Christopher Marlowe

Doktor Faust

   

Ferruccio Busoni, Doktor Faust

Firenze, Teatro del Maggio Fiorentino, 7 febbraio 2023

★★★★☆

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Il Faust di Busoni per la terza volta a Firenze, ma il pubblico è latitante

Onnipresente Davide Livermore! In questo periodo era a Torino con la sua Maria Stuarda di Schiller, ha presentato l’Aida all’Opera di Roma, tra pochi giorni ci sarà la sua Tosca al Carlo Felice di Genova seguita subito dopo da Les contes d’Hoffmann alla Scala. E fino a pochi giorni fa si poteva assistere al suo Barbiere di Siviglia al Petruzzelli di Bari.

Della sua irrefrenabile attività fa parte anche questo Doktor Faust, uno dei maggiori eventi che Firenze ha voluto dedicare al Faust e a Goethe, un festival inaugurato dalla Faust-Symphonie di Franz Liszt eseguita dall’orchestra del teatro del Maggio diretta da Marc Albrecht. Ma è di qualche mese fa Schauspiel Faust, lo spettacolo che la compagnia Venti Lucenti ha presentato al Teatro Goldoni per gli studenti delle scuole mentre anche il quartiere di Rifredi ha voluto ricordare il leggendario personaggio con lo spettacolo La tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe.

Ora nella sala grande del Teatro del Maggio, come secondo titolo della stagione lirica va in scena quest’ultima opera di Ferruccio Busoni, compositore diviso tra due identità, quella tedesca e quella italiana: la prima segnata dalla musica strumentale, la seconda dall’opera. Il Doktor Faust è la sintesi delle sue due personalità e il lavoro più ambizioso che lo ha impegnato negli ultimi dodici anni di vita fino alla morte nel 1924 quando l’opera viene lasciata incompiuta. Sarà terminata dal suo allievo Philipp Jarnach l’anno dopo e presentata al pubblico il 21 maggio 1925 a Dresda diretta da Fritz Busch. Il ritrovamento di schizzi che si pensavano perduti ha permesso al musicologo Antony Beaumont nel 1982 di completare l’opera aggiungendo altri sei minuti di musica agli ultimi due quadri. Delle due versioni però è ancora più utilizzata la prima, come avviene ora a Firenze.

La fonte letteraria primaria non è costituita tanto dal poema di Goethe o dal dramma di Marlowe, da cui deriva comunque il titolo, bensì da quegli spettacoli di marionette (Faustpuppenspiele) popolari in area tedesca e passione di Busoni fin dall’infanzia, come dichiara l’autore stesso ne “Il poeta agli spettatori”, il testo recitato dopo la Sinfonia. In questo testo il musicista indica anche la sua estetica che si oppone al Verismo dominante in quel momento nel teatro musicale: «La musica rifugge l’ordinario, il suo corpo è fatto d’aria […] il meraviglioso è la sua patria», il teatro dunque come svago spiritualizzato, campo di finzioni e artifici. La scelta del teatro di marionette permette a Busoni non solo di sottrarsi al rischioso confronto con il testo di Goethe, ma di muoversi con maggior libertà formale e narrativa, inserendo nella vicenda personaggi fantastici e situazioni grottesche inquadrate tra pagine strumentali di grande impegno. Il compositore abbandona una narrazione lineare a favore di una struttura a pannelli disgiunti e contrastanti: ecco infatti la singolare sequenza con cui si dipana questa “Dichtung für Musik”: Sinfonia, Ostervesper und Frühlingskeimen (Vespro di Pasqua e germogli di primavera) con coro; testo recitato, Der Dichter an die Zuschauer (Il poeta agli spettatori); Primo Prologo; Secondo Prologo; Intermezzo scenico; Azione principale, Primo quadro; Intermezzo sinfonico; Secondo quadro; Ultimo quadro.

