Ludovic Halévy

La Périchole

  

Jacques Offenbach, La Périchole

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 15 novembre 2022

★★★★☆

Dopo un quarto di secolo si ricostituisce il team Minkowski/Pelly per Offenbach

Recensendo il DVD del 2004 de La Grande-duchesse de Gérolstein scrivevo: «Terza produzione offenbachiana della premiata ditta Minkowski & Pelly dopo Orphée aux enfers e La Belle Hélène, ci aspettiamo ora al­meno La Périchole fra le tante operette del Mozart degli Champs-Élysées che ancora mancano all’appello».

Molto tempo dopo, sulle tavole del Théâtre des Champs-Élysées si realizza quell’auspicio e si rinnova quel glorioso sodalizio – delle vere “nozze d’argento”, essendo passati 25 anni dal 1997 dell’Orphée – che ha visto Marc Minkowski alla direzione, Laurent Pelly alla regia e ai costumi, Agathe Mélinand ai dialoghi e Chantal Thomas alle scenografie.

Nel 1829 Prosper Mérimée aveva pubblicato su “La Revue de Paris” la pièce in un atto Le Carrosse du Saint-Sacrement ispirata a un personaggio reale, Micaela Villegas, un’attrice del XVIII secolo divenuta amante del viceré del Perù Don Maluel da cui si era fatta regalare una carrozza con cui andare in chiesa con grande scandalo dei benpensanti. Chiamata dal suo spasimante perra chola (cagna di meticcia), da cui il nome Périchole, divenne la protagonista dell’opéra-bouffe su testo di Ludovic Halévy e Henri Meilhac che Jacques Offenbach presentò il 6 ottobre del 1868 al Théâtre des Variétés di Parigi in una versione in due atti che divennero tre nella nuova versione del 25 aprile 1874. In entrambe le edizioni la protagonista fu Hortense Schneider.

Atto I. A Lima, il Viceré del Perù (Don Andrès) esce per intrattenersi in incognito, o per lo meno lo crede, con i suoi uomini che sono stati pagati per adularlo. Due cantanti di strada, La Périchole e il suo amante Piquillo, cercano invano di guadagnare il denaro necessario per sposarsi. Mentre Piquillo si allontana, La Périchole si addormenta per alleviare la fame. Il Viceré, affascinato dalla sua bellezza, le offre di essere la sua damigella d’onore. La Périchole non vulle farsi ingannare, ma in preda alla fame, accetta e scrive una lettera di addio a Piquillo. La lettera lo getta nella disperazione e vuole impiccarsi. Fortunatamente, viene salvato dal primo gentiluomo di corte che sta cercando un marito per la futura favorita del Viceré per mantenere le apparenze. Dopo essersi saziati e notevolmente ubriacati, Piquillo e La Périchole si sposano, senza che il giovane cantante si renda conto dell’identità della moglie.
Atto II. Il giorno dopo il matrimonio, smaltita la sbornia, Piquillo fa sapere alla “moglie” di amare un’altra donna, ma il galateo esige che prima presenti ufficialmente la sua sposa al Viceré. Quando scopre che La Périchole è diventata la sua amante e la sua favorita, scoppia in un’esplosione di rabbia, insulta il monarca e viene immediatamente mandato nella prigione per i mariti recalcitranti.
Atto III. Prima scena. La Périchole viene a visitare Piquillo in prigione. Dopo una scenata da parte di lui, la donna lo informa di non aver ceduto alle avance del Viceré. Il suo piano di fuga è semplice: corrompere il carceriere. Il carceriere si presenta, ma non è altro che il Viceré travestito, che fa rinchiudere insieme i due colpevoli. Ma un vecchio prigioniero permette loro di fuggire attraverso un tunnel che ha scavato. Nella seconda scena Piquillo e La Périchole si trovano in città, ma vengono individuati da una pattuglia. Al Viceré la Périchole e Piquillo cantano le loro disgrazie, commuovendo il monarca che, magnanimo, permette loro di vivere liberi e felici.

Con La Périchole Offenbach si allontana dal solco dell’opéra-bouffe fino a quel momento tracciato per affrontare il cammino che lo porterà ai Contes d’Hoffmann. Il compositore, che si era specializzato nel mettere la musica in burla, sa anche avvicinarsi alle rive del lirismo con una storia di amori contrastati dalla miseria e dal potere tiranno dove la malinconia tinge le inquietudini e i tormenti della Périchole e del suo amante Piquillo. Questo è il motivo per cui il pubblico dell’epoca rimase perplesso davanti a un lavoro che si avvicinava più all’opéra-comique che al turbine satirico de La Belle Hélène o de La vie parisienne. Quello del 1868 fu un mezzo fiasco: una donna ubriaca in scena e un matrimonio con entrambi gli sposi ubriachi furono gli elementi che indispettirono parte del pubblico e il successo di alcune pagine – furono particolarmente apprezzati i couplet «On sait aimer quand on est espagnol!» e la lettera firmata «La Périchole | qui t’aime mais qui n’en peut plus!…» – non bastarono a mantenere il lavoro in repertorio. Il contesto politico poi si era fatto particolarmente critico col conflitto franco-prussiano e solo dopo il 1870 Offenbach potè riprendere la sua operetta. La versione del 1874 si arricchiva di un atto, dei 19 numeri del 1868 cinque venivano eliminati, il primo atto rimaneva immutato, il secondo atto si concludeva con l’ensemble dei “maris récalcitrants”, il terzo comprendeva la scena della prigione che richiamava ironicamente l’analoga scena de L’Africaine di Meyerbeer qui arricchita dallo spassoso duetto di Miguel de Panatellas e Pedro de Hinoyosa e della lunga aria del tenore «Voilà donc le lit de l’honnête homme».

