Mese: febbraio 2023

Il ritorno d’Ulisse in patria

foto © Magali Dougados

Claudio Monteverdi, Il ritorno d’Ulisse in patria

Ginevra, Grand Théâtre, 27 febbraio 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Penelope al terminal Arrivi

Nel 1637 apre il primo teatro pubblico al mondo: è il San Cassiano di Venezia dove chiunque, pagando un biglietto, può assistere a quegli spettacoli che solo fino a poco tempo prima erano appannaggio delle corti principesche. Nella stagione di Carnevale del 1639-40, sempre a Venezia al teatro dei santi Giovanni e Paolo, assieme alla ripresa della sua Arianna viene rappresentato Il ritorno d’Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. Sono passati trentadue anni dalla “favola in musica” de L’Orfeo e questo nuovo “dramma in musica” è tutta un’altra cosa: là c’era un lavoro ancora immerso nella tradizione di corte, qui abbiamo il culmine dell’evoluzione del “recitar cantando” con cui Monteverdi dà vita ai personaggi dei libri XIII-XXIV del secondo poema omerico. Bastano i momenti dell’incontro di Ulisse con Telemaco prima e con Penelope poi a far capire il grande cambiamento che è avvenuto sulla scena del teatro in musica. Con L’incoronazione di Poppea, la terza e ultima sua opera a noi giunta, sarà completata la genesi del melodramma, con il passaggio dalla musica rinascimentale a quella barocca, e si saranno toccati i vertici di questo nuovo genere..

Al Grand Théâtre di Ginevra il compositore cremonese è stato presente nelle ultime stagioni con L’Orfeo nel 2019-20 e con L’incoronazione di Poppea nel 2021-22, entrambe concertate da Iván Fischer, ma ora per concludere la trilogia monteverdiana è stato chiamato uno dei massimi esperti della musica barocca, Fabio Biondi, qui alla guida della sua Europa Galante. Biondi dichiara la sua particolare predilezione per Il ritorno d’Ulisse in patria: dissipato ogni possibile dubbio sulla autenticità della partitura e sulla qualità letteraria del libretto, l’efficacia e densità espressiva della musica qui sono ancora maggiori che nella Poppea, dice il Maestro che lavora su un’edizione fedele all’originale che però lascia ancora molto lavoro da fare all’esecutore. Dopo le prime versioni orchestrate in maniera opulenta, da opera del Settecento, con i nuovi interpreti – Curtis, Alessandrini, Dantone… – c’è più attenzione a preservare lo stile originale delle opere di Monteverdi: quando non c’è una precisa indicazione degli strumenti, come è il caso delle sue partiture, che riportano solo la riga del canto e quella del basso continuo o poco più, si può tendere ad arricchire la strumentazione in preda all’horror vacui e tradire così le intenzioni dell’autore e la prassi esecutiva dell’epoca.

La concertazione/ricostruzione di Fabio Biondi è caratterizzata da una «sobrietà dai mille colori», come Christopher Park intitola la sua intervista al Maestro riportata sul programma di sala. In tal modo viene preservato il declamato degli attori-cantanti, ossia la purezza e il senso del testo, essendo l’edonismo vocale e il fanatismo per i cantori ancora di là da venire. Questo però non vuol dire che non si riesca a far venire fuori i tesori nascosti nella partitura, come avviene qui con i perfetti equilibri sonori, i raffinati impasti strumentali, i colori suggeriti dagli strumenti antichi, i brillanti interventi solistici del Maestro al violino. L’attento tappeto sonoro del continuo è affidato ad arpa, clavicembalo, tiorba, viola da gamba, liuto e organo da camera, mentre gli altri archi, i legni e gli ottoni intervengono nei momenti drammatici, come nella estesa scena della carneficina dei Proci. Ma sovente è il silenzio a sottolineare i punti di tensione nella vicenda, come la sofferta agnizione di Ulisse da parte della «Troppo incredula! Ostinata troppo!» Penelope. Le sonorità scelte da Biondi tengono conto del teatro in cui l’opera è rappresentata: con i suoi 1500 posti e la sua architettura il Grand Théâtre non è una sala veneziana del Seicento con i suoi cinque o sei strumentisti! Ai ritornelli sono pertanto aggiunti i flauti a becco, gli dèi e i personaggi allegorici sono accompagnati da quattro tromboni barocchi, gli archi sono raddoppiati.

Nei tre livelli di canto richiesti dall’opera – il lirico, il recitativo, il declamato – è impegnato un cast di specialisti di qualità differenti. Nel ruolo del titolo il tenore inglese Mark Padmore sembra quello più in difficoltà: ferme restando le qualità interpretative di un cantante apprezzato soprattutto nel repertorio liederistico, la voce denuncia segni di stanchezza, le note non sono ferme, la linea di canto è  irregolare, frammentata, la dizione ai limiti dell’accettabile e la presenza scenica risente dell’età. Tutto questo è messo ancora più in evidenza da un trio di interpreti femminili di età diverse ma accomunate dall’eccellenza. Penelope trova nel contralto Sara Mingardo la dimensione perfetta, il timbro e il colore scuro della voce delineano in tutte le sue sfaccettature la dolente nobiltà del personaggio, la parola trova la sua massima realizzazione, come nel grande monologo del primo atto. Il mezzosoprano Giuseppina Bridelli rende con voce di grande proiezione, precise e sicure agilità e solenne presenza scenica il triplice ruolo di Fortuna, Giunone e Minerva. Nel breve ma intenso intervento di Euriclea, qui ancora più ridotto mancando quello del primo atto, Elena Zilio mette in luce la qualità di questa cantante che non intende invecchiare e che ogni volta fornisce una lezione di interpretazione. Il suo è un cammeo che illumina la scena per l’intensità espressiva e la solidità del mezzo vocale. Un momento difficile da dimenticare. Julieth Lozano, soprano, non vanta una grande proiezione vocale, tanto che anche la smilza compagine strumentale riesce a coprirne la voce a tratti, ma ha la sensualità giusta per impersonare Amore nel Prologo e poi Melanto, la ragazza che vive con grande intensità il suo turbamento amoroso per Eurimaco. Gloriosamente eroico è il Telemaco del tenore Jorge Navarro Colorado, timbro luminoso e sicurezza vocale esposte nei due monologhi del secondo e quarto atto. Nelle altri parti danno un valido contributo i tenori Mark Milhofer (gustoso Eumeo) e Omar Mancini (sensibile Eurimaco), il basso Jérome Varnier (Nettuno) e il tenore Danzil Delaere (Giove). I tre pretendenti hanno trovato nel basso William Meinert (Autorevole Antinoo e Tempo nel Prologo), nel tenore Sahy Ratia (Anfinomo) e nel controtenore Vince Yi (Pisandro) interpreti pienamente efficaci.

Un altro gruppo belga, dopo i Peeping Tom con la loro particolare versione della  Dido and Æneas di Purcell qui a Ginevra due anni fa, affronta una regia lirica: nel 2018 avevano messo in scena Les pêcheurs de perles all’Opera Vlaanderen, ora danno la loro lettura del lavoro di Monteverdi gli FC Bergman, conosciuti per il loro teatro anarchico e visionario.

Il collettivo di Anversa ha lasciato il teatro classico, impegnato sul testo, per passare al teatro visuale ed espressivo, un mondo di immagini più che di vera e propria drammaturgia. Ispirato dal senso di unità di una squadra di calcio (le iniziali FC stanno per Football Club) associato all’omaggio di un grande cineasta (Ingmar Bergman) morto il giorno stesso in cui cercavano un nome per il loro gruppo, Stef Arts, Marie Vinck, Thomas Verstraeten e Joé Agemans hanno all’inizio portato i loro spettacoli in spazi non consueti. Ora nel teatro ginevrino celebrano a loro modo la mitologia in cui è inserita la vicenda de Il ritorno d’Ulisse in patria, una mitologia che però si è allontanata dagli uomini. Infatti nello spettacolo gli dèi all’inizio non appaiono di persona, ma come elementi che reagiscono all’ambiente: Nettuno è un distributore d’acqua che parla a spruzzi, Giove una scatola di derivazione elettrica che emette fumo e scintille. Solo alla fine si presenteranno nei fantasiosi costumi di Mariel Manuel, ma sarà un po’ deludente. Siamo infatti nel terminal Arrivi di un moderno aeroporto, con il grande cartellone dei voli – qui bloccato sui nomi di Amore, Fato, Tempo – una veduta della spiaggia di Itaca, una scala mobile che conduce al piano superiore e file di sedili su cui sono accasciate tre donne in nero: Penelope, Euriclea e Melanto, quest’ultima però in un seducente négligé di seta per connotare immediatamente la sensualità della fanciulla. Sul nastro trasportatore delle valigie entra in scena Ulisse assieme al bagaglio dei suoi ricordi di viaggio – l’occhio di Polifemo, il pomo d’oro di Paride, la testa del cavallo di Troia… Vicino alla scala mobile vediamo una balla di fieno e una capra che scopriremo essere la fedele compagna di Eumeo – una pecora era stata la protagonista dello spettacolo dei FC Bergman ad Avignon due anni fa, The Sheep Song. Un altro animale in scena è il cavallo che riporta a Itaca Telemaco su un carro coloratissimo. Troppe bestie.

