Mese: giugno 2020

The Skating Rink

David Sawer, The Skating Rink

★★★★☆

Wormsley, Garsington Opera Pavilion, 5 luglio 2018

(video streaming)

Delitto sul ghiaccio

The Skating Rink (La pista di pattinaggio) è un lavoro commissionato dalla Garsington Opera e finanziato privatamente. È la quarta opera del compositore inglese David Sawer, nato nel 1961, che ha studiato con Mauricio Kagel a Colonia e fin dall’inizio si è occupato di musica per il teatro. Insegnante di composizione alla Royal Academy of Music di Londra, il suo stile compositivo risente dell’influenza di Ligeti e di Stravinskij, di cui c’è qualche eco in questa sua opera la cui partitura utilizza strumenti latino-americani come il charango e il ronroco, due strumenti a corde andini, e dove predominano i fiati e le percussioni.

Il libretto di Rory Mullarkey si basa su La pista de hielo (1993) di Roberto Bolaño, scrittore cileno morto cinquantenne dieci anni dopo. Come nel romanzo, la vicenda è narrata da tre punti di vista diversi, uno per ognuno dei tre atti: il cileno Remo Morán, esule in Spagna e proprietario di una piccola attività commerciale in una cittadina della Costa Brava indicata con la sola iniziale Z (possibilmente Blanes, dove visse Bolaño quando si trasferì in Catalogna); il messicano Gaspar Heredía, al quale Morán ha trovato impiego come guardiano del camping di sua proprietà; il funzionario pubblico catalano Enric Rosquelles, braccio destro del sindaco socialista Pilar. Dall’intreccio narrativamente non-lineare dei punti di vista dei tre uomini si ricostruisce un omicidio avvenuto durante l’estate.