È questa la versione scelta da Minkowski e Pelly i quali separatamente hanno già affrontato il capolavoro offenbachiano: Minkowski nel 2018 in una registrazione a Bordeaux per Palazzetto Bru Zane e Pelly nel 2003 all’opera di Marsiglia. Ed è la terza produzione de La Périchole a Parigi quest’anno (!) dopo quella al Théâtre du Gymnase (Gossaert/Coudray) a gennaio e quella all’Opéra-Comique (Leroy/Lesort) a maggio.

Per questa nuova produzione Pelly ha sottolineato i due aspetti complementari di questo lavoro, quello comico/satirico e quello serio/drammatico: qui c’è una donna che si prostituisce per fame mentre un uomo abusa del suo potere. Il personaggio del viceré è sì burlesco, ma è pur sempre un predatore e l’ambientazione è ai giorni nostri poiché la figura del dittatore libidinoso non ha mai smesso di essere attuale. Nettamente distinte sono le ambientazioni dei vari quadri: la piazza della città, con la facciata di un condominio proletario e un immenso poster del faccione del viceré, c’è un chiosco di fast food e tavoli per la mescita di alcolici a buon mercato; il palazzo è tutto specchiere dorate, divani di velluto, donne in crinoline d’argento e uomini in polpe argentate; la prigione è una grande gabbia metallica che prende tutto il palcoscenico; nella scena finale il poster del viceré è danneggiato e coperto di scritte. La regia di Pelly è come sempre attentissima alla musica, con i movimenti che seguono i suoni con grande fluidità e una cura attoriale maniacale, dove ogni singolo personaggio in scena ha il suo ruolo in un meccanismo preciso. I dialoghi attualizzati dalla Mélinand rendono ancora più vivace e piccante la vicenda.

Alla testa dell’agile compagine dei Musiciens du Louvre formata da 37 eccellenti strumentisti, Marc Minkowski riprende la lettura leggera e trasparente che ha consegnato su disco. Cesellati sono i preludi strumentali, le dinamiche sono varie, i tempi lenti languorosi, quelli vivaci briosi ma senza eccesso, il volume sonoro quello previsto da Offenbach per le orchestre che aveva a disposizione mentre il diapason a 440 Hz fornisce un suono brillante. Le migliori condizioni per una compagnia di canto perfetta nei personaggi secondari, se secondario si può considerare il ruolo di Don Andrès de Ribeira, uno strepitoso e vocalmente autorevole Laurent Naouri che del viceré offre un ritratto completo, dai fremiti libidinosi, ai moti di dispetto per la sconfitta alla versione clemente del monarca che dona la libertà ai due giovani evasi – ma non al vecchio prigioniero il quale neanche più si ricorda perché è in galera ma è contento di ritornarci per continuare il suo decennale lavoro di scavo per evadere. Efficaci caratteristi sono Rodolphe Briand e Lionel Lhote, Comte Miguel de Panatellas e Don Pedro de Hinoyosas rispettivamente, così come le scatenate «trois cousines», e poi altezzose cortigiane, Chloé Briot, Alix Le Saux, Éléonore Pancrazi. Nei ruoli parlati del Marquis de Tarapote e del vecchio prigioniero si distingue l’attore Eddy Letexier. Salvatore Caputo dirige il sempre vivace e preciso coro dell’opera di Bordeaux.

Nella parte della Périchole si avvicendano Antoinette Dennefeld e Marina Viotti. Alla seconda recita è il turno della cantante francese. Il mezzosoprano strasburghese ha bella voce, anche se non grandissima, ottima presenza scenica ed elegante fraseggio, ma manca di quella verve che ci si aspetta da un personaggio talmente caratterizzato, così che sono i momenti lirici che convincono maggiormente rispetto a quelli più ironici. Lo stesso si può dire per il Piquillo di Stanislas de Barbeyrac, che per di più accusa qualche leggera difficoltà nel registro acuto e nelle agilità pur in una linea vocale di grande eleganza e simpatica presenza scenica. Il pubblico ha apprezzato e ha risposto con calorosi applausi. Ancora una volta, evviva Offenbach!

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Carmen

Georges Bizet, Carmen

Torino, Cortile dell’Arsenale, 21 giugno 2022

Carmen in formato tascabile nel cortile dell’Arsenale

Nell’ambito della 28ª edizione della Festa della Musica, il Teatro Regio di Torino porta en plein air le ultime produzioni della sua stagione, essendo inagibile la sala in cui si stanno ultimando i lavori di adeguamento e rinnovamento dell’impianto scenico.

Dopo Cavalleria rusticana, nel cortile dell’Arsenale va in scena Carmen, in una versione che la drammaturgia di Sebastian Schwarz, direttore artistico del teatro, riduce nei personaggi e nei numeri musicali come l’anno scorso era stato fatto con Madama Butterfly e prima ancora col Flauto Magico al Festival Mozart in piazza San Carlo. Se là un narratore impersonava Schikaneder per raccontare la storia e cucire i vari momenti musicali, qui è Yuri d’Agostino, un attore nei panni di un Georgs Bizet non a suo agio con la lingua francese, a presentare la sua ultima creazione – Bizet morirà infatti nel 1875 non ancora trentasettenne a tre mesi dalla prima – partendo dalla novella di Prosper Mérimée adattata a libretto da Henri Meilhac e Ludovic Halévy. L’impossibilità di portare nella sua integralità la versione originale di Carmen in uno spazio come questo, ha spinto per la realizzazione di un qualcosa di diverso, ossia proporre al pubblico un’illustrazione dell’opera secondo un intento quasi didattico: ecco allora una selezione delle arie più celebri introdotte dal suo autore nella sua casa di Bougival all’epoca della prima, poi ci si sposta agli inizi del Novecento e anche oltre: nella regia di Paolo Vettori nel finale saltano fuori i telefonini per i selfie con il cadavere di Carmen.