L’ambiente asettico dell’aeroporto si riempie così di elementi mitologici, di ricordi. Numerose sono le gag che i registi disseminano nella loro lettura, ma anche gli errori di drammaturgia, come lasciare i cadaveri dei Proci in bella vista per tutto il quinto atto dopo una scena in puro stile splatter con fiotti di sangue che hanno molto divertito parte del pubblico. La lettura di FC Bergman ha comunque una sua logica quando evidenzia il diverso rapporto tra le due coppie Melanto/Eurimaco e Penelope/Ulisse: la prima spinta dalle pulsioni erotiche della gioventù, la seconda tristemente invecchiata. Dopo vent’anni di assenza Penelope ed Ulisse hanno difficoltà a riprendere la loro intimità e lo happy ending finale intonato dalla musica e dalle voci qui è invece un triste epilogo in cui Penelope, che ha conosciuto la tentazione dei pretendenti, giovani, aitanti, che si presentano anche nudi per vincere la ritrosia della regina e dove la prova dell’arco è stata carica di tensione erotica, alla fine è quasi delusa del ritorno di uno sposo crudelmente invecchiato. Nel complesso però l’invenzione del collettivo belga manca di coerenza e accumula con anarchico disordine effetti che spesso contrastano fortemente con la musica. Un altro elemento a loro sfavore è il fatto che sia stata una loro richiesta quella di eliminare il personaggio di Iro e di tagliare alcune scene.

La ritrosia della capra a presentarsi nei saluti finali e un sipario che non si decideva a scendere hanno probabilmente allungato la durata degli applausi oltre le intenzioni del pubblico, che ha festeggiato comunque con molto calore gli interpreti vocali, soprattutto quelli femminili.

Rivage à l’abandon – Médée-Matériau – Paysage avec Argonautes

foto @ Pascal Gély

Heiner Müller, Rivage à l’abandon – Médée-Matériau – Paysage avec Argonautes

Regia di Matthias Langhoff

Torino, Teatro Astra, 23 febbraio 2023

La trilogia di Müller per il TPE

Personaggio di spicco della cultura del dopoguerra, Heiner Müller (1929-1995) è stato anche un prolifico autore di teatro con oltre trenta drammi in cui sia il mito greco sia Shakespeare sono stati oggetto di adattamento o traduzione. Il suo dramma postmoderno Hamletmaschine aveva fatto scalpore in Italia quando la compagnia teatrale I Magazzini l’aveva messo in scena al Teatro dell’Arte a Milano nel 1988. Basato su Les liaisons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos è invece Quartett, che è stato messo in musica da Luca Francesconi e presentato alla Scala nel 2011 dove è stato ripreso otto anni dopo.

Médée-Matériau, ora al Teatro Astra per il TPE, appartiene a quei «pezzi enigmatici e frammentari» (secondo la definizione della Cambridge Guide to Theatre) che costituiscono il lavoro di questo particolare autore. Assieme ad altri due brevi lavori formano lo spettacolo prodotto dalla Comédie de Caen con la regia di Matthias Langhoff. La scena di Medea è incorniciata infatti da due paesaggi: Rivage à l’abandon e Paysage avec Argonautes, paesaggi desolati che, suggeriti allora dalle rovine del dopoguerra, adesso rispecchiano la natura devastata e contaminata del mondo di oggi. Il mito è dunque osservato attraverso le rovine della storia, ma soprattutto della nostra contemporaneità.

Il pubblico entra dal palcoscenico allestito come una esposizione in cui campeggiano tre tele di Catherine Rankl in grande formato che mescolano montaggi fotografici ed interventi pittorici per mostrare tre diverse rive fatiscenti: una barca spiaggiata, una statua abbattuta dal suo piedestallo, un albero scheletrico, le tristi icone femminili della danzatrice di Muybridge. In questa breve sosta il pubblico ascolta frammenti dell’opera radiofonica Verkommenes Ufer (Riva putrida) del compositore Heiner Goebbels prima di entrare nella platea del teatro e prendere posto. Le grandi tele su carrelli formeranno la scenografia mobile di questo trittico che inizia con l’attore argentino Marcial di Fonzo Bo (il Picasso di Midnight in Paris di Woody Allen) che recita un testo in cui descrive la riva del lago nei pressi di Strausberg diventata approdo di Argonauti «dalla fronte bassa» e tra immondizia sparsa ovunque. Senza soluzione di continuità appare poi Medea, l’attrice Frédérique Loliée, che nel suo terribile monologo ci racconta dell’abito letale che regala alla giovane di cui si è invaghito il suo Giasone («l’oro della Colchide le ostruisce i pori | pianta una foresta di coltelli nella carne») e premedita l’uccisione dei figli («ridatemi il sangue dalle vostre vene | voi viscere ritornate dentro di me») maneggiando due scatole di cibo per cani («carne del mio cuore […] non avete più sangue | adesso solo silenzio | anche le grida della Colchide si sono azzittite | e poi più niente»). Un altro monologo è quello finale con Marcial di Fonzo Bo steso dentro una barca arenata, non più l’eroe del vello d’oro ma un naufrago senza patria, che racconta di un paesaggio in cui l’umanità è paesaggio desolato essa stessa. Una visione tremendamente attuale: «ricordo di una battaglia tra carri armati | la mia camminata in periferia | io tra rovine e macerie». Quello che vediamo sugli schermi dei nostri televisori da un anno esatto.

Ma non si tratta di possedere particolari doti divinatorie: basta immaginarsi gli scenari peggiori e prima o poi la realtà farà in modo di superarne l’immaginazione.

Œdipe

George Enescu, Œdipe

Parigi, Opéra Bastille, 14 ottobre 2021

★★★☆☆

(video streaming)

L’unica opera di Enescu torna a Parigi

Lunga e tormentata la gestazione dell’unica opera di George Enescu: nel 1909 il compositore rumeno assiste a Parigi a una rappresentazione dell’Edipo re di Sofocle e l’anno successivo ne stende un primo abbozzo musicale. Edmond Fleg – Flegenheimer, brillante scrittore ebreo francese autore di una Anthologie juive – nel 1913 porta a termine una prima versione del libretto in due parti, da eseguirsi in due diverse serate. Negli anni successivi attraverso progressive modifiche Enescu giunge a dare al lavoro la veste definitiva, ma il sopraggiungere della guerra e altre incombenze lo distolgono a lungo dal suo Œdipe e solo nell’estate 1921 Enescu riesce a riprendere il lavoro. A novembre esegue al pianoforte l’intero spartito. L’orchestrazione si conclude nel 1931, ma la prima rappresentazione all’Opéra di Parigi ha luogo solo cinque anni dopo nella forma che conosciamo oggi in quattro atti, con il primo e l’ultimo che fungono rispettivamente da prologo e da epilogo. Poche le produzioni da allora, quasi tutte nei cartelloni dell’Opera di Bucharest. L’edizione su disco del 1968 è cantata infatti in rumeno.

