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Johann Strauss figlio, Die Fledermaus
★★★☆☆
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Milano, Teatro alla Scala, 21 gennaio 2018
Lo champagne di Strauss perde la sua effervescenza passando dal Danubio ai Navigli
Il Tempio dell’opera lirica apre le porte all’operetta: per la prima volta il Teatro alla Scala mette in scena il lavoro con cui il 5 aprile 1874 al Theater an der Wien Johann Strauss figlio dava inizio ai suoi successi sulle scene.
Con Die Fledermaus (Il pipistrello) nasceva il genere dell’operetta danubiana che adattava ai gusti del pubblico dell’Impero Austro-Ungarico il successo parigino delle opere di Offenbach e Suppé, ben conosciuti nei teatri viennesi dove venivano messe in scena in lingua tedesca. Il perfetto equilibrio di brio e malizia, la facilità inventiva delle melodie, l’elegante parodia dei modelli dell’opera seria, l’utilizzo delle danze e dei temi popolari furono apprezzati dallo stesso Mahler che volle inserire l’opera nella programmazione dei teatri tedeschi e la diresse personalmente ad Amburgo nel 1894.
Con molto ritardo arriva dunque a Milano Die Fledermaus, l’operetta più rappresentata al mondo, con un nuovo allestimento affidato a Cornelius Obonya, ultimo germoglio di una stirpe di attori viennesi passato alla regia d’opera, e a Carolin Pienkos. Obonya ambienta la nota vicenda a Kitzbühel, località turistica tirolese alla moda. La crisi politico-economica della Vienna di allora ha suggerito l’ambientazione ai tempi d’oggi con riferimenti alla analoga frenetica attenzione al denaro e all’immagine della società globalizzata. L’internazionalità poliglotta dei miliardari annoiati dei nostri giorni si riflette nei dialoghi parlati in italiano e tedesco, quando non in francese, mentre i numeri musicali sono cantati nell’originale tedesco. Il principe russo è qui un’oligarca tediata dai suoi miliardi e nella folla del suo party non è difficile scorgere i nuovi arricchiti di oggi.
Nel primo atto siamo nella villa dei coniugi von Eisenstein con vetrata panoramica sulle Alpi. La dimora è piena di opere d’arte moderna tra cui un enorme “Uomo che cammina” di Giacometti che verrà maldestramente fatta a pezzi dalla guardia Frosch – e non era neanche ancora brillo! Nel secondo atto ci si sposta nell’appariscente villa dell’Orlovskaja le cui pareti espongono trofei di caccia le cui corna alludono ai tentati adulteri dei personaggi che vengono regolarmente mandati a monte. Il terzo è la prigione “per ricchi”, con ingresso girevole da albergo di lusso e celle con vista sulle cime innevate. Né le scene né i costumi, di Heike Scheele, sono tutt’altro che memorabili mentre l’inutile e banale coreografia di Heinz Spoerli dà un tono da dozzinale programma televisivo allo spettacolo durante la bellissima ouverture, che richiama i temi dell’opera in un pot-pourri di valzer e polke. Le cose non migliorano nel secondo atto, quello dedicato alla festa in cui spesso viene inserito un gala con ospiti, qui risolto con un balletto sulle note di Unter Donner und Blitz, la polka-schnell dello stesso autore. Peggio ancora è l’inserimento di una coppia di acrobati appesi a una corda durante l’estatico «Brüderlein und Schwesterlein» in cui l’ebrezza alcolica fa dimenticare ogni differenza sociale e rende tutti “fratelli e sorelle”.
Zubin Mehta, che aveva tanto voluto il progetto, ha dovuto rinunciare per un piccolo incidente e il suo posto è stato affidato a Cornelius Meister. Il direttore, tedesco ma con radici viennesi, aveva eseguito quest’opera a 21 anni e ancora poche settimane fa come recita di fine anno alla Wiener Staatsoper. Qui con l’orchestra del Teatro alla Scala ha cercato di realizzare quella magia di leggerezza e di brio, di sensualità e di nostalgia che è l’operetta, ma non sempre ci è riuscito, soprattutto nei momenti più lirici e struggenti.
Il nutrito cast affianca a interpreti italiani cantanti di lingua tedesca. Nel reparto femminile la prova migliore la dà, ma c’era da aspettarselo, l’austriaca Daniela Fally per agilità vocale e virtuosismo canoro uniti a una spigliata e maliziosa presenza scenica. Anche la nostra Eva Mei, voce dal timbro più scuro, è a suo agio sia nella vocalità sia nei dialoghi in tedesco quando tira fuori un ironico accento ungherese nel duetto dell’orologio col marito. Elena Maximova, “zarina” della festa che predica la sua filosofia di «à chacun son gout», perde l’ambiguità del ruolo en travesti dell’originale che dava più gusto al personaggio e ha talora qualche incertezza di intonazione. Tra i cantanti maschili si fanno notare il sicuro Markus Werba, il Dr. Falke motore della vicenda, e Peter Sonn, sua vittima come Eisenstein, anche bravo attore. Blind è il divertente Krešimir Špicer, presenza consueta del teatro milanese. Anche il direttore della prigione Frank trova in Michael Kraus un interprete efficace. Giorgio Berrugi si cala nella caricatutura del cantante narcisista Alfred divertendosi a intonare molti degli incipit delle arie più famose del repertorio tenorile con divertimento del pubblico. Lo stesso divertimento lo suscita l’attore Paolo Rossi che si ritaglia il tradizionale siparietto comico aggiornato all’attualità come carceriere Frosch, ma da lui ci si aspetta qualcosa di più graffiante e come il resto risulta un po’ deludente. Con molte gag, talune inutili, lo spettacolo non riesce a ricreare quell’atmosfera unica fatta di eleganza, umorismo e bonomìa tipica dell’operetta viennese. È come se passando dal Danubio ai Navigli lo champagne avesse perso un po’ della sua effervescenza.
⸪