Il tutto avviene in uno spazio delimitato dalle semplici scenografie di Claudia Boasso: una parete di maxi azulejos con al centro lo stemma della città di Siviglia per i primi atti, pannelli con disegni di tauromachia per l’ultimo. Laura Viglione veste di nero il coro, mentre la protagonista del titolo ha pantaloni e maglietta a righe bianche e blu: l’abito rosso a balze che ci aspetteremmo resta sempre buttato su una sedia e anche la giacca del traje de luz del torero Escamillo gliela vedremo indossata solo nei saluti finali, questo a marcare la distanza da una lettura folcloristica di una vicenda di grande modernità in cui José rappresenta il maschio che non si arrende alla scelta di libertà della sua donna. Carmen rimane comunque debitamente uccisa nel finale, qui non ci sono gli stravolgimenti a cui abbiamo talora assistito. Il Bizet in scena aiuta a comprendere sia gli aspetti sociologici e psicologici della vicenda sia le particolarità musicali di una partitura quasi dimezzata, senza i dialoghi – né parlati come nella versione originale per l’Opéra-Comique, né cantati come nella versione per Vienna – e con i personaggi ridotti a quattro. Dopo l’ouverture, suonata come se uscisse da un disco posto sul grammofono, si ascolta subito il coro delle sigaraie, la Habanera di Carmen, il duetto di Don José con Micaëla e con la Seguidilla termina il primo atto. Anche nel secondo atto di otto numeri musicali ne rimangono quattro, essendo del tutto assenti Frasquita, Mercedes, il Dancairo, il Remendado e Zuniga. Nel terzo atto mancano gli ensemble e nel quarto il coro iniziale. Ridotto così all’essenziale il dramma di Carmen risalterebbe con ancor maggior forza se l’interprete protagonista avesse più carisma e più incisive qualità vocali, ma il mezzosoprano georgiano Ketevan Kemoklidze, anche se ha portato in scena il personaggio numerose volte, non riesce ad affascinare: la sensualità è affidata alle doti sceniche più che a quelle canore, con un registro basso poco sonoro e una proiezione vocale non delle migliori e ulteriormente penalizzata dalla non ottimale acustica dell’ambiente. Benedetta Torre è una Micaela sensibile che dà il meglio nel primo atto, mentre l’aria del terzo atto («Je dis que rien ne m’épouvante») ha un che di sfocato e irrisolto. Decisamente insufficiente la prova del giovane Zoltán Nagy, un Escamillo vocalmente sbiadito e senza personalità.

Vola a tutt’altra altezza invece Jean-François Borras, uno dei migliori frutti della scuola tenorile francese d’oggi. Il suo Don José sfoggia magnifico fraseggio, dizione (ovviamente) impeccabile e una presenza vocale non stentorea e gridata: la resa della romanza «La fleur que tu m’avais jetée» è memorabile per  eleganza e resa in maniera superlativa con i colori e le intenzioni giuste, tra le migliori mai sentite. E finalmente si ascolta il finale in pianissimo (c’è sì una doppia forcella sulla ai di «je t’aime» ma “sempre pp” prescrive la partitura, una sola p in meno dell’orchestra che suona ppp), sulla linea di un Vickers, certo non in quella di un Del Monaco che inseriva oltre all’acuto forte pure il singhiozzo. Così forse non si sollecitano i facili entusiasmi del pubblico, ma così l’ha scritto l’autore e così va cantata. Punto. Peccato che gli spettatori non l’abbiano capito, tributando la stessa dose di applausi indifferentemente ai quattro interpreti.

Sesto Quatrini dà una lettura all’insegna della sobrietà, molto trasparente, con tempi rilassati e volumi sonori contenuti. Forse non l’ideale per un’esecuzione all’aperto, ma ci ha risparmiato le atmosfere bandistiche e i colori rutilanti di certe esecuzioni. Comunque, non vediamo l’ora di ritornare a godere dell’opera al chiuso.

Die Fledermaus

Johann Strauss figlio, Die Fledermaus

★★★☆☆

bandieraitaliana1.gif   Qui la versione in italiano

Milan, Teatro alla Scala, 21 January 2018

Fledermaus debuts at La Scala but misses some sparkle

The Temple of Opera has opened its doors to operetta. For the first time the Teatro alla Scala is staging Johann Strauss’ Die Fledermaus, a work which launched a successful sequence of stageworks.

German language operetta was a genre that adjusted Offenbach’s and Suppé’s French works to the tastes of the Austro-Hungarian Empire. The perfect balance of panache and glamour, the melodic easiness, the stylish parody of opera seria models, the use of dances and popular themes were appreciated by Mahler himself who wanted to insert the work in the playbills of German theaters and personally directed it in Hamburg in 1894...

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La Belle Hélène

Jacques Offenbach, La Belle Hélène

★★☆☆☆

Amburgo, Staatsoper, 13 settembre 2014

(registrazione video)

Sesso, droga e rock ‘n’ roll sulla nave da crociera

La Belle Hélène registrata nel 2014 alla Staatsoper di Amburgo nell’allestimento Barbe & Doucet – Renaud Doucet regia e coreografie, André Barbe scene e costumi – è ambientata negli anni ’60 sulla nave da crociera “Jupiter Stator”. La trasposizione un secolo dopo rispetta comunque lo spirito satirico del lavoro di Offenbach che metteva alla berlina l’attualità del suo tempo, quello di Napoleone III, utilizzando il mito greco. Qui di greco c’è il mare su cui si avventura questa nave che promette scappatelle con vigorosi marinai alle matrone di Atene, dove i crocieristi si avventano sul buffet (le offerte dei sacrifici) sotto lo sguardo del capitano (Calcante, l’augure di Giove). Déi ed eroi ammiccano a personaggi di quegli anni (Achille sembra Elvis Presley nel suo outfit più dorato) mentre altre incursioni nella “nostra” modernità danno un tocco ancora più surreale alla vicenda: a un certo momento scenderà dal cielo Steve Jobs con le ali a immortalare una scena col suo iphone e nel finale Angela Merkel arriverà con una carriola piena di euro per ripianare i debiti della Grecia! Nel frattempo avremo visto in scena, a completare la famiglia degli Atridi, anche una temibile Elettra armata di ascia, ma nel coro si individuano tra gli altri Ifigenia, Clitennestra e Penelope con il figlio Tele Macho…

 

I costumi hanno le fogge e i colori sgargianti di quegli anni così spesso rimpianti e richiamati sulle scene teatrali di oggi e non mancheranno gli hippy a portare qualche spinello ai gaudenti crocieristi. Non tutte le scene sono convincenti, soprattutto quella del sogno non ha il carattere sognante e sensuale che aveva nella regia di Pelly e che qui fa ricorso a gag inutili come quella del bondage.