Nel Primo Prologo Faust riceve da tre misteriosi studenti di Cracovia, in verità dei messi infernali, il libro esoterico Clavis Astarti magica con il quale può piegare la magia ai suoi voleri. Nel Secondo Prologo Faust evoca gli spiriti infernali ma scaccia, perché troppo lenti, Gravis, Levis, Asmodus, Belzebù, Megaros e sceglie Mefistofele con il quale firma un patto per «abbracciare il mondo […] comprendere le azioni umane […] avere il genio e il suo dolore, così da essere felice come nessun altro». Tutto in cambio del suo asservimento alla morte. Con l’intermezzo scenico, sulle minacciose note dell’organo entriamo in una chiesa dove il fratello della ragazza sedotta da Faust prega per la sua vendetta. Mefistofele si sbarazza di lui come aveva fatto prima con i creditori e i gesuiti che vogliono mandare Faust sul rogo. L’azione principale si dipana in tre quadri in cui vediamo l’ascesa e la caduta di Faust: a Parma con la seduzione e rapimento alato della Duchessa; quindi la taverna di Wittemberg con la disputa tra gli studenti; infine la strada innevata dove Faust ha le sue visioni e dove si consegna, cadavere, a Mefistofele.

I dubbi filosofici, i tormenti esistenziali, il dualismo perdizione-redenzione sono i nodi secondo i quali viene vissuta la vicenda di Faust, che diventa alter-ego del compositore, con i suoi problemi relativi all’atto creativo. La mancata conclusione del lavoro aggiunge un ulteriore elemento di dubbio sulla possibilità dell’artista di poter completare la sua opera di conoscenza e tradurla in modo creativo: «Che il compimento proceda con il desiderio, che l’atto si compia nella vita insieme all’intenzione! Che cosa volere di più? Posso sperare così tanto?» aveva esclamato nella sua richiesta di pienezza ed assoluto alla comparsa di Mefistofele, lo spirito «veloce come il pensiero umano».

Firenze era stata nel 1942 la sede della prima esecuzione italiana del Doktor Faust nella traduzione di Oriana Previtali, la stessa in cui venne ripresa nel 1964 con le stesse scene di Mario Sironi. Questa è dunque la terza produzione fiorentina dell’opera, finalmente nel testo originale tedesco. La concertazione è affidata a un grande sperto di musica moderna quale Cornelius Meister, stimato interprete del teatro wagneriano – è suo l’ultimo Ring di Bayreuth – ed entusiasta propositore di opere raramente eseguite. Della densa partitura di Busoni, Meister mette in evidenza la straordinaria personalità che unisce l’invenzione armonica della musica germanica con la ricchezza di temi melodici tipici dell’opera italiana. E non c’è nulla di post-wagneriano in questa musica che si proietta invece verso il futuro con i suoi colori scuri, le audacie timbriche e una certa torbida sensualità del suono che diventa sontuoso nelle pagine strumentali quali il bellissimo intermezzo sinfonico in forma di sarabanda, un pezzo che ha trovato talora la via dei concerti sinfonici. L’orchestra del teatro risponde con un’esecuzione di grande livello, come se la musica di Busoni fosse ormai entrata nel suo DNA e così avviene anche per il coro istruito dal Maestro Lorenzo Fratini. Un po’ squilibrato il rapporto tra scena e orchestra, con le voci che talora si perdono dietro il muro fonico degli strumenti, ma il problema è che il particolare stile del canto mette a dura prova i cantanti, sia che si tratti del baritono Faust sia del tenore Mefistofele. Dietrich Henschel è un interprete abituato ai repertorii più estremi, si tratti di Monteverdi o di musica d’avanguardia, Lieder o Oratorii, e come Faust ha già cantato nella produzione di Kent Nagano a Lione e a Parigi. La parte è impegnativa perché il personaggio è sempre in scena e la vocalità ardua. A parte alcuni acuti, le difficoltà sono agevolmente risolte da Henschel, ma la sua performance non brilla per particolare varietà di colori. Anche Mefistofele è massicciamente presente e la tessitura estremamente impervia è causa di qualche sbandata per Daniel Brenna che porta comunque a conclusione l’oneroso impegno anche se non lascia il segno dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio. Non meno difficile ma senza intoppi la resa del basso Wilhelm Schwinghammer (Wagner e Maestro di Cerimonie), e del tenore Joseph Dahdah (Duca di Parma e Soldato), entrambi eccellenti nelle loro parti, così come efficaci sono i tanti altri interpreti maschili. Unica voce femminile è quella del soprano ucraino Olga Bezsmertna, Duchessa di Parma di bel timbro, grande proiezione vocale e fermezza negli acuti, oltre che preziosa presenza scenica.