Atto primo.Presso il palazzo di Laio si festeggia la nascita di Edipo. Tiresia profetizza che ucciderà suo padre e sposerà sua madre. Inorridito, Laio affida il bambino a un pastore perché lo uccida.
Atto secondo.Salvato dal pastore, Edipo è cresciuto alla corte del re Polibo e di Merope, a Corinto, ma l’oracolo gli ha rivelato il suo destino. Per sfuggire a una tale sorte, decide di lasciare tutto e partire, dirigendosi a Tebe. Sulla via incontra Laio che, dopo avergli chiesto di farlo passare con brutalità, lo insulta e lo percuote. Edipo, per difendersi, lo uccide. Risolto l’enigma della Sfinge, Edipo entra nella città vittorioso e ottiene la mano di Giocasta.
Atto terzo.Sono passati vent’anni. Tebe è oppressa da una pestilenza. Interrogato, l’oracolo risponde che il flagello durerà sino a quando l’assassino del re Laio non sarà smascherato e punito. Edipo promette di ottenere giustizia. Creonte chiama a corte il pastore che ha assistito all’omicidio e Tiresia. Questi, pur conoscendo i fatti non parla; ma quando Edipo lo accusa di essere l’assassino, è costretto a raccontare la verità. Sospettando un complotto di Creonte, Edipo scaccia l’indovino e il cognato, ma Giocasta gli rivela il luogo e le circostanze della morte di Laio e il re sente affiorare dentro di sé un presentimento. Il pastore conferma e Phorbas, giunto da Corinto dopo la morte di Polibo, dichiara che quest’ultimo e la regina Merope erano solo i suoi genitori adottivi. Compresa l’orribile verità, Giocasta si uccide; Edipo si acceca e lascia Tebe accompagnato dalla figlia Antigone.
Atto quarto.Giunto ad Atene presso Teseo, Edipo sente di essere giunto al termine della sua vita. Ma Creonte gli chiede di ritornare sul trono di Tebe. Allo sdegnato rifiuto di Edipo, Creonte cerca di rapire Antigone, ma Teseo interviene e ottiene giustizia per l’ormai vecchio Edipo, che può così ribadire con orgoglio la sua innocenza e la sua fierezza di fronte al destino. Poi si allontana con Teseo per morire in pace.

«Nello stile di Enescu [1881-1955] entrano in uguale misura la sua formazione francese con Gabriel Fauré, suo maestro (ravvisabile nelle musiche che descrivono la corte di Laio e nei festeggiamenti per la nascita di Edipo e, nell’epilogo, nella descrizione del mondo austero e pacifico di Teseo), come le acquisizioni più recenti del linguaggio neoclassico, fiorito nel periodo tra le due guerre; la tradizione delle sue origini rumene, così presenti al compositore e ravvisabili nelle melodie del pastore, il cui flauto evoca le ancestrali suggestioni della doïna e i lamenti del cîntec lung; gli sperimentalismi, impiegati a fini espressivi, dei quarti di tono (nella scena della Sfinge), anch’essi ravvisabili nella tradizione popolare rumena; una scrittura vocale varia e mobilissima, che passa con disinvoltura dal canto puro allo Sprechgesang, al grido e al bisbiglio; un contrappunto rinnovato attraverso l’impiego dell’eterofonia, di tradizione bizantina, anch’essa tipica del folklore rumeno. Enescu utilizza anche un certo numero di motivi ricorrenti, primo fra tutti quello del Destino, dal profilo discendente, modale, già presente nella Sonata per pianoforte in fa diesis op. 24 n. 1 (1924), che udiamo nel preludio iniziale, all’inizio del terzo atto e nei momenti più significativi della tormentata vicenda del protagonista». (Antonio Polignano)

Dopo un primo atto tutt’altro che esaltante, con il lungo rituale della nascita e dei festeggiamenti per il regale neonato, il lavoro prende quota con la partenza da Corinto di Edipo e il suo incontro con il padre sconosciuto e la sfinge, episodi seguiti dal tragico scoprimento della verità. Il lavoro si affloscia nuovamente nel quarto atto con la professione di innocenza di Edipo, vicenda assente nell’Edipo re di Sofocle, che condensa, in quelli che sono i due atti centrali del lavoro di Enescu, il conflitto tra volontà divina e responsabilità individuale. Le vicende dell’ultimo atto sono invece tratte con una certa libertà dall’Edipo a Colono, tragedia postuma dello stesso Sofocle.

Il direttore Ingo Metzmacher, che aveva diretto l‘Œdipe di Salisburgo con la regia di Achim Freyer nel 2019, trae il meglio dalla rigogliosa partitura che elabora le esperienze musicali dei primi decenni del secolo con le sue sofisticate armonie, i ritmi sfuggenti e la raffinata strumentazione. Qualche pagina ricorda la Pénélope del maestro Fauré o le atmosfere magiche del coetaneo Szymanowski. Enescu è ancora oggi ricordato principalmente per la sua produzione sinfonica (5 sinfonie) e cameristica (varie sonate per pianoforte e altri strumenti). Anche la vocalità sembra nascere dall’esperienza del suo tempo: siano il Pelléas di Debussy o il primo Schönberg nei momenti di canto parlato o parlato ritmico.

Quasi sempre presente in scena il personaggio del titolo non sembra porre particolari difficoltà tecniche se non per la tenuta dovuta alla fatica, ma Christopher Maltman riesce a superare lodevolmente la prova. La parte vocale più impegnativa è quella della Sfinge qui resa con grande tecnica da Clémentine Margaine. Ekaterina Gubanova è un’intensa Giocasta. Folta la schiera degli altri interpreti tra cui alcuni fuoriclasse: Clive Bayley (Tiresia), Brian Mulligan (Creonte), Laurent Naouri (alto sacerdote), Anne Sophie von Otter (Merope), Vincent Ordonneau (pastore), Nicolas Cavallier (Phorbas/guardia notturna), Anna-Sophie Neher (Antigone). Molto presente anche il coro debitamente istruito da Ching-Lien Wu.

Œdipe apre la prima stagione completa dopo la chiusura per pandemia del teatro francese ed è anche la prima produzione dell’era Neef, il direttore artistico dell’Opéra National che ha scelto il commediografo Wajdi Mouawad il quale aveva prodotto come prima opera lirica un Ratto dal serraglio all’Opera di Toronto come suo ultimo spettacolo alla guida del teatro canadese. Ora direttore del Théâtre National de la Colline di Parigi, Mouawad affronta il lavoro di Enescu con spirito didascalico, si sente infatti in dovere di narrare gli antefatti della vicenda in un pre-prologo, in cui racconta dalla fondazione di Tebe da parte di Cadmo alla serie di re che hanno governato su questa città, un tempo felice, fino a Laio, maledetto da Apollo perché aveva violentato un fanciullo. Il regista libanese aveva già affrontato in teatro l’Edipo di Sofocle tre volte e legge questo di Enescu in maniera molto lineare, privilegiando l’aspetto visivo con i fantasiosi costumi di Emmanuelle Thomas con copricapi fitomorfi a Tebe, piumati a Corinto. Le scenografie di Emmanuel Clolus sono essenziali ma suggestive e la recitazione, non particolarmente curata, è accompagnata da una gesticolazione stilizzata. Ne esce fuori uno spettacolo che appare datato e che non sembra esaltare le qualità di questo lavoro dimenticato.

  

Concerto di Carnevale della OSN RAI

foto © PiùLuce/OSNRai

Gioachino Rossini, Guillaume Tell, Ouverture; Hector Berlioz, Le carnaval romain, Ouverture caratteristica op. 9; Antonin Dvořák, Carneval, Ouverture per grande orchestra op.92; Claude Debussy, “Clair de lune” dalla Suite bergamasqueJohann Strauss figlio, Der Karneval in Rom, Ouverture; Johann Strauss padre, Erinnerung an Ernst oder Der Carneval in Venedig op 126; Johann Strauss figlio, Die Fledermaus, Ouverture; Jacques Offenbach, “Barcarolle” da Les contes d’HoffmannJacques Offenbach, “Galop infernal” da Orphée aux enfers; Ferde Grofé,  “Mardi gras” da Mississippi suite

Kristian Järvi direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 21 febbraio 2023

Carnevale senza maschera

Secondo concerto fuori abbonamento della Stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, questo volta dedicato al carnevale. Quasi nessuno in maschera tra il compassato pubblico torinese, mentre molti tra i professori d’orchestra stanno al gioco esibendo travestimenti gustosi: viole e corni come Blues Brothers, tra i percussionisti spiccano Batman e il Joker, Biancaneve e i sette nani sono tra i violoncellisti, il maestro di trombone è in parrucca, abito di paillettes e collana di brillanti al collo…

Il programma comprende famosi pezzi dell’Ottocento per finire nel secolo scorso e tutti, o quasi, a tema o comunque di carattere gioioso, come la Sinfonia del Guillaume Tell di Rossini che, nonostante l’argomento drammatico della vicenda, contiene quell’irresistibile crescendo che ha raggiunto la popolarità al di fuori delle sale da concerto e dei teatri. Il carnevale è comunque nei titoli dei pezzi successivi di Berlioz e Dvořák: Le carnaval romain è del 1844 e utilizza pagine del suo sfortunato Benvenuto Cellini, l’opera che Berlioz aveva ambientato nella Roma di papa Clemente VII, in cui nell’atto secondo siamo immersi nel carnevale di piazza Colonna con i suoi rutilanti colori orchestrali. Il quasi insuccesso dell’opera nel 1838 spinse il compositore a presentare una nuova versione a Londra nel 1852 che questa volta incorporava appunto la popolare “ouverture caratteristica”. Il Carneval di Dvořák è invece del 1892 e faceva parte di un trittico prima che il musicista decidesse di separare i tre pezzi con nuovi titoli.  Il lavoro è di poco precedente alla composizione della sua Sinfonia n° 9 “Dal nuovo mondo” e comprende alcuni spunti tematici che verranno sviluppati in Rusalka, infatti la pagina ha momenti scuri accanto a quelli brillanti. Il Clair de lune di Debussy nella trascrizione orchestrale fatta da André Caplet non ha nessun riferimento al carnevale, ma serve probabilmente a inserire una pausa di tranquillità tra pezzi così effervescenti. Un altro carnevale romano in musica è quello dell’operetta di Johann Strauss figlio di cui ascoltiamo l’ouverture, mentre a quello veneziano si riferisce la composizione del padre, una pagina singolare dedicata al grande violinista Heinrich Wilhelm Ernst le cui virtuosistiche variazioni rivaleggiavano con quelle del più vecchio Paganini. Qui il famoso tema passa da uno strumento all’altro dando lo spunto agli orchestrali per divertenti siparietti molto apprezzati dal pubblico.