Tutti si divertono e divertono in questo bailamme condotto a passo di carica da Gerrit Prießnitz che non sembra perdere tempo in raffinatezze strumentali, nonostante la scelta di un’orchestra ridotta, ma si dimostra comunque efficace.

I cantanti hanno tutti buone qualità attoriali, mentre non si può dire lo stesso delle qualità vocali. Elena è Jennifer Larmore che non fa dimenticare il suo passato belcantistico, ma i mezzi sono un po’ usurati, i passaggi di registro bruschi e gli acuti sembrano provenire da un’altra gola. Tutto però è ampiamente compensato dalla sua presenza scenica. Paride è Jun-Sang Han, che sembra utilizzare un sistema di intonazione che non appartiene al nostro con effetti talora raccapriccianti. Il parlato è ampiamente utilizzato da Peter Galliard (Menelao) e Viktor Rud (Agamennone) per fuggire a evidenti difficoltà. Molto meglio Otto Katzameier (Calcante) e Rebecca Jo Loeb (Oreste). Nessun cantante è di lingua madre francese, e si sente.

La produzione è stata ripresa molto recentemente ancora con la Larmore, ma con un Paride diverso e un Oreste particolare: Max Emanuel Cenčić.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2009

(diretta streaming)

Emma Dante debutta nella lirica con una sanguigna e violenta Carmen al femminile

A distanza di pochi mesi due allestimenti della Carmen fanno a loro modo storia nel cammino interpretativo della rivoluzionaria opera di Bizet: a Barcellona Calixto Bieito ambienta la vicenda nella Spagna franchista, a Milano, per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, Emma Dante debutta nella lirica e lo fa con una vivissima carica di teatralità. Nella sua lettura Mérimée è trasferito in un cupo sud di epoca imprecisata, con le processioni, i riti religiosi e le superstizioni che permeano e scandiscono la vita del sud – qualunque sud.

Ma soprattutto, il suo è uno sguardo femminile: è la condizione della donna subordinata all’uomo quella che racconta la Dante. Fin da subito contrapposti sono il dinamismo femminile e il suo creare la vita (la ragazza incinta) con una maschile neghittosità (i tre che sonnecchiano a bocca aperta sventagliandosi). La vivacità in scena è resa dalle ragazze della Compagnia Sud Costa Occidentale fondata dieci anni prima dalla stessa regista. Le stesse ragazze insceneranno subito dopo una baruffa di inusitata violenza, una violenza fino a quel momento repressa. Gli uomini sono irrigiditi nelle uniformi e non sono nulla senza quei fucili che puntano a più riprese contro le donne senza mai usarli.

Nella scenografia di Richard Peduzzi gli alti muri di mattoni creano i soffocanti ambienti di un sud oppresso anche dal caldo. Non c’è luce solare in questa Carmen, l’ombra, la notte dominano su questo mondo arcaico. Anche la taverna di Lilas Pastia è un ambiente ipogeo – vi si scende con degli ascensori un po’ incongrui. Nel quarto atto la piazza dell’arena ha un alto muro ricoperto di ex-voto lasciati dai toreador e tra le facciate si insinuano strette aperture da cui José attende al varco la sua Carmen. Per tutta la profondità del palcoscenico oscilla in alto un grande turibolo che espande volute d’incenso in preparazione del consummatum est finale: l’elemento religioso è una presenza costante nello spettacolo della Dante. Le sigaraie si presentano come delle monache a rimarcare il loro ruolo di clausura e doppiamente gioioso diventa il loro liberarsene per rinfrescarsi con l’acqua della fontana. Micaëla non si muove senza la presenza di un prete e due chierichetti con una grande croce sbilenca: la ragazza è l’emblema stesso della religione della famiglia, non pensa altro che al matrimonio e sotto alla nera mantella veste l’abito da sposa. Lei è la mamma stessa, che impersonerà infatti morente nel letto nel suo ultimo incontro con José.

Sono presenti fin all’inizio delle prefiche che vedremo nel finale sorreggere il cadavere di Carmen mentre passa un nero funerale. Ma il momento che ha fatto fremere le care salme nel pubblico è quello in cui nel terzo atto José, sparando a Escamillo, colpisce invece il Cristo sulla croce e lo manda in frantumi: non un rigurgito anticlericale, come qualcuno ha avventatamente proposto, ma l’evidente rappresentazione di «quel particolare momento [che] significa per José la fine di ogni equilibrio tra la sua natura di represso, la sua educazione in seminario, il suo trasgredire alle regole». Da probo soldato, a disertore, a contrabbandiere, ad assassino. E «il duello ce lo presenta debole e vile – un duello da brivido, Escamillo a mani nude che domina a ogni istante, atterra José ripetutamente e l’ultima volta farebbe per andarsene sprezzante, ma lui l’assale alle spalle» scrive ancora Elvio Giudici (L’Ottocento, volume primo).