In uno dei corridoi del labirintico teatro fiorentino è esposto il progetto di realizzazione del nuovo palcoscenico, una complessa macchina scenica che prevede «4 elevatori centrali, 8 carri mobili, 1 carro girevole» per realizzare grandiosi effetti teatrali quali la «comparsa e scomparsa rapida di un’intera scenografia» e analogamente una «piattaforma con un disco girevole per creare movimenti rototraslanti». Davide Livermore non sembra voler utilizzare queste possibilità nella sua messa in scena realizzata con mezzi tecnologici che riprendono, con spirito moderno, le scenografie storiche sette- e ottocentesche con fondali dipinti per ricreare lo spazio tridimensionale: qui ovviamente con ci sono vernici e sagome di cartone, ma un enorme led wall che occupa il fondo della scena chiusa ai lati da pareti a specchio nella scenografia dello studio Giò Forma. Ecco quindi le immagini video in continuo movimento della D-Wok formanti architetture in prospettive vertiginose e la sterminata biblioteca di Faust si trasforma così con ipnotica fascinazione in ambienti virtuali abitati da forme infernali, fiamme, immagini erotiche, quadri rinascimentali per evocare le figure richiamate dal libretto, e poi Elena che ha preso il posto di Cristo sulla croce in una delle visioni di un Faust che non distingue più il sacro dal profano: «Oh, pregare, pregare! Dove trovare le parole? Esse danzano nel mio cervello come formule cabalistiche».

Pochi gli elementi reali in scena: sedie, tavoli, un pianoforte su cui Faust si esibisce da pianista – come Busoni! – per ammaliare la Duchessa tramite un satiro cornuto che uscito dallo strumento diventa il mezzo di seduzione: la magia si mescola alla sessualità – un altro Doktor F. (Sigmund Freud) non è distante nel tempo e nello spazio all’epoca della composizione del Doktor Faust –, e il patto non è firmato col sangue su una pergamena, ma è suggellato da un bacio tra Faust e Mefistofele. Vestiti allo spesso modo, i due protagonisti si rispecchiano l’uno nell’altro e come gli  altri personaggi maschili tutti sono controfigure del compositore stesso e portano la stessa maschera: il volto di Busoni.

Uno spettacolo di grande impatto visivo come sempre sono quelli di Livermore che qui argina le sue idee in maniera felice. Peccato che il pubblico fiorentino non sia accorso in massa: alla prima erano molto più numerosi i posti liberi di quelli occupati e si spera che nelle prossime repliche il tam tam di chi c’era e ha applaudito con convinzione convinca quelli che sono rimasti a casa. Lo spettacolo vale la pena, fosse anche solo per la rarità della proposta.

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Lessons in Love and Violence

★★★★★

«And the child learns»

Molta era l’attesa per la nuova opera, la terza, di George Benjamin dopo la singolare Into the Little Hill (2006) e l’acclamata Written on Skin (2012). Avrebbe confermato il successo? Aperto una nuova strada nello stile del compositore inglese? O deluso le aspettative?

Mentre si succedono le repliche – in questi giorni è all’Opéra de Lyon, uno dei sette teatri che l’hanno commissionata (oltre a Londra Amsterdam, Amburgo, Madrid, Barcellona e Chicago) – esce la registrazione video di una delle recite alla Royal Opera House dove Lessons in Love and Violence aveva debuttato il 10 maggio 2018. Il libretto di Martin Crimp si basa sulla vicenda narrata da Christopher Marlowe nel suo Edward II pubblicato postumo nel 1593. Nel libretto il monarca è semplicemente chiamato “the King”, Roger Mortimer I conte di March semplicemente Mortimer e la regina Isabella Isabel, come in un dramma di oggi.

Prima parte. Scena 1. Mortimer critica le spese del re per il suo amante, Gaveston, in un periodo in cui il popolo soffre la guerra e la fame. Il Re confisca i beni di Mortimer. Scena 2. Mortimer fa leva sull’abbandono dei doveri del re presentando alla regina Isabel i rappresentanti delle persone che soffrono. Lei accetta di sostenere la campagna di Mortimer contro Gaveston. Scena 3. Gaveston viene arrestato durante un intrattenimento nella residenza del re. Scena 4. Il re ripudia Isabel quando viene a sapere della morte di Gaveston.
Seconda parte. Scena 1. Isabel ora vive con Mortimer. Istruiscono il figlio del re ad affermare la sua regalità e presentano il padre come un pazzo che crede di essere il re. Scena 2. Il re è in prigione. Mortimer lo persuade ad abdicare. La morte, nelle vesti di Gaveston, viene a trovare il re. Scena 3. Il figlio del re, salito al trono organizza la morte di Mortimer.