Ma allegria in musica vuol dire operetta e Il pipistrello di Johann Strauss figlio è l’inarrivabile modello del genere danubiano: la sua ouverture non smette ogni volta di trasmettere un senso di felicità misto a nostalgia del passato. Passando all’operetta francese il re indiscusso è Jacques Offenbach, qui presente con la Barcarola dai suoi Racconti di Hoffmann, e dall’immancabile scatenato “galop infernal dell’Orfeo all’inferno, prototipo del can can ed emblema della spensierata epoca bella. Chiude il programma una pagina del ‘900, il “Mardi Gras” dalla Mississippi Suite di Ferde Grofé, pianista della più famosa orchestra da ballo americana degli anni Venti, la Paul Whiteman Band, il quale scriveva questo lavoro che sapeva di jazz e celebrava la musica dei neri del sud. Era il 1925 e un anno prima George Gershwin aveva presentato la sua Rhapsody in blue a cui in parte si ispira.

Maestro di cerimonie di questa festa spumeggiante è l’estone-americano Kristjan Järvi che sul palco dell’Auditorium Toscanini si immedesima nell’atmosfera festosa con una direzione di grande vivacità in cui prevalgono le scelte coloristiche e timbriche a scapito di volumi sonori che non differenziano molto un pezzo dall’altro. Il rubato straussiano un po’ si perde nella foga dei tempi così come la sensualità della barcorola offenbachiana. Il gesto di Järvi è molto estroverso, a tratti sembra una marionetta scomposta, ma riesce ad accattivarsi la simpatia del pubblico facendolo partecipare con i battimani e invitandolo a intensificare gli applausi. Che non mancano e incorniciano il “Mambo” da West Side Story di Leonard Bernstein eseguito fuori programma.

Grande assente della serata la televisione, la padrona di casa. Peccato, l’elemento visivo è stato uno degli aspetti più divertenti del concerto.

La traviata

  

Giuseppe Verdi, La traviata

Parigi, Opéra Garnier, 28 settembre 2019

★★★★☆

(video streaming)

A Parigi una Traviata 2.0

Assieme a Stiffelio, La traviata è l’unica altra opera in cui Verdi mette in scena la sua contemporaneità. Per questo entrambi i lavori ebbero grandi problemi con la censura: la società borghese del tempo non amava vedersi raffigurata nei suoi vizi e nelle sue ipocrisie, preferiva rispecchiarsi in vicende storiche del passato sublimate dal tempo e dalla distanza. Il romanzo di Dumas, La Dame aux camélias, era stato pubblicato da neanche cinque anni e l’adattamento teatrale era uscito  un anno prima: per ricreare l’impatto che quel lavoro aveva avuto sui contemporanei di Verdi, ora a distanza di 170 anni i registi rendono attuale l’ambientazione per il pubblico di oggi e sempre meno infatti si vedono Violette in crinoline ottocentesche o in stile Belle Époque, meno che mai in costumi settecenteschi, come aveva dovuto fare Verdi per aggirare la censura in alcune città degli stati che formavano l’Italia di allora.

Ecco quindi che al Palais Garnier Simon Stone adatta la vicenda ai nostri tempi: Violetta è una star dei social con milioni di follower; ha una sua linea di cosmetici; come VIP salta le file per entrare nei locali alla moda ma proprio per la vita troppo indipendente della donna il principe saudita che doveva sposare la sorella di Alfredo «si ricusa al vincolo» – e questo è l’elemento meno convincente della drammaturgia, mentre passa invece il fatto che non sia la tisi a minare la salute della giovane bensì una recidiva tumorale. Tutto questo lo veniamo a sapere fin dal preludio dai messaggi che scorrono sugli schermi a led che tappezzano le facce di un parallelepipedo rotante che si mostra cavo per il locale trendy, per la Place des Pyramides o per la stanza dell’ospedale oncologico in cui viene ricoverata Violetta. Le scene sono firmate da Bob Cousins e l’interessante gioco luci si deve a James Farncombe. Questa dicotomia tra realtà virtuale e reale è l’elemento più intrigante della messa in scena di Stone, che poi indugia in «scene che potrebbero urtare la sensibilità dei più giovani o dei non informati», come si legge su un avviso dell’Opéra National che mette in guardia il pubblico dalle esplicite immagini al neon che decorano la festa da Flora, praticamente un’orgia in costume, e dei goliardici costumi dei partecipanti, ideati da Alice Babidge, con falli di gomma ben in mostra ma nei posti sbagliati.

Per sottolineare il cambiamento d’atmosfera tra l’ambiente urbano e quello rurale del secondo atto, nella produzione di Černjakov alla Scala Alfredo affettava le zucchine, qui invece spinge una carriola piena digrappoli d’uva che poi pigia coi piedi per il vino fatto in casa, mentre per il latte c’è una placida vacca che Violetta sta mungendo – ma che diventerà un trattore nelle riprese dello spettacolo a Monaco di Baviera – e c’è pure una piccola chiesetta per ricordare alla giovane che «dal ciel non furono tai nodi benedetti». Angosciante il terzo atto nel reparto trasfusioni di un ospedale, dove ogni paziente è accompagnato da qualcuno, Violetta invece è sola, si stacca la flebo e delirando rivive il passato: la fila per entrare nel locale trendy, il retro della discoteca con i bidoni di immondizia, la piazza con la statua dorata, le immagini sul cellulare del felice passato. Poi la vediamo coricata nel lettino di ospedale in uno spazio vuoto e abbagliante di bianco, ma non muore nel lettino: si avvia verso un’apertura e sparisce nella nebbiolina. Un finale poco convincente.

Quella che invece risulta del tutto convincente è la direzione di Michele Mariotti, dai lividi accordi del preludio del primo atto a quello straziante del terzo, dagli angosciosi colpi dei timpani di «Amami Alfredo» alle ruvide e desolate strappate degli archi di «Addio del passato». Mariotti presta grande attenzione alle voci e al loro equilibrio sonoro con la fossa orchestrale. Riapre poi i tagli di tradizione così che la sua Traviata risulta integrale salvo alcuni da capo nelle cabalette dei due uomini.

Trionfo personale per la Violetta di Pretty Yende che esordisce nella parte, a suo agio nelle agilità e nei virtuosismi del primo atto come nella tragica intensità del terzo quando è finalmente e totalmente nella pelle della protagonista, mentre fino a quel momento c’era una certa freddezza. Non sembra scoccare invece la stintilla tra i due protagonisti, più convincenti da soli che in duo. Benjamin Bernheim ha voce ampia e ben sfumata, la recitazione non è un gran che ma così delinea un Alfredo un po’ impacciato e superficiale, come in realtà è il personaggio. Jean‑François Lapointe è un Germont padre non particolarmente convincente ma gioca in casa e il pubblico è in delirio per lui. Julien Dran (Gaston) e Thomas Dear (Dottor Grenvil) sono quelli che si fanno più notare nella folta schiera di comprimari. Preciso e scenicamente sciolto il coro del teatro diretto da José Luis Basso.