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Dopo tante Carmen questa risulta quasi una novità, non solo perché la versione è quella della edizione critica curata da Robert Didion, quasi completa (tre ore di musica) e con i dialoghi parlati, seppure accorciati, ma perché Barenboim – che dirige a memoria con una gestualità molto originale – lascia la sua impronta nella concertazione. Nella sua direzione manca forse la sensualità, prevalendo la cura del particolare strumentale e la trasparenza sonora, ma i colori sono magistralmente evidenziati, elemento determinante in una partitura come quella di Bizet. Un’abile gestione dei tempi, generalmente larghi, e dei volumi sonori porta a una Carmen altamente drammatica che va dai pianissimi dell’introduzione a «La fleur» ai ritmi in crescendo parossistico della “chanson bohème”.

Nel cast si ha la rivelazione del mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili, venticinquenne uscita dalla scuola della Scala, che prende in carico la parte di Carmen con una padronanza vocale stupefacente e una già matura presenza scenica che non trascende mai in volgarità, cosa non rara nella rappresentazione della «femme dangereuse», come la definisce Micaëla. La Dante fa di Carmen la figura dominante su un José bamboccione indeciso che conosce solo la violenza con le donne: prima è lei che lo domina, alla fine quando lui cerca di possederla con violenza, basta che lei lo guardi negli occhi perché il coraggio gli venga a mancare. E sarà lei infatti a dargli la navaja con cui verrà ammazzata.

Perfetto attorialmente è Jonas Kaufmann, assecondando perfettamente la psicologia del personaggio imposto dalla regia. Che poi vocalmente il risultato superi ogni più ottimistica previsione non è scontato, e il suo don José rimarrà un ruolo di riferimento per molto tempo per luminosità del registro acuto, ma soprattutto per la dolcezza delle mezze voci e per la sensibilità dell’espressione.

Delusione per gli altri due personaggi: Adriana Damato è una Micaëla con problemi di tecnica e dalla gestualità goffa; Erwin Schrott è l’Escamillo ideale per presenza scenica – e lo è più di qualunque altro – ma esordisce stonando nei suoi couplets e anche in seguito manca di musicalità. Una serata non ben riuscita la sua. Adriana Kučerová e Michèle Losier sono due efficaci Mercédès e Frasquita, la prima svettante con i suoi acuti negli ensemble; Francis Dudziak e Rodolphe Briand sono il Dancaire e il Remendado; Mathias Hausmann è un buon Moralès; quasi inascoltabile lo Zuniga di Gábor Bretz.

Emma Dante restituisce forza e scandalo all’opera di Bizet com’è giusto che sia, ma ovviamente la mancanza della Spagna da cartolina e gli accenni agli elementi cattolici indispettiscono il loggione e parte della platea che contestano rumorosamente la regia alla fine dopo le acclamazioni per i due protagonisti principali e il direttore. Cose che succedono. Soprattutto alla Prima della Scala.

Carmen

foto Edoardo Piva © Teatro Regio

Georges Bizet, Carmen

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 18 dicembre 2019

Carmen al tempo del Franchismo

La stagione lirica del Regio prosegue con un titolo sicuro come Carmen, una delle opere più rappresentate al mondo, che ritorna a Torino per la terza volta in sette anniin tre produzioni differenti. Proveniente dalla stagione 2005 del Teatro Lirico, allora spettacolo insignito del Premio Abbiati, l’allestimento è stato reso possibile anche grazie all’aiuto finanziario dell’associazione Amici del Regio.

Nulla spiega la necessità di riproporre ancora una volta e a breve distanza di tempo questo titolo se non la speranza di attirare in teatro più pubblico nuovo oltre a quello consueto. Di certo non quella di aver trovato gli interpreti d’eccezione, perché i cantanti in scena sono più che decorosi, ma non entusiasmano. Il mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan lascia i ruoli en travesti del repertorio belcantistico (Arsace nella Semiramide del ROF questa estate, Malcon ne La donna del lago del 2016 ecc.) e si conferma una valida presenza vocale, ma come Carmen non ha quella sensualità che ci si aspetterebbe e seppure corretti non ci sono momenti memorabili nella sua performance: certo non la habanera né la seguidilla, forse meglio il terzetto delle carte a cui presta il colore scuro del suo timbro. Anche il don José di Andrea Carè è efficace, ma avaro di sfumature. Bello lo slancio lirico della Micaëla di Marta Torbidoni, ma c’è un po’ troppo vibrato nella voce. Vocalmente gagliardo e scenicamente autorevole l’Escamillo di Lucas Meachem. Giusto l’apporto del cast nei ruoli secondari però la dizione del francese non sempre risulta impeccabile.

Il giovane Giacomo Sagripanti fornisce una lettura brillante e senza eccessi melodrammatici della partitura ed è validamente assecondato dagli strumentisti dell’orchestra del teatro. Ottimi come sempre i due cori, quello del Regio e quello di voci bianche. La sacrosanta scelta della versione con i dialoghi parlati si scontra con la capacità attoriale dei cantanti, non sempre ineccepibile, e con la lunghezza dello spettacolo, che con tre intervalli raggiunge le quattro ore.

Il regista Stephen Medcalf situa la vicenda nel primo periodo franchista e il grido di libertà di Carmen assume qui un valore ben più forte, ma  a parte ciò non si può dire che la personalità dei personaggi sia stata oggetto di uno scavo profondo – ma la colpa è soprattutto dei librettisti. La presenza dell’esercito e della Guardia Civil è sempre cospicua e contagia anche i bambini in rigida formazione militare. Il regista è molto fedele al libretto così che Micaëla ha la treccia bionda di prammatica («jupe bleu et natte tombante»), i cocci di un piatto sostituiscono le nacchere (questo nella novella di Mérimée) e il corteo di Escamillo ha le fiaccole citate nel testo («Une promenade aux flambeaux!»). L’attualizzazione dell’ambientazione permette di introdurre nella scena dei contrabbandieri un aereo che atterra in una pista delimitata da bidoni di benzina, ma per il resto le scenografie di Jamie Vartan sono evocative ed efficaci nella loro semplicità. Meno convincente il finale: Carmen cerca di scappare da don José che le corre dietro e la uccide non visto dal pubblico. Il delitto diventa visibile quando uno dei pannelli che suggeriscono le mura dell’arena scorre di lato mostrando la folla festante del dopo corrida che continua a inneggiare verso il fondo anche quando Escamillo entra in scena mentre i militari si voltano a guardare inebetiti il cadavere e l’assassino.

