continuità tramite un interludio. Con i suoi temi bellici, il compositore reagiva così «reazione ai cinegiornali e documentari sui soldati che marciavano al passo dell’oca». Sulla musica della Sinfonia sono stati creati due balletti, nel 1963 da Hans von Manen, e nel 1972 da Balanchine.

L’orchestra RAI sotto la guida esperta di Treviño fornisce come sempre ottima prova della sua precisione nella complessa struttura musicale del lavoro, ma il meglio ha da venire nel brano che segue, il movimento sinfonico in tre parti tratto da John Adams dalla sua opera Doctor Atomic del 2005. Storia del progetto di Los Alamos che portò alla costruzione della prima bomba atomica – che avrebbe comportato la distruzione delle città giapponesi di Hiroshima e Kawasaki e la conseguente fine della guerra – la vicenda nel libretto di Peter Sellars, che ne curò anche la regia, è centrata sulla figura del fisico Robert Oppenheimer che nella scena culminante con cui termina il primo atto prova i sensi di colpa di quanto ha fatto e si rivolge al Dio trino – “Trinity” era anche il nome in codice del test del 16 luglio 1945 nel deserto di Alamogordo – del sonetto Batter my Heart di John Donne (1572-1631). Il fisico è solo davanti all’ordigno e alla sua coscienza, la tromba imita la voce del baritono in una perorazione struggente interrotta dalle interiezioni dell’orchestra che nel finale assumono una forza catastrofica. Il lavoro era iniziato con un breve movimento in cui si alternano fortissimi caotici e desolati pianissimi, a cui si concatena il secondo movimento di febbrile concitazione il panico provocato dalla tempesta che con la sua elettrica sconvolge le installazioni e mette in pericolo l’esecuzione del test. Qui è il trombone a imitare la voce del Generale Groves nelle sue arringhe al personale che si alternano alle danze rituali dei nativi Tewa del New Mexico. La varietà di tempi e colori della mirabile partitura di Adams è messa in luce con tale passione de Treviño che il pubblico risponde con grande entusiasmo e con insistiti applausi per la tromba di Marco Braita protagonista del terzo movimento.

Nel 1944, a New York, sullo sfondo di un mondo cambiato e spaventoso, il più controverso poeta inglese dell’epoca iniziò a lavorare a un nuovo lungo lavoro. Alla sua pubblicazione, tre anni dopo, avrebbe ricevuto recensioni piuttosto contrastanti: mentre T.S. Eliot lo salutò come «il suo miglior lavoro fino ad oggi», il Times Literary Supplement lo considerò «il suo unico libro noioso, il suo unico fallimento». The Age of Anxiety: A Baroque Eclogue di Wystan Hugh Auden gli fece però vincere il premio Pulitzer e avrebbe ispirato una sinfonia e un balletto. La sinfonia sarebbe stata la Seconda di Leonard Bernstein e il balletto avrebbe visto la coreografia da Jerome Robbins nel 1950. All’inizio de L’età dell’ansia Auden mette in luce quattro bevitori solitari in un bar di New York in tempo di guerra: Malin, un aviatore canadese; Quant, un impiegato stanco del mondo; Rosetta, una profuga ebrea ed Emble, giovane recluta della marina. In sei sezioni – un prologo, una storia di vita, una ricerca di sogni, una nenia, un masque e un epilogo – essi meditano sulle loro vite, sulle loro speranze, sulle loro perdite e sulla condizione umana. In termini reali, parlano al bar, prendono un tavolo insieme, si ubriacano e tornano a casa di Rosetta barcollando. Lì bevono ancora finché i due uomini più anziani tornano a casa e il più giovane giura amore eterno a Rosetta prima però di crollare addormentato sul letto. Questo di Bernstein è un lavoro strutturato come un fitto dialogo tra orchestra e pianoforte, lo stile è eclettico e pieno di contrasti tra pieni e vuoti, ben resi da Treviño e da Yulianna Avdeedeva, artista a suo agio nel repertorio romantico – nel 2010 ha vinto il premio Chopin – così come in quello contemporaneo. Agli insistiti applausi la pianista russa ha risposto con un fuori programma inaspettato: dopo i tragici temi che sono stati oggetto dei tre pezzi precedenti, lei ha intonato in modo ineffabile una delle Danze delle bambole di Dmitrij Šostakovič che ha spiazzato il pubblico con il suo tono ironico e svagato. Forse il finale giusto a un programma di grande intensità emotiva.