Con la stessa regista e scenografa di Written on skin, ossia Katie Mitchell e Vicky Mortimer, la stessa protagonista femminile, Barbara Hannigan (e il medesimo librettista), la storica vicenda viene ambientata ai nostri giorni e in un unico spazio, la camera da letto del re – con un acquario digitale (che qualcuno ha scambiato per un acquario vero denunciandone la follia del costo e del peso!), un quadro di Francis Bacon e una libreria piena di preziosi reliquarii. Un ambiente chiuso dove far svolgere la cruenta parabola in cui il potere vince sulla vita e sull’amore, uno spazio che nel tempo cambia punto di vista e perde dettagli: i quadri spariscono, così i reliquarii e i pesci nella vasca, a mano a mano che le relazioni fra i componenti di questa famiglia diventano sempre più conflittuali. Solo il letto resta, al centro della camera. Il cambiamento della prospettiva realizzato in scena è meno evidente nella regia video di Margaret Williams che aggiunge riprese zenitali, un po’ inutili, e primi piani di gusto cinematografico.

Nella storia ideata da Crimp non è la relazione omosessuale tra Edward e il suo favorito Piers Gaveston a scatenare l’intervento di Mortimer, il suo consigliere militare, ma sono le spese sostenute dal re per il suo amante a fronte dell’indigenza dei sudditi. Qui nessuno si salva moralmente: il monarca avulso dalla politica e tutto preso dall’amore («Let ours be a regiment of tolerance and love» è il suo motto); il cinico consigliere («Love is poison» dichiara) che impartisce al giovane futuro monarca una “lezione di giustizia” facendo giustiziare un povero malato di mente che si crede re; l’amante Gaveston un tantino masochista («Love is a prison: I wanted to see daylight» spiega dopo essersi ferito la mano prendendo a pugni il muro); la gelida moglie Isabel che di fronte ai poveri per dimostrare la vanità delle ricchezze scioglie nell’aceto una perla di valore inestimabile e fa bere il liquido a chi chiede l’elemosina. Le lezioni di amore e violenza sono servite ai giovani eredi: il primo atto del nuovo re Edward III è quello di far fuori Mortimer per mano della sorella. I due giovani sono sempre in scena, testimoni muti della passione del padre, della freddezza della madre, delle violenze che avvengono sotto i loro occhi. Katie Mitchell lavora magnificamente con gli interpreti e la contorta psicologia dei personaggi è sottolineata dalle luci di James Farncombe e dai movimenti al rallentatore che dilatano i tempi percepiti.

Due arpe e un cimbalom fuori scena danno il colore esotico, gli archi battuti sul legno e i quasi 40 strumenti a percussione costruiscono l’atmosfera di tensione e violenza della vicenda. Diretta dallo stesso compositore, la musica rivela varie influenze, ma tutte ben digerite in un linguaggio originale che richiama quello di Written on Skin, pur nelle diversità. Anche qui gli strumenti stendono un tappeto sonoro cangiante e raffinatissimo fatto di dissonanze o consonanze a seconda del momento, con una scrittura rarefatta e trasparente che include molti silenzi. Risaltano così in modo più drammatico i momenti finali delle due parti in cui è suddivisa l’opera formata da sette quadri separati da intensi interludi sinfonici. Un discorso a parte sarebbe poi da fare sul ruolo nella vicenda della musica, il passatempo preferito del re e del suo favorito («I have wept to exquisite music while the hay lay drowned»).

Il testo è reso sempre in maniera molto chiara con una prosodia fluida e a tratti sensuale anche grazie agli eccelsi interpreti in scena: Barbara Hannigan è l’elegante ma intensa Isabel, l’unica alle prese con agilità vocali che sottolineano il carattere freddo all’esterno ma ribollente all’interno; Stéphane Degout è il sensibile monarca, un baritono dal timbro chiaro ed elegante che contrasta con quello più scuro e insinuante dell’amante Gaveston, un seducente Gyula Orendt; Peter Hoare è un efficace Mortimer, il motore della vicenda; Samuel Boden presta il suo lirico timbro tenorile per il giovane principe. Ruolo muto ma intensamente espressivo è quello di Ocean Barrington-Cook, la sorellina minore.

Sì, Lessons in Love and Violence non delude le aspettative e prosegue, in maniera personale, il percorso intrapreso dalle opere precedenti di George Benjamin confermandolo tra i maggiori compositori di musica operistica di oggi.