Orphée aux Enfers

Jacques Offenbach, Orphée aux Enfers

★★★★★

Salisburgo, Haus für Mozart, 17 agosto 2019

(video streaming)

Offenbach à la Kosky: a fabulous nonsense

Nel bicentenario della sua nascita – nessun teatro italiano se ne è ricordato! (1) – il “Mozart des Champs-Élysées” arriva alla Haus für Mozart con una produzione del suo Orphée aux Enfers che più oltraggiosamente divertente non potrebbe essere. Basti dire che la messa in scena è affidata a Barrie Kosky, da chi cioè ha fatto rivivere l’operetta alla Komische Oper di Berlino. Dalle sue esilaranti regie ci si aspetta di tutto e in effetti le attese non sono andate deluse deluse, tanto che c’è anche chi ha gridato all’oltraggio. Oltraggio di Offenbach e del suo lavoro più impertinente! Mah…

Tradizionale non poteva certo esserlo (ma tradizionale Orphée aux Enfers come può esserlo?) e Kosky costruisce il suo spettacolo in maniera imprevedibile, o meglio prevedibile se pensiamo al personaggio che è il regista australiano. D’altronde, come ricreare lo scandalo di quella prima ai Bouffes Parisiens il 21 ottobre 1858, con la borghesia parigina che si vedeva spiattellata in faccia la propria ipocrisia e la critica che si sgolava a stroncare il lavoro per aver infangato la più aulica delle opere liriche (il mito di Orfeo riletto da Gluck) con tanto di citazione testuale e musicale («On m’a ravi mon Euridyce» si lamenta Orphée, e le dee aggiungono «Rien égale son tourment»). Il tutto fece sì da richiamare un pubblico talmente numeroso da portare a ben 228 le repliche –  interrotte solo dall’esaurimento fisico degli interpreti.

Come si sa, il problema di Offenbach, e dell’operetta in genere, sono le parti recitate: non sempre i grandi cantanti sono anche bravi attori. Kosky trova la soluzione gordianamente, togliendo cioè le parti recitate dalla bocca degli interpreti e incaricando un attore (un Max Hopp di stupefacente bravura) di dire in tedesco le battute dei vari personaggi, che quindi recitano in una surreale e straniante sincronizzazione labiale che ricorda i numeri delle drag queen che cantano Cher o Liza. L’attore tedesco, che inserisce anche tutta una serie di esilaranti rumori di scena, diventa così una specie di ventriloquo di tutti i personaggi. Hopp è anche l’interprete di Styx, il mesto ex re di Beozia che ha perso tutto e che è costretto a fare il servo.

Dopo aver detto che i numeri musicali sono cantati in francese e che, per buona misura, la tirata iniziale dell’Opinion Publique è recitata da Sophie von Otter in svedese, la sua lingua madre, non resta che arrendersi alle continue invenzioni del regista e a prepararsi a una serata esilarante che comprende anche un momento da salon musical quando la stessa Sophie von Otter non rinuncia ad esibirsi davanti al sipario in una lirica di Offenbach prima della scena infernale. Lo spettacolo era partito con il balletto irresistibile (coreografie di Otto Pichler) delle api di Aristée, il pastore sotto le cui spoglie si cela il dio degli inferi in persona che intende sedurre la bella Eurydice, sposa annoiata dal violino del marito Orphée, il quale a sua volta sarebbe ben contento di sbarazzarsi della dolce metà se non ci fosse il problema dell’Opinion Publique che deve salvare a tutti i costi le apparenze secondo la morale borghese.

Impeccabile la scenografia di Rufus Didwiszus che ricrea il cabaret, anzi il Kabarett dell’epoca di Weimar, con gli sfrontati costumi di Victoria Behr e maquillage quasi espressionistici. Non mancano momenti di sorprendente visualità quali l’Olimpo con quei lampadari che scendono dall’alto sui numi addormentati (e qui il loro moto rotatorio ricorda la mirabile scena del Saul di Glyndebourne dello stesso Kosky) o l’Inferno con l’enorme diavolo in monociclo. Il finale con il “galop infernal”, da allora il cancan per antonomasia, conclude lo spettacolo, ma qui un ballerino continua nei suoi salti e nelle rabbiose spaccate come un burattino impazzito. Un momento quasi inquietante che ci ricorda l’Offenbach quale demolitore dell’ipocrisia della società parigina del Secondo Impero, ruolo messo in evidenza da Theodor Adorno e Siegfried Kracauer, al quale sembra riferirsi Kosky nella sua “oltraggiosa” messa in scena.

In una produzione come questa la priorità è data ad interpreti che siano soprattutto agili attori e qui lo sono tutti. Poi, chi più chi meno, c’è chi dimostra una vocalità magari non sopraffina ma efficace in questa lettura che guarda alla prima storica ai Bouffes Parisiens dove i cantanti non erano certo il meglio disponibile allora e alcuni venivano menzionati solo col nome (Léonce, Désiré, Floquet, Jean-Paul…). Qui comunque abbiamo una Eurydice di tutto rispetto, il soprano coloratura americano Kathryn Lewek, che esibisce con eguale confidenza acuti sicuri e forme generose, queste ultime orgogliosamente mostrate in barba all’odioso body shaming che è puntualmente seguito. Orphée è lo spiritoso Joel Prieto, un violinista in frac e capello lungo ossessionato dal suo strumento. Spesso sopra le righe lo “Jupin” di Martin Winkler, mentre più efficace è l’Aristée/Pluton di Marcel Beekman. Nel folto elenco dei comprimari ricordiamo almeno Lea Desandre (Vénus), Nadine Weissmann (Cupidon) e Vasilisa Beržanskaia (Diane). A capo di quel gioiello che sono i Wiener Philharmoniker, Enrique Mazzola dipana con mano esperta e grande verve le note della partitura e concerta con abilità il pandemonio vocale in scena. La versione è ovviamente quella del 1874. Divertito e divertente l’apporto del coro Vocalconsort Berlin.