 

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

128 pagine, numero zero, gennaio 2023

Aida, blackface

L’Opera di Roma ha deciso di creare una rivista che non sia strumento di promozione e diffusione delle sue attività, bensì mezzo di riflessione, approfondimento e dibattito prendendo lo spunto dagli spettacoli programmati dal teatro. «Viviamo tempi in cui troppo spesso si tende a banalizzare o semplificare fenomeni complessi. E invece la complessità va affrontata senza remore nella sua sfaccettata e talora anche ambigua ricchezza. Perché la scelta di un titolo o la scelta di un allestimento di quel titolo, oggi più di ieri, ha il senso di proposta progettuale e deve fare i conti con la necessità e la responsabilità di uno sguardo aperto e attento a tutte le sensibilità contemporanea. Perché bisogna osare, bisogna avere il coraggio di affrontare i problemi del nostro tempo piuttosto che sfuggirli o evitarli nel neutro tuo silenzio delle scelte più comode. Perché il pubblico deve interrogarsi con noi.perché il teatro è il luogo dove nascono tante domande e si ragiona (meglio se insieme) sulle risposte possibili» scrive il sovrintendente Francesco Giambrone. L’opera continua a raccontare anche oggi i grandi temi che ci riguardano.

In controtendenza alla resa ormai generale agli strumenti e alla comunicazione on line, la scelta di una rivista cartacea implica una scelta coraggiosa, ossia la creazione di uno spazio affascinante per ragionare insieme e per interrogarsi sulle scelte di programmazione di un teatro, scelte dettate dalla esigenza di proporre al pubblico temi di riflessione legati al nostro tempo. Nelle parole del direttore Paolo Cairoli: «Vogliamo fermarci. Per una volta vogliamo rallentare, approfondire e, perché no studiare. E vogliamo invitarvi a farlo insieme a noi. Allargando un po’ i confini e spingendoci più in là di quello che già sappiamo e pensiamo di un’opera, sfruttando quei temi e quelle idee con cui il teatro e la musica ci mettono a confronto. Ogni sei mesi circa produrremo quindi un volume, che sfiori anche solo tangenzialmente un nostro spettacolo. Un’occasione per scavare un po’ lì intorno. Agganciandoci alla nostra nuova produzione di Aida e alla problematica del blackface che oggi inevitabilmente essa porta con sé, abbiamo scelto di iniziare parlando di razzismo».

Questo numero zero ospita dunque interventi sull’argomento di vari autori (Neelam Sricastava, Sandro Portelli, Andrea Peghinelli, Ilaria Narici, Daniele Cassandro, Costanza Rizzacasa, Marialaura Agnello, Enrico Ferraris, Paolo Pecere…) illustrati da immagini digitali generate con tecnologia Text To Image, un software di intelligenza artificiale che elabora figure dopo che gli sono state fornite delle parole chiave o brani contenuti nel testo. Credo sia la prima volta che una rivista italiana utilizza un metodo di questo tipo. Un ulteriore motivo di interesse per questo inedito prodotto editoriale.

Giulio Cesare in Egitto

  

Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Amsterdam, Muziektheater, 2 febbraio 2023

★★★☆☆

(video streaming)

L’ultimo Giulio Cesare è quello cafonal di Bieito

Gli anni 1723-25 vedono Händel al lavoro su tre dei suoi massimi capolavori: Giulio Cesare in Egitto, Rodelinda e Tamerlano. Per Donald Burrows, uno dei massimi studiosi del Sassone, dal punto di vista musicale è da preferire Rodelinda «per la pura potenza musicale e compositiva […] in una successione sempre ben bilanciata di contrasti». Ma subito dopo ammette che il Giulio Cesare «ha una trama veloce, ricca di eventi, e alcune delle migliori arie di Händel, oltre a scene spettacolari dal punto di vista musicale e drammatico».

Händel sottopose il primo atto a una serie di massicce revisioni: furono almeno sette le fasi di composizione e riordino delle bozze complete della partitura. Sembra anche probabile che gli stravolgimenti del primo atto fossero dovuti a revisioni radicali del libretto: Haym, che lavorava a stretto contatto con Händel, aveva sviluppato il libretto gradualmente, modificandolo man mano, attingendo a più di una fonte letteraria e prestando molta attenzione alla coerenza drammatica. Come era tipico per l’epoca il Giulio Cesare si basava su un libretto preesistente, quello di Giacomo Francesco Bussani intonato da Antonio Sartorio a Venezia nel 1677 e rivisto nel 1685. Haym e Händel attinsero a entrambe le versioni. Era poi normale che ci fossero ulteriori revisioni a mano a mano che un’opera procedeva dalle prove alla prima rappresentazione alle successive repliche. Il Giulio Cesare ebbe 13 rappresentazioni nel 1724 e 10 nella stagione successiva e per le riprese negli anni successivi (1725, 1730 e 1732 ) ci sarebbero stati altri cambiamenti per adattarsi ai nuovi cast. Alcune delle modifiche apportate dopo il completamento della bozza di partitura possono essere considerate come correzioni, ma la maggior parte erano dovute alle capacità musicali degli interpreti e alle opportunità di miglioramento della presentazione drammatica. Tra le modifiche del 1725 vi furono quelle della parte di Sesto, che passava da contralto a tenore – due arie furono semplicemente trasposte di un’ottava, mentre le altre tre vennero completamente riscritte in relazione alla nuova voce – mentre Nireno e Curio furono eliminati.

Se Sartorio nel suo Giulio Cesare in Egitto aveva scritto per la prima volta nell’opera delle parti specificamente destinate alle trombe – nella sinfonia, in quattro arie e in un momento solistico – Händel nella sua opera affida un ruolo particolare ai corni, strumenti non particolarmente diffusi nella Londra dell’epoca: li aveva utilizzati nella sua Water Music del 1717 e nel Radamisto di tre anni dopo, la prima volta in cui questi strumenti assumevano un loro ruolo nell’orchestra. Qui Händel impiega due coppie di corni in chiavi diverse per ottenere accordi in differenti tonalità e poi gloriosamente solistici nella Sinfonia e Marcia della scena ultima del terzo atto.

La eccelsa maestria strumentale e la varietà di colori della partitura di Händel è occasione per evidenziare le qualità direttoriali di Emmanuelle Haïm alla guida del suo Concert d’Astrée – il teatro di Amsterdam non ha una sua propria orchestra e invita quindi quelle che vuole – con una direzione scattante, vigorosa, un suono pieno ma leggero, vario nelle agogiche con cui accompagna le differenti scene di questo ricchissimo dramma che ha affrontato in almeno altre quattro produzioni. Accuratissimi sono i da capo, frutto di un approfondito studio musicologico, ma anche il cast si rivela essere di ottimo livello. Dopo essere stato il Tolomeo par excellence in molte importanti produzioni (Glyndebourne, 2005; Salisburgo, 2012; Milano, 2019…), Christophe Dumaux veste ora i panni del personaggio del titolo e se all’inizio il timbro a dir poco particolare sembra far rimpiangere quello sublimato di Andreas Scholl, quello corposo di Sarah Connolly en travesti, quello rotondo di Carlo Vistoli, presto diventa convincente nella definizione del personaggio voluta da Bieito (ne riparleremo) e si apprezzano la tecnica impeccabile e l’espressività del cantante francese in «Alma del gran Pompeo» nel primo atto e poi in «Aure deh per pietà» nel terzo, in cui però viene tagliata «Qual torrente, che cade dal monte». La sua efficacia attoriale si rivela nel duetto finale con la seducente Cleopatra di Julie Fuchs,  interprete dalla vocalità agile, dalle variazioni gustose e dalla giusta accentuazione del testo. Qualche piccolo sbandamento di intonazione è compensato dalla magnetica presenza scenica. Teresa Iervolino e Cecilia Molinari danno vita alle figure di Cornelia e del figlio Sesto con intensità interpretativa e grande padronanza vocale, la prima in una commovente «Priva son d’ogni conforto», la seconda nella bella interpretazione di «Cara speme, questo core». Il controtenore persiano-canadese Cameron Shahbazi è un intrigante Tolomeo dalla matura tecnica vocale, così come l’altro controtenore, Jake Ingbar (Nireno), americano spigliato e di bella voce. Frederik Bergman (Achilia) e Georgiy Derbas-Richter (Curio) completano degnamente il cast.

Il Giulio Cesare è tra i titoli händeliani più frequentati ultimamente e la messa in scena di Calixto Bieito si deve confrontare con le prestigiose produzioni di Sellars, McVicar, Leiser-Caurier, Carsen, Pelly, Michieletto, per citare solo le più recenti. Questa volta la sua lettura non è all’altezza di altri suoi spettacoli: il regista spagnolo sottolinea il malefico potere del denaro, ma l’insistenza sulla violenza e l’aggressività e i particolari trash (la testa di Pompeo è un insieme di frattaglie sanguinolenti in una busta di plastica, i rapporti tra Cornelia e il figlio sono per lo meno problematici, il sangue è spesso immancabile) portano alla noia pur nell’ironico taglio con cui dipinge come ricchi e cafonal Cleopatra e Cesare che nel finale si scambiano come regali dei water d’oro massiccio… Le scenografie di Rebecca Ringst prevedono un palcoscenico vuoto e una piattaforma rotante con un parallelepipedo metallico che si solleva per mostrare un fondo a led su cui si proiettano le immagini video di Sarah Derendinger comprendenti anche caratteri geroglifici.