Atto I. Gaspar. Un giovane messicano, Gaspar, poeta sognatore, lavora come guardiano notturno presso il campeggio Stella Maris. Il suo capo, Remo Moran, un uomo d’affari di successo cileno, gli ordina di far sgomberare due vagabonde, Caridad e Carmen, che abbiano soggiornano senza pagare. Gaspare è riluttante, in particolare in quanto su è affezionato a Caridad, ma obbedisce al fine di mantenere il lavoro,e va a portare la notizia. La coppia, soprattutto Carmen, un’ex cantante d’opera, inizialmente si oppone allo sfratto, ma poi decide di andarsene. Passa il tempo e Gaspar continua a pensare a Caridad. La va a cercare in città e trova Carmen che vede discutere animatamente con un certo Rookie. Gaspar si accorge di Caridad in mezzo alla folla e la segue fino al Palacio Benvingut, un palazzo fatiscente in periferia. All’interno del palazzo scopre una pista di pattinaggio segreta, dove un’avvenente giovane, Nuria Martí, campionessa olimpionica, sta pattinando osservata da un uomo più anziano, Enric. Gaspar vede Caridad nell’ombra armata di un coltello.
Atto 2: Remo. Salto indietro nel tempo per seguire gli eventi da un altro punto di vista. Remo ha ottenuto il lavoro da Enric, a capo dei servizi sociali della città, perché allontani tutti i vagabondi dal campeggio. Egli ignora l’ordine e dedica la sua energia invece a Nuria, la pattinatrice, che è recentemente diventata la sua fidanzata. La passione iniziale tra Remo e Nuria è stata segnata dalla vanificazione delle prospettive di carriera della ragazza a cui è stato tagliato il finanziamento e lei non sa dove allenarsi. Dopo aver fatto una nuotata romantica, sulla spiaggia la coppia si imbatte in Enric e Remo vede che l’uomo è geloso del suo rapporto con Nuria. Decide allora di obbedire al suo ordine circa i vagabondi al fine di dissipare la collera di Enric. Carmen e Caridad sono sfrattati dal campeggio. Nuria comincia a passare sempre meno tempo con Remo, che si mette a bere. In un bar sul lungomare incontra Carmen e Rookie. Carmen intrattiene gli avventori con il suo canto e gli dice che ha delle informazioni con le quali potrebbe ricattare Enric. Gaspar arriva alla stanza di Remo e gli dice che ha trovato Nuria al Palacio Benvingut. Remo si precipita lì e fa una macabra scoperta: il corpo di Carmen, accoltellata a morte sul ghiaccio.
Atto 3: Enric. Si ritorna all’inizio per vedere le cose dal punto di vista di Enric. Con le elezioni amministrative incombenti, Pilar, sindaco socialista della città, ordina a Enric di liberare l’area dai vagabondi. Enric canta della sua crescente ossessione per Nuria. Dopo aver scoperto la perdita del suo finanziamento, sottrae una grande quantità di denaro pubblico per costruire una pista di pattinaggio nel Palacio Benvingut. Egli spera che questo gesto la farà innamorare di lui. Enric va con lei alla pista di pattinaggio ogni pomeriggio e guarda il suo allenamento. Di notte sogna che anch’egli possa un giorno pattinare con lei. Quando incontra Remo e Nuria insieme sulla spiaggia, le sue speranze svaniscono. Carmen e Caridad sono sfrattati dal campeggio. Nuria intuisce la gelosia di Enric e gli assicura che il suo rapporto con Remo è solo di sesso . Enric entra sul ghiaccio e tenta di ballare per lei, ma è sorpreso da un rumore fuori nell’ombra. Carmen fa visita a Enric nel suo ufficio. Lei e Caridad hanno scoperto il segreto della pista di ghiaccio durante la ricerca di un nuovo posto dove stare e Carmen ora spera di ricattare Enric in cambio del suo silenzio. Enric dà a Carmen un po’ di soldi, ma la donna se ne va avvertendolo che ne vuole di più. Per la campagna pre-elettorale Pilar accoglie gli ospiti in una discoteca. Nuria rivela accidentalmente l’esistenza della pista di pattinaggio a Pilar, che capisce subito l’appropriazione indebita di Enric. Enric tenta di mantenere la sua compostezza ballando con Nuria. Pilar affronta Enric, che ammette di aver rubato i fondi. Remo arriva con la polizia che arresta Enric per l’omicidio di Carmen. Enric protesta la sua innocenza mentre è scortato via.
Coda. Gaspar trova Caridad sul ghiaccio con in mano un coltello insanguinato. Caridad giura che non è lei che ha ucciso Carmen. La coppia progetta di fuggire in Messico. Nuria visita Enric in carcere, condannato a due anni per appropriazione indebita. Il sindaco ha perso le elezioni e Nuria non è più nella squadra olimpica e promette di aspettarlo. Remo incontra Rookie sulla spiaggia. Il vagabondo gli rivela essere l’assassino: «Perché uccidiamo sempre quelli che amiamo?».

Quella registrata e trasmessa in streaming è la prova generale fatta al pomeriggio con la luce naturale, quindi poco si può dire del disegno luci . La regia di Stewart Laing si adatta alla particolarità del teatro con le sue grandi vetrate aperte sul verde esterno. Semplicissima la scenografia: una tenda a strisce sul fondo, una cabina di plexiglas su ruote (l’ufficio comunale di Enric, quello di Remo nel campeggio, una stanza d’albergo, il parlatorio del carcere), sedie di plastica e casse di legno. E soprattutto un liscio pavimento di materiale sintetico bianco su cui piroetta la nostra Alice Poggio.

Notevole il cast in cui a fianco di giovani cantanti quali Ben Edquist (Remo), Sam Furness (Gaspar) e Lauren Zolezzi (Nuria) ritroviamo collaudati interpreti quali Alan Oke (Rookie), Grant Doyle (Enric) e Susan Bickley (Carmen, l’ex cantante d’opera, l’unica ad avere dei pezzi musicalmente conclusi), tutti ottimi e riescono a dare umanità a personaggi appena abbozzati nel testo e nella musica.