Dopo aver conquistato la collina di Bayreuth con i suoi Meistersinger, Kosky può vantarsi di aver espugnato anche la rocca salisburghese.

(1) Solo il Festival di Martina Franca ha fatto eccezione mettendo in scena il suo Coscoletto.

Orphée aux Enfers

Jacques Offenbach, Orphée aux Enfers

★★★☆☆

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 14 luglio 2009

(registrazione video)

Orfeo in Provenza

La sorniona ouverture in stile settecentesco, compresa di fugato, non fa presagire quello che si vedrà in scena: un’occhialuta e severa Opinion Publique entra a mettere in guardia le coppie dalle rispettive scappatelle. La prima scena, quella pastorale, è omessa in questa produzione del Festival di Aix-en-Provence del 2009 e l’intervento dell’Opinion Publique, taccuino in mano per prendere appunti, è quasi solo parlato. I dialoghi sono riscritti da Marion Bernède e la versione è quella del 1858 con quattro prestiti da quella del 1874: il rondeau di Mercurio, l’aria in prosa di Plutone, i “couplets des regrets” e quelli dei baci.

Il regista Yves Beausnesne idea un’ingenua ma efficace messa in scena, magari di gusto un po’ passato. L’ambiente borghese in stile provenzale si adatta al genius loci: barattoli di miele, sacchetti di lavanda per profumare i cassetti, mobili rustici. Euridice non viene punta da una serpe ma avvelenata dal marito che sparge una polverina sulle gaufre appena fatte. Nei quattro quadri in cui è suddivisa l’opera si passa dalla cucina, alla sala da pranzo, alla camera da letto, alla soffitta della casa borghese di Giove. Che poi il pastore Aristeo entri in scena sui pattini a rotelle e Mercurio in bicicletta non stupisce più di tanto.

L’Orchestra Camerata Salzburg ha momenti di leggero sbando, ma Alain Altinoglu riesce a rimetterla in carreggiata e imporre il suo ritmo elettrizzante senza però mettere in imbarazzo il giovane cast, di un livello che non ci si aspetterebbe da un Festival blasonato come quello di Aix. Non tanto per il coro, che fa del suo meglio, quanto per i singoli interpreti. Neanche l’Orphée di Julien Behr fa supporre la carriera che farà il giovane tenore. Tra tutti si distaccano soltanto l’Aristée-Pluton di Mathias Vidal, già allora vocalmente pienamente maturo e con una vivace presenza scenica, e l’esilarante e incontenibile John Styx di Jérôme Billy che dimostra un notevole talento comico ritagliandosi un irresistibile siparietto, come fa comunemente il carceriere del Fledermaus. Nel reparto femminile si fa notare il malizioso Cupido di Emmanuelle de Negri.

Carmen

Georges Bizet, Carmen

★★☆☆☆

Londra, Royal Opera House, 2 luglio 2019

(video streaming)

Kosky è originale come sempre, ma la sua Carmen decostruita non convince

3 ore e mezza? Sì, tanto dura la Carmen messa in scena da Barrie Kosky all’Opera di Francoforte nel 2017 e ripresa ora alla Royal Opera House, un’ora più del normale. Senza i dialoghi parlati né i recitativi musicati da Guiraud, qui una voce fuori scena, probabilmente quella di Carmen, lega i vari numeri musicali talora estesi o in due edizioni diverse, come la habanera eseguita nella consueta versione e di seguito in quella originale poi scartata da Bizet. Inizialmente erano stati proposti anche i couplet cantati da Moralès nel primo atto, poi cassati nel corso delle riprese londinesi. I testi parlati sono tratti dalla novella di Mérimée o dalle didascalie del libretto di Meilhac e Halévy e superano in durata i dialoghi tagliati. Talora quasi imbarazzanti sono i momenti in cui la cantante che interpreta Carmen rimane ferma e muta in primo piano cercando l’espressione giusta a quanto viene detto dalla voce recitante.

Che la Carmen non fosse un pezzo di finto folclore iberico lo si era capito da tempo grazie anche a Calixto Bieito e alla sua memorabile versione. Ma Kosky va molto oltre e ci vuole convincere che Carmen sia un musical in cui la vicenda è mero pretesto per balletti vivacissimi. Tutta l’azione si svolge infatti su una ripidissima scalinata: Broadway si mescola con Weimar, il musical americano col cabaret tedesco e nelle coreografie di Otto Pichler, affidate a sei scatenati ballerini, il flamenco si affianca al charleston, il tango allo “strike-a-pose” di Madonna alle lezioni di aerobica.

Carmen appare prima in costume da torero rosa poi come un gorilla – richiamo sottile ma inutile al costume di una delle Kit Kat Klub girls nel film di Bob Fosse? – da cui si spoglia per rimanere in pantaloni, camicia bianca e cravatta come Marlene Dietrich, e poi nel finale con un sontuoso strascico che occupa l’intera scalinata e a cui si aggrappa inutilmente Don José per trattenerla.