Carmen

    

La locandina dello spettacolo

Georges Bizet, Carmen

Londra, Royal Opera House, 1 maggio 2024

★★★★☆

(diretta streaming)

La Carmen di Michieletto conquista Londra 

Nietzsche ne era stato folgorato e dalle brume wagneriane si era così convertito alla solarità mediterranea. Dopo aver assistito alla prima della Carmen il 27 novembre 1881 a Genova, era rimasto entusiasta di quello che avrebbe poi considerato il simbolo della nuova e vera musica. «Evviva! Amico! Di nuovo ho conosciuto qualcosa di bello, un’opera di François [sic] Bizet (chi è costui?)… Carmen. Sembrava di ascoltare una novella di Merimée, piena di spirito, intensa, talora anche toccante. Un autentico talento francese dell’opéra comique, niente affatto disorientato da Wagner, al contrario, il vero allievo di H. Berlioz. Non pensavo che qualcosa del genere fosse possibile!» scrive sull’onda di un entusiasmo che gli fa storpiare il  nome del compositore. È una conversione che arrivava dopo un periodo di “purificazione” dalle scorie soffocanti della musica romantica,  «quest’arte ambigua, tronfia e soffocante, che toglie allo spirito rigore e vivacità e fa proliferare ogni sorta di torbida nostalgia, di tumida brama», come aveva scritto per la prefazione al secondo volume di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi uscito nel 1879.

Nel 1888, ai tempi de Il caso Wagner, Nietzsche sarebbe stato ancora più drastico: «Per la ventesima volta ho ieri assistito al capolavoro di Bizet e l’ho udito ancora con la stessa reverenza. […] È malvagia, perversa, raffinata, fantastica, eppure avanza con passo leggero e composto; la sua raffinatezza non è quella di un individuo, bensì di una razza. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del “grande stile”. […] Io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità eccezionale, che prima di adesso non aveva trovato mezzo per esprimersi nella musica colta d’Europa; il coraggio di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole… Ah finalmente l’amore, l’amore ricondotto verso la natura!».

Nella sua lettura dell’opera più rappresentata al mondo nella scorsa stagione (fonte:  statistiche di OperaBase), Damiano Michieletto sembra volersi riferire proprio a quella meridionalità soffocante e arsa dal sole. Soffocante e arsa anche nei sentimenti, forti, violenti di una Spagna rurale postfranchista che non ha però il carattere gioioso e irriverente dei film di Pedro Almdodóvar, ma piuttosto quello neghittoso dei western di Sergio Leone o del balletto di Matthew Bourne The Car Man. Ad apertura di sipario la scena di Paolo Fantin ci mostra un assolato dehors con sedie di plastica e gente intorpidita dalla calura che passa il tempo a sventagliarsi e a guardare l’altra gente che passa. Un edifico di cui vediamo due pareti angolari ruota su sé stesso mostrando di volta in volta l’interno oppure l’esterno: nel primo atto è la stazione di polizia, nel secondo il night club di Lilas Pastia, nel terzo il magazzino dei contrabbandieri e nel quarto il camerino dei toreri. Una efficace soluzione già sperimentata nella sua produzione di Cavalleria e Pagliacci nove anni fa sempre qui al Covent Garden. I tocchi western sono dati dai tumblweeds (i cespugli rotolanti) e dai costumi da cowboy dei bambini nei loro giochi anche violenti quando i più grandicelli bullizzano i più piccoli. I bambini sono infatti protagonisti in questa produzione non solo perché richiesti nel primo e quarto atto, ma utilizzati anche negli entr’actes per indicare il passare del tempo: ogni bambino con una delle lettere che formano le frasi «Quelques mois plus tard», «La nuit suivante»… 

Michieletto utilizza in maniera mirabile la loro presenza, soprattutto nel primo atto, ma si sarebbe volentieri fatto a meno di loro nell’intermezzo all’atto terzo – che Bieito nella sua produzione aveva realizzato in maniera mirabile con il “bagno di Luna” del torero – e soprattutto prima del drammatico quarto atto dove il giochino delle lettere disordinate induce sì al sorriso ma distrae dalla tragedia imminente.