Lo spettacolo dopo Amsterdam si sposterà a Barcellona. Chi volesse vederlo prima può andare su youtube.

Uno sguardo dal ponte

Arthur Miller, Uno sguardo dal ponte

Regia di Massimo Popolizio

Torino, Teatro Carignano, 8 febbraio 2023

Hanno ammazzato Eddie Carbone

Secondo lavoro di Arthur Miller della stagione dello Stabile di Torino, Uno sguardo dal ponte (A View from the Bridge) andò in scena come atto unico nel 1955 a New York con scarso successo, così l’autore ne fece una revisione in due atti presentata l’anno successivo a Londra con la regia di Peter Brook e da allora è entrato nella rosa dei maggiori lavori del drammaturgo, scrittore, sceneggiatore e giornalista newyorchese.

La commedia è ambientata nell’America degli anni Cinquanta, in un quartiere italo-americano vicino al ponte di Brooklyn a New York. È presente un narratore nel personaggio di Alfieri, un avvocato italo-americano, che racconta di Eddie, il tragico protagonista che ha un’ossessione per Catherine, la nipote orfana di sua moglie Beatrice, per cui non approva il corteggiamento da parte del cugino di Beatrice, Rodolfo. La gelosia lo porterà a denunciarlo come immigrato illegale e poi a diventare vittima della collera del fratello Marco.

L’interesse di Miller per la scrittura sul mondo dei moli di New York era nata da un fatto di cronaca nera che divenne una sceneggiatura non prodotta sviluppata con Elia Kazan all’inizio degli anni Cinquanta intitolata The Hook (L’uncino) che trattava della corruzione sui moli di Brooklyn. In seguito Kazan diresse On the Waterfront (Fronte del porto) su un argomento simile. Nel 1958 Luchino Visconti metteva in scena la versione italiana di Uno sguardo dal ponte e nel successivo film Rocco e i suoi fratelli affrontava un vicenda analoga.

Coprodotto con la Compagnia Umberto Orsini, il Teatro di Roma e l’ERT (Emilia e Romagna Teatro) lo spettacolo ora sul palcoscenico del Carignano porta la firma registica di Massimo Popolizio che riserva per sé la parte di Eddie. La scenografia di Marco Rossi è ingombra di vecchi mobili, la memoria della Sicilia lasciata dagli immigrati, che si confondono con le casse e i sacchi scaricati dalle navi sull’East River. Popolizio così racconta il suo spettacolo: «Tutta l’azione è un lungo flash-back: Eddie Carbone, il protagonista, entra in scena quando tutto il pubblico già sa che è morto. Per me è una magnifica occasione per mettere in scena un testo che chiaramente assomiglia molto a una sceneggiatura cinematografica e che, come tale, ha bisogno di primi, secondi piani e campi lunghi. Alla luce di tutto il materiale che questo testo ha potuto generare dal 1955 ad oggi – film, fotografie, serie televisive – credo possa essere interessante e “divertente” una versione teatrale che tenga presente tutti questi “figli”. Una grande storia raccontata come un film, ma a teatro».

E così è nella sua regia di taglio quasi cinematografico, con scene che hanno la brevità di una sequenza da film muto, e nella recitazione, dove il dialetto siciliano dei nuovi arrivati è ancora così forte rispetto a quello dei “merigans” che si sono ormai adattati, primi fra tutti i giovani Catherine e Rodolfo. Popolizio non calca la mano sugli aspetti più morbosi della storia, la passione incestuosa del vecchio zio per la nipote, ma preferisce evidenziarne gli aspetti di scottante attualità: la fuga dalla povertà, le tensioni fra gli immigrati, la caccia allo straniero, la brutalità della polizia. Son passati quasi settant’anni dal 1955 ma tutti questi  problemi sono ancora tragicamente attuali, come ci ricordano i bravi attori in scena: oltre al fuoriclasse Massimo Popolizio che delinea un Eddie Carbone quasi rassegnato al suo tragico destino, Valentina Sperlì (Beatrice), Michele Nani (l’avvocato Alfieri), Raffaele Esposito (Marco), Lorenzo Grilli (Rodolfo), Gaja Masciale (Catherine), Felice Montervino (Tony), Marco Mavaracchio e Gabriele Brunelli (i poliziotti), Marco Parlà (Louis). Il folto pubblico che ha disdegnato la seconda serata di Sanremo li ha applauditi con calore.

Doktor Faust

   

Ferruccio Busoni, Doktor Faust

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 7 febbraio 2023

★★★★☆

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Il Faust di Busoni per la terza volta a Firenze, ma il pubblico è latitante

Onnipresente Davide Livermore! In questo periodo era a Torino con la sua Maria Stuarda di Schiller, ha presentato l’Aida all’Opera di Roma, tra pochi giorni ci sarà la sua Tosca al Carlo Felice di Genova seguita subito dopo da Les contes d’Hoffmann alla Scala. E fino a pochi giorni fa si poteva assistere al suo Barbiere di Siviglia al Petruzzelli di Bari.

Della sua irrefrenabile attività fa parte anche questo Doktor Faust, uno dei maggiori eventi che Firenze ha voluto dedicare al Faust e a Goethe, un festival inaugurato dalla Faust-Symphonie di Franz Liszt eseguita dall’orchestra del teatro del Maggio diretta da Marc Albrecht. Ma è di qualche mese fa Schauspiel Faust, lo spettacolo che la compagnia Venti Lucenti ha presentato al Teatro Goldoni per gli studenti delle scuole mentre anche il quartiere di Rifredi ha voluto ricordare il leggendario personaggio con lo spettacolo La tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe.

Ora nella sala grande del Teatro del Maggio, come secondo titolo della stagione lirica va in scena quest’ultima opera di Ferruccio Busoni, compositore diviso tra due identità, quella tedesca e quella italiana: la prima segnata dalla musica strumentale, la seconda dall’opera. Il Doktor Faust è la sintesi delle sue due personalità e il lavoro più ambizioso che lo ha impegnato negli ultimi dodici anni di vita fino alla morte nel 1924 quando l’opera viene lasciata incompiuta. Sarà terminata dal suo allievo Philipp Jarnach l’anno dopo e presentata al pubblico il 21 maggio 1925 a Dresda diretta da Fritz Busch. Il ritrovamento di schizzi che si pensavano perduti ha permesso al musicologo Antony Beaumont nel 1982 di completare l’opera aggiungendo altri sei minuti di musica agli ultimi due quadri. Delle due versioni però è ancora più utilizzata la prima, come avviene ora a Firenze.

La fonte letteraria primaria non è costituita tanto dal poema di Goethe o dal dramma di Marlowe, da cui deriva comunque il titolo, bensì da quegli spettacoli di marionette (Faustpuppenspiele) popolari in area tedesca e passione di Busoni fin dall’infanzia, come dichiara l’autore stesso ne “Il poeta agli spettatori”, il testo recitato dopo la Sinfonia. In questo testo il musicista indica anche la sua estetica che si oppone al Verismo dominante in quel momento nel teatro musicale: «La musica rifugge l’ordinario, il suo corpo è fatto d’aria […] il meraviglioso è la sua patria», il teatro dunque come svago spiritualizzato, campo di finzioni e artifici. La scelta del teatro di marionette permette a Busoni non solo di sottrarsi al rischioso confronto con il testo di Goethe, ma di muoversi con maggior libertà formale e narrativa, inserendo nella vicenda personaggi fantastici e situazioni grottesche inquadrate tra pagine strumentali di grande impegno. Il compositore abbandona una narrazione lineare a favore di una struttura a pannelli disgiunti e contrastanti: ecco infatti la singolare sequenza con cui si dipana questa “Dichtung für Musik”: Sinfonia, Ostervesper und Frühlingskeimen (Vespro di Pasqua e germogli di primavera) con coro; testo recitato, Der Dichter an die Zuschauer (Il poeta agli spettatori); Primo Prologo; Secondo Prologo; Intermezzo scenico; Azione principale, Primo quadro; Intermezzo sinfonico; Secondo quadro; Ultimo quadro.