Non c’è momento che non sia visivamente sorprendente, ma diventa difficile giudicare la performance musicale in tale mancanza di coerenza drammatica: non ci sono personaggi, solo dei cantanti “aria-producers”. La Carmen di Aigul Akhmetshina è corretta ma niente più. Irriconoscibile invece Bryan Hymel, Don José lagnoso e legnoso, dalla intonaziona incerta. Ci auguriamo che si sia trattato di una serata negativa. Del tutto fuori parte Luca Pisaroni come Escamillo, pesante e senza verve. Non vanno meglio gli interpreti delle parti secondarie. Kristina Mkhitaryan si rivela la migliore, una Micaëla tenera ma non sdolcinata, di bella voce e fine espressività. Julia Jones si affida al mestiere per leggere la partitura correttamente senza particolari bellurie. Ma che ingrato compito il suo doversi interrompere ogni volta!

Nel finale dopo che Carmen è stata colpita a morte la donna si rialza e allarga le braccia verso il pubblico nel gesto di dire «Visto? Era tutta una finzione!». Ce n’eravamo accorti.

 

Barbe-Bleu

Jacques Offenbach, Barbe-Bleu

★★★★☆

Lione, Opéra Nouvel, 21 giugno 2019

Laurent Pelly conferma la sua affinità col teatro di Offenbach

Quest’anno si festeggiano 200 anni dalla nascita di Jacques Offenbach e ovunque nel mondo si mettono in scena i suoi lavori, con I racconti di Hoffmann in prima linea. Ci saranno infatti rappresentazioni in Argentina, Austria, Belgio, Cina, Corea del Sud, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Perù, Regno Unito, Repubblica Ceca, Russia, Slovacchia, Stati Uniti, Svezia, Svizzera e ovviamente Francia. Nell’elenco mancano i teatri italiani. Solo Martina Franca presenta due atti unici, Coscoletto e Robinson Crusoe, nel suo Festival della Valle d’Itria.

Nel 1866 con Barbe-Bleu Offenbach confermava il successo ottenuto due anni prima con La belle Hélène: stessi librettisti, la premiata ditta Meilhac & Halévy, stessa interprete femminile, quella Hortense Schneider che aveva debuttato a Parigi proprio con uno dei primi lavori di Offenbach, Le violoneux. Il libretto toccava argomenti scottanti, non solo per l’epoca: un tiranno stupido, un erotomane serial killer, una ragazza dalla libido scatenata, cinici cortigiani. Ancora una volta si faceva la parodia del passato – qui a farne le spese era il celebre racconto di Perrault – per strizzare l’occhio al presente e attirare al Théâtre des Variétés il pubblico parigino avido di divertimento, soprattutto se condito con qualcosa di salace. E il Barbe-Bleu aveva tutti gli ingredienti per risultare un trionfo popolare, come infatti fu. Pochi mesi dopo sarebbe stata la volta di La vie parisienne a consacrare definitivamente il compositore di Colonia come “le Mozart des Champs-Élysées”.

Laurent Pelly ha una lunga frequentazione col teatro di Offenbach, essendo questo il suo undicesimo allestimento: dal mitico Orphée aux Enfers del 1997 dell’Opéra de Lyon, va in scena ancora una volta in questo stesso teatro una sua opéra bouffe. Lo spettacolo ha quindi qualcosa di rassicurante routine. Manca la lettura sulfurea con cui il regista Stefan Herheim aveva fatto scalpore alla Komische Oper di Berlino l’anno scorso, ma qui si ritrova la mano impeccabilmente teatrale e attenta alla musica cui ci ha da sempre abituato Pelly, il quale gioca con eleganza senza mai cadere nelle volgarità che il testo, già piccante per sé, e l’ambientazione contemporanea avrebbero potuto suggerire. I dialoghi sono parsimoniosamente adattati dalla fidata Agathe Mélinand, tutto è accuratamente recuperato e fedelmente realizzato sia musicalmente sia scenicamente. Chantal Thomas costruisce per il primo atto un ambiente rurale quasi inquietante dopo che si è alzato quel sipario con le pagine di giornali che riportano sparizioni di giovani donne. Il secondo ci porta nella reggia di Roi Bobèche e poi nel sordido sotterraneo del castello di Barbe-Bleu con la parete di celle frigorifere per salme che si apre per far apparire il magico harem delle sue precedenti cinque mogli. Particolarmente gustosi sono i costumi dello stesso Pelly, come l’abitino di cotone strizzato sulle forme generose di Boulotte («C’est un Rubens» esclama soddisfatto Barbe-Bleu quando la vede la prima volta) e del protagonista, cappotto di pelle e completo nero, barba dai riflessi bluastri, capelli tagliati alti sulla nuca  e occhi cerchiati di scuro.

Yann Beuron purtroppo non ha più lo smalto vocale di una volta, gli acuti hanno perso la luminosità di un tempo e il cantante non sembra nella serata ideale, probabilmente per una qualche indisposizione. Intatta rimane la sua straordinaria presenza che galvanizza la scena. Anche la giovane Héloïse Mas si appropria del palcoscenico con abilità e la voce calda e sensuale è perfetta per il personaggio della irrequieta Boulotte. Più lirica e meno imperiosa è la Fleurette di Jennifer Courcier che si scopre principessa. Efficace Carl Ghazarossian, lui invece principe travestito da paesano, dal bel timbro e a suo agio nei couplet. Perfetto attorialmente e vocalmente il Popolani di Christophe Gay che ha come spalla comica il Comte Oscar di Thibault de Damas. Come roi Bobèche Christophe Mortagne si incarna un’altra volta nella parte di monarca inetto e gratuitamente crudele dopo esserlo stato in Le roi Carotte, sempre qui a Lione tre anni fa.

Eccellente il coro preparato da Karine Locatelli e spumeggiante la direzione di Michele Spotti che ha ricavato dalla partitura inedite preziosità orchestrali e colori in continuazione cangianti. Anche grazie alla sua precisa concertazione e al ritmo impresso alla musica la serata ha avuto esiti felicissimi convincendoci che Barbe-Bleu può affiancarsi degnamente agli altri capolavori di Offenbach nella programmazione dei teatri. Anche quelli italiani.

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