Un personaggio non previsto ma spesso evocato nel libretto è quello della madre di don José, che Michieletto introduce fisicamente in scena abbigliata nella sua luttuosa mantilla, quasi uscita da La casa di Bernarda Alba. È lei che mescola le carte, tra cui quella fatale della Morte, e che appare per «legare il figlio a sé, costringendolo a obbedire, dirottando la sua volontà e mantenendo un controllo su di lui. La sua forza si manifesta attraverso il personaggio di Micaëla e la tragedia finale si trasforma così in uno scontro metaforico tra due modelli femminili opposti», scrive il regista. Anche in questo caso le sue iterate apparizioni non sembrano così essenziali.

Nella scarna scenografia di Paolo Fantin una griglia con cento fari rende il sole accecante oppure la luce lunare,  ma nel finale si inclina per fare da sfondo all’ultimo teso incontro di Carmen e don José. Con i costumi come sempre appropriati di Carla Teti e il magnifico gioco luci di Alessandro Carletti, Damiano Michieletto costruisce uno spettacolo di grande suggestione teatrale e di attento lavoro attoriale dove i sub plot sono efficaci, come il rapimento di Zuniga da parte dei contrabbandieri e conseguente pagamento del riscatto. A parte le riserve espresse, ne viene fuori una pietra miliare nella drammaturgia del lavoro di Bizet che a Londra sostituisce il discusso allestimento di Barrie Kosky ed è facile prevedere che rimarrà per molti anni in scena. Si potrà comunque vedere alla Scala che l’ha coprodotto assieme al Real di Madrid.

Un altro italiano è artefice di questa felice produzione: alla guida dell’orchestra del teatro c’è infatti Antonello Manacorda che della preziosa partitura rende al meglio le preziosità strumentali e il travolgente senso teatrale, con dinamiche ben equilibrate, esaltate ma mai spinte all’eccesso. Suo è anche il merito di aver aperto qualche taglio soprattutto nel primo atto, e aver utilizzato la versione con i dialoghi parlati, seppure opportunamente accorciati.  Il cast è internazionale con  pochissimi cantanti di madrelingua francese, e si sente. I quattro interpreti principali provengono rispettivamente dalla Russia, Ucraina, Polonia e Lituania!

Il mezzosoprano Aigul Akhmetshina è una Carmen di splendida voce dal timbro caldo e sontuoso ma a suo agio negli acuti e di ottima dizione. Cantante di grande personalità, delinea una Carmen meno femme fatale del solito, ma pienamente credibile nella psicologia del personaggio, forte e fragile allo stesso tempo, una donna che non vuole rinunciare alla sua libertà di scelta in totale contrasto con la figura dimessa della fresca e lirica Micaëla del soprano Olga Kulchynska, cantante apprezzata nel repertorio belcantistico (Mozart, Bellini…) e russo.

Ritorna in una parte che ha già frequentato il tenore Piotr Beczała e il suo don José ha le qualità che conosciamo: magnifico timbro, grande proiezione, acuti luminosi e sotto la guida di Michieletto riesce ad essere anche scenicamente convincente. Le qualità sceniche compensano solo in parte la dizione eccepibile e il timbro morchioso del baritono Kostas Smoriginas, un Escamillo tutt’altro che memorabile. Molto ben caratterizzato è il quartetto formato da Frasquita, la canadese Sarah Dufresne; Mercédès, la lituana Gabrielė Kupšytė; il Dancairo, il belga Pierre Doyen,  e il Remendado, il francese Vincent Ordonneau. Ben definito il Moralès dell’armeno Grisha Martosyan, mentre non vocalmente a suo agio lo Zuniga del congolese Blaise Malabata. Magnifici i cori del teatro e quello di voci bianche.

La proiezione è avvenuta a Torino in una sala cinematografica dalla perfetta resa sonora ma resta inspiegabile come in  una città di quasi un milione di abitanti e migliaia di abbonati al teatro lirico, solo una dozzina di spettatori abbiano scelto –  in un giorno festivo! – di assistere all’avvenimento. Che tristezza.