Nel Primo Prologo Faust riceve da tre misteriosi studenti di Cracovia, in verità dei messi infernali, il libro esoterico Clavis Astarti magica con il quale può piegare la magia ai suoi voleri. Nel Secondo Prologo Faust evoca gli spiriti infernali ma scaccia, perché troppo lenti, Gravis, Levis, Asmodus, Belzebù, Megaros e sceglie Mefistofele con il quale firma un patto per «abbracciare il mondo […] comprendere le azioni umane […] avere il genio e il suo dolore, così da essere felice come nessun altro». Tutto in cambio del suo asservimento alla morte. Con l’intermezzo scenico, sulle minacciose note dell’organo entriamo in una chiesa dove il fratello della ragazza sedotta da Faust prega per la sua vendetta. Mefistofele si sbarazza di lui come aveva fatto prima con i creditori e i gesuiti che vogliono mandare Faust sul rogo. L’azione principale si dipana in tre quadri in cui vediamo l’ascesa e la caduta di Faust: a Parma con la seduzione e rapimento alato della Duchessa; quindi la taverna di Wittemberg con la disputa tra gli studenti; infine la strada innevata dove Faust ha le sue visioni e dove si consegna, cadavere, a Mefistofele.

I dubbi filosofici, i tormenti esistenziali, il dualismo perdizione-redenzione sono i nodi secondo i quali viene vissuta la vicenda di Faust, che diventa alter-ego del compositore, con i suoi problemi relativi all’atto creativo. La mancata conclusione del lavoro aggiunge un ulteriore elemento di dubbio sulla possibilità dell’artista di poter completare la sua opera di conoscenza e tradurla in modo creativo: «Che il compimento proceda con il desiderio, che l’atto si compia nella vita insieme all’intenzione! Che cosa volere di più? Posso sperare così tanto?» aveva esclamato nella sua richiesta di pienezza ed assoluto alla comparsa di Mefistofele, lo spirito «veloce come il pensiero umano».

Firenze era stata nel 1942 la sede della prima esecuzione italiana del Doktor Faust nella traduzione di Oriana Previtali, la stessa in cui venne ripresa nel 1964 con le stesse scene di Mario Sironi. Questa è dunque la terza produzione fiorentina dell’opera, finalmente nel testo originale tedesco. La concertazione è affidata a un grande sperto di musica moderna quale Cornelius Meister, stimato interprete del teatro wagneriano – è suo l’ultimo Ring di Bayreuth – ed entusiasta propositore di opere raramente eseguite. Della densa partitura di Busoni, Meister mette in evidenza la straordinaria personalità che unisce l’invenzione armonica della musica germanica con la ricchezza di temi melodici tipici dell’opera italiana. E non c’è nulla di post-wagneriano in questa musica che si proietta invece verso il futuro con i suoi colori scuri, le audacie timbriche e una certa torbida sensualità del suono che diventa sontuoso nelle pagine strumentali quali il bellissimo intermezzo sinfonico in forma di sarabanda, un pezzo che ha trovato talora la via dei concerti sinfonici. L’orchestra del teatro risponde con un’esecuzione di grande livello, come se la musica di Busoni fosse ormai entrata nel suo DNA e così avviene anche per il coro istruito dal Maestro Lorenzo Fratini. Un po’ squilibrato il rapporto tra scena e orchestra, con le voci che talora si perdono dietro il muro fonico degli strumenti, ma il problema è che il particolare stile del canto mette a dura prova i cantanti, sia che si tratti del baritono Faust sia del tenore Mefistofele. Dietrich Henschel è un interprete abituato ai repertorii più estremi, si tratti di Monteverdi o di musica d’avanguardia, Lieder o Oratorii, e come Faust ha già cantato nella produzione di Kent Nagano a Lione e a Parigi. La parte è impegnativa perché il personaggio è sempre in scena e la vocalità ardua. A parte alcuni acuti, le difficoltà sono agevolmente risolte da Henschel, ma la sua performance non brilla per particolare varietà di colori. Anche Mefistofele è massicciamente presente e la tessitura estremamente impervia è causa di qualche sbandata per Daniel Brenna che porta comunque a conclusione l’oneroso impegno anche se non lascia il segno dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio. Non meno difficile ma senza intoppi la resa del basso Wilhelm Schwinghammer (Wagner e Maestro di Cerimonie), e del tenore Joseph Dahdah (Duca di Parma e Soldato), entrambi eccellenti nelle loro parti, così come efficaci sono i tanti altri interpreti maschili. Unica voce femminile è quella del soprano ucraino Olga Bezsmertna, Duchessa di Parma di bel timbro, grande proiezione vocale e fermezza negli acuti, oltre che preziosa presenza scenica.

In uno dei corridoi del labirintico teatro fiorentino è esposto il progetto di realizzazione del nuovo palcoscenico, una complessa macchina scenica che prevede «4 elevatori centrali, 8 carri mobili, 1 carro girevole» per realizzare grandiosi effetti teatrali quali la «comparsa e scomparsa rapida di un’intera scenografia» e analogamente una «piattaforma con un disco girevole per creare movimenti rototraslanti». Davide Livermore non sembra voler utilizzare queste possibilità nella sua messa in scena realizzata con mezzi tecnologici che riprendono, con spirito moderno, le scenografie storiche sette- e ottocentesche con fondali dipinti per ricreare lo spazio tridimensionale: qui ovviamente con ci sono vernici e sagome di cartone, ma un enorme led wall che occupa il fondo della scena chiusa ai lati da pareti a specchio nella scenografia dello studio Giò Forma. Ecco quindi le immagini video in continuo movimento della D-Wok formanti architetture in prospettive vertiginose e la sterminata biblioteca di Faust si trasforma così con ipnotica fascinazione in ambienti virtuali abitati da forme infernali, fiamme, immagini erotiche, quadri rinascimentali per evocare le figure richiamate dal libretto, e poi Elena che ha preso il posto di Cristo sulla croce in una delle visioni di un Faust che non distingue più il sacro dal profano: «Oh, pregare, pregare! Dove trovare le parole? Esse danzano nel mio cervello come formule cabalistiche».

Pochi gli elementi reali in scena: sedie, tavoli, un pianoforte su cui Faust si esibisce da pianista – come Busoni! – per ammaliare la Duchessa tramite un satiro cornuto che uscito dallo strumento diventa il mezzo di seduzione: la magia si mescola alla sessualità – un altro Doktor F. (Sigmund Freud) non è distante nel tempo e nello spazio all’epoca della composizione del Doktor Faust –, e il patto non è firmato col sangue su una pergamena, ma è suggellato da un bacio tra Faust e Mefistofele. Vestiti allo spesso modo, i due protagonisti si rispecchiano l’uno nell’altro e come gli  altri personaggi maschili tutti sono controfigure del compositore stesso e portano la stessa maschera: il volto di Busoni.

Uno spettacolo di grande impatto visivo come sempre sono quelli di Livermore che qui argina le sue idee in maniera felice. Peccato che il pubblico fiorentino non sia accorso in massa: alla prima erano molto più numerosi i posti liberi di quelli occupati e si spera che nelle prossime repliche il tam tam di chi c’era e ha applaudito con convinzione convinca quelli che sono rimasti a casa. Lo spettacolo vale la pena, fosse anche solo per la rarità della proposta.

L’incoronazione di Poppea

Claudio Monteverdi, L’incoronazione di Poppea

Versailles, Opéra Royal, 28 gennaio 2023

★★★★☆

(video streaming)

«Oggi vedrai ciò che sa far Amore»

Nella Agrippina avevamo lasciato Ottone unirsi felicemente all’amata Poppea, ma sembra che le cose non siano andate come sperava il valoroso romano, poiché la donna è ricaduta tra le braccia di Nerone, ora imperatore e sposo di Ottavia. Per prendere il posto dell’imperatrice regnante, Poppea non si ferma davanti a nulla e cerca di eliminare tutti gli ostacoli che le impediscono di salire al trono: mette fine alla relazione con Ottone, spinge Seneca al suicidio e fa in modo che Ottavia venga ripudiata. Raggiunge così il suo obiettivo e sposa Nerone.

Busenello condensa gli eventi storici di un periodo di sette anni (dal 58 al 65 d.C.) nell’azione di un solo giorno, una magistrale sequenza di scene di eccezionale livello letterario e teatrale. Dopo l’immancabile prologo in cielo, abbiamo la vivida scena notturna in cui Ottone scopre i servi di Nerone in attesa del padrone fuori della casa di Poppea; quindi la scena fra i due amanti; Poppea e i consigli di Arnalta; il drammatico monologo di Ottavia seguito dai consigli («sozzi argomenti») della sua nutrice; Seneca che conforta Ottavia; l’accesa discussione fra Nerone e Seneca; il secondo duetto di Nerone e Poppea, pieno di riferimenti esplicitamente erotici; eccetera. In tutto questo sta la modernità dell’ultimo capolavoro monteverdiano.

Il libretto è sopravvissuto in numerose forme: due versioni a stampa, sette versioni manoscritte o frammenti e uno scenario anonimo, o riassunto, relativo alla produzione originale. Una delle edizioni a stampa si riferisce alla ripresa dell’opera a Napoli nel Carnevale 1650; l’altra è la versione finale di Busenello pubblicata nel 1656 come parte di una raccolta dei suoi libretti. I manoscritti risalgono tutti al XVII secolo, anche se non tutti sono specificamente datati; alcuni sono versioni “letterarie” non legate a rappresentazioni e la più significativa delle copie manoscritte è quella scoperta a Udine nel 1997 dallo studioso monteverdiano Paolo Fabbri. Questo manoscritto, secondo la storica della musica Ellen Rosand, «è impregnato dell’immediatezza di un’esecuzione» ed è l’unica copia del libretto che menzioni Monteverdi per nome. Questo, insieme ad altri dettagli descrittivi che mancano in altre copie, porta Rosand a ipotizzare che il manoscritto sia stato copiato nel corso di una rappresentazione. Questa impressione è rafforzata, dice, dall’inclusione di un inno di lode alla cantante che interpretava Poppea. Sebbene la datazione sia incerta, l’affinità del manoscritto con lo scenario originale ha fatto ipotizzare che la versione udinese possa essere stata compilata a partire dalla prima rappresentazione.

Grazie alla musica di Monteverdi, quello che poteva essere visto come un mero trionfo dell’amoralità diventa un inno al potere assoluto del desiderio, un’esaltazione dell’umanità intrappolata nelle sue stesse contraddizioni. È stata l’ultima opera dell’anziano maestro, ma anche il primo capolavoro del genere, e rimane profondamente moderna nonostante i quattro secoli trascorsi dalla prima. L’opera è ora messa in scena sulle tavole dell’Opéra Royal di Versailles in una magnifica produzione che vede il maestro clavicembalista Leonardo García Alarcón a capo della sua Cappella Mediterranea e Ted Huffman alla regia. Quella scelta da Leonardo García Alarcón è la versione del 1650 e nel caso di opere di questo repertorio il suo intervento è sostanziale nel ricreare una partitura di cui abbiamo solo il basso continuo, tre o quattro righe strumentali e le voci. È sua quindi gran parte della composizione/ricreazione di questo lavoro che sotto la sua direzione risulta ancora fresco come il giorno in cui fu scritto. Magistrale non è solo la ricostruzione strumentale, che raggiunge livelli di sontuosità o trasparenza a seconda dei casi, ma anche l’accompagnamento delle voci, sostenute ma anche libere di esprimersi in tutta la loro intensità quando è necessario, come nel caso di quelle di Ottavia e di Seneca. Una dimostrazione della totale fiducia riposta dai cantanti nel loro direttore è l’assenza di sguardi ansiosi per gli attacchi, anzi, in alcuni momenti gli interpreti possono cantare a occhi chiusi, certi che il direttore li segue senza problemi.

Per una volta i ruoli maschili sono allo stesso livello, se non superiore, di quelli femminili. Il controtenore Jake Arditti, Nerone anche nella Agrippina di Carsen, ha una voce agile e dotata di un colore che ben connota il carattere impietoso dell’imperatore romano il quale risponde solo ai suoi impulsi e ai suoi desideri. Arditti ne caratterizza la volatilità con rapidi cambi di dinamica e di accenti emotivi e arrivando a petto nudo afferma fin da subito e inequivocabilmente le inclinazioni del suo personaggio e allo stesso momento la esibita sicurezza come imperatore.

L’altro controtenore è Iestyn Davies, in pantalonicini corti per sottolinearne la immaturità, che interpreta con molta sensibilità l’infelice ruolo di Ottone, anche qui come in Agrippina vittima delle ambizioni e degli intrighi dei potenti; il basso Alex Rosen è un autorevole Seneca dal sonoro registro grave ma capace di esprimere con belle mezze voci e un’espressiva presenza scenica la parte del filosofo, qui una figura giovanile e per questo ancora più efficace quando si contrappone drammaticamente al quasi coetaneo e capriccioso Nerone; nelle parti di Lucano, Pretoriano e Famigliare di Seneca troviamo il tenore Laurence Kilsby, il vincitore dell’ultimo concorso Cesti che non solo conferma sul piano vocale l’ottima impressione della sua performance di Innsbruck, ma dimostra anche una matura e disinvolta presenza scenica.

Doppia parte anche per Ambroisine Bré, Virtù nel Prologo e poi Ottavia, mezzosoprano di bella voce e intensamente espressiva nei due monologhi dell’atto primo «Disprezzata regina» dai toni proto-femministi («Se concepiamo l’uomo, | o delle donne miserabil sesso, | al nostr’empio tiran formiam le membra, | allattiamo il carnefice crudele»), e del terzo «Addio Roma, addio patria, amici addio» quando si imbarca sulla nave dopo essere stata ripudiata avendone lei stessa incautamente fornita l’occasione, che Nerone aspettava, col suo ordine a Ottone di uccidere Poppea.

E Poppea è il soprano Elsa Benoit, l’Agrippina di Monaco, solare e sensuale cortigiana che cela nei modi suadenti l’impulso di fredda ambizione che la consuma. La cantante possiede una voce molto espressiva e con un’ampia tavolozza di colori. Il fraseggio accurato si modella accuratamente al testo e la voce possiede un’attraente qualità per sottolineare la seduzione del personaggio. Nel duetto finale «Pur ti miro, pur ti godo» le voci della Benoit e di Arditti si combinano con una tale sensibilità che la tensione sessuale, che fino a quel momento aveva definito la loro relazione, viene sostituita da un sentimento di amore genuino. Tuttavia, c’è qualcosa che non si concilia con quanto abbiamo visto in precedenza: la musica è anche troppo armoniosa, troppo dolce, quasi leziosa, come se Monteverdi si volesse prendere gioco in questo lieto fine di un’esagerata celebrazione dell’amore davanti a un pubblico che sa che quel sentimento sarebbe stato breve e che Nerone avrebbe ucciso la donna incinta con un calcio.

Spesso in scena è il soprano Julie Roset nelle vesti di Amore, il motore della vicenda, e di Valletto. Ha presenza da soubrette, ma voce di grande proiezione, facili agilità e accenti sonori decisi. Anche Maya Kherani, soprano indiano, si fa notare per le indubbie qualità personali quale Fortuna nel Prologo e poi come Drusilla. Corpulento, quasi gigantesco, ma dalla voce flebile, è l’Arnalta/Nutrice en travesti di Stuart Jackson, che però si concede il suo momento di gloria nel magico «Oblivion soave», cantato con grande sensibilità. Peccato per la dizione dal forte accento inglese, ma quello della dizione è un problema sempre in agguato per un cast totalmente straniero come questo, con pronuncia impastata o addirittura scorretta di certe parole. L’unico bilingue è il tenore italo/tedesco Riccardo Romeo, efficace Liberto e Pretoriano. L’eccellenza della distribuzione si estende anche a Yannis François, Littore e Famigliare di Seneca.

Contrasta con l’opulenza della sala dell’Opéra Royal la messa in scena di Ted Huffman, regista proveniente dall’Académie di Aix-en-Provence dove lo spettacolo è stato originariamente messo in scena al Jeu de Paume. La scenografia di Johannes Schültz rivista da Anna Wörl consiste in uno spazio vuoto con un’area per sedersi, in modo che i personaggi non coinvolti in una scena possano osservare ciò che accade, e un tubo rotante appeso sopra il palcoscenico il cui significato però sfugge: simbolo fallico? ago di una bussola gigantesca (è metà bianco e metà nero)? una roulette simbolo dell’aleatorietà dei destini? Mah. Alcuni tavoli, sedie, uno stendino per abiti sono gli unici elementi presenti in scena. Nel triangolo Nerone-Lucano-Poppea, che dopo la morte di Seneca escono assieme di scena per consumare un amplesso à trois, è la lascivia della musica e dei versi («Bocca, che se mi porge | lasciveggiando il tenero rubino | m’inebria il cor di nettare divino») a trovare il giusto corrispettivo figurativo ed è l’interazione tra i personaggi il punto forte dello spettacolo, assieme alla bravura dei giovani e disinibiti interpreti, alla efficace drammaturgia suggerita dal testo del Busenello e alla magia della musica di Monteverdi ricreata da Alarcón.