Garry Walker alla guida dell’orchestra del teatro concerta il canto declamato un po’ uniforme su cui si basa la vocalità, finché nel primo interludio, con la figura di Nutria, nella texture dissonante dell’orchestra si inserisce un elemento melodico tonale che accompagna la fluida leggerezza delle figure su ghiaccio disegnate dalla brava pattinatrice. Da quel momento l’orchestra diventa più seducente e orecchiabile fino a mimare la musica pop della festa in discoteca, il karaoke del patetico vecchietto e il momento di elegia del finale. Ogni quadro ha un suo proprio colore: al primo atto c’è grande spazio per gli archi, il secondo è più scuro con le voci del sassofono e dei legni bassi, nel terzo dominano gli ottoni.

Assieme a Thomas Adès, Ian Bell, George Benjamin, Harrison Birtwistle, Jonathan Dove, Stuart Macrae, Rachel Portman e Mark-Antony Turnage, David Sawer infittisce l’elenco dei compositori britannici viventi che hanno prodotto per il teatro. Nel Novecento c’era quasi solo Benjamin Britten, ma è da lui che si può far derivare questo nuovo interesse dei musicisti inglesi per l’opera.

Macbeth

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Giuseppe Verdi, Macbeth

Parigi, Opéra Bastille, 8 aprile 2009

★★★★★

(registrazione video)

Macbetto, borghese piccolo piccolo

Lo spettacolo è nato all’Opera di Novosibirsk nel 2008 e l’audace coproduzione è stata fortemente voluta da Gerard Mortier, direttore allora dell’Opéra National di Parigi. E si capisce il perché: questa è una delle migliori messe in scena di Dmitrij Černjakov, che si conferma come tra i più stimolanti registi di oggi. Per di più c’è a disposizione quell’altro astro (allora) in ascesa di Teodor Currentzis. Bel colpo quindi e fortunatamente registrato e commercializzato in un DVD BelAir.

In questo Macbeth di Dmitrij Černjakov non vediamo castelli medievali immersi nelle brume delle brughiere scozzesi: proiettata sul velatino una mappa satellitare di Google Earth ci fa scendere su una cittadina qualunque di oggi. Il puntatore si ferma e l’immagine zuma su una piccola piazza che potrebbe essere stata disegnata da De Chirico (casettine geometriche come le cabine dei suoi Bagnanti) o da Magritte (ombre e cieli solcati da nuvole che cambiano a seconda dello stato d’animo): una piazzetta di metafisico nitore illuminata da un unico lampione ad arco. Qui troviamo una folla anonima che dà voce ai “vaticinii”, è la gente a decidere del destino di Macbeth, siamo noi, l’opinione pubblica. Non c’è il soprannaturale nella lettura del regista russo (il fantasma di Banco e le apparizioni dell’atto terzo sono solo nella mente sconvolta dell’uomo), né particolare sete di sangue nei due coniugi: è una semplice irreversibile scalata sociale, costi quel che costi. Macbeth è un piccolo borghese con smanie di arrivismo e ha una moglie che ne è talmente innamorata da fare qualunque cosa per agevolargli la “carriera”, anche spingerlo al delitto, senza prenderne in considerazione le conseguenze. Ma ciò non diminuisce affatto il senso della tragedia, anzi lo rafforza, come fa notare Elvio Giudici: «All’interno di una qualunque banale coppia borghese sprovvista della minima grandezza – né in positivo né in negativo – la molla d’una follia distruttiva è tanto imprevedibile quanto facile a scattare: capace di trasformare in mostri dei vicini di casa che abbiamo salutato per anni […] non metafisiche incarnazioni del Male, bensì mostri quotidiani dietro l’angolo, in ciabatte e vestaglia: molto, moltissimo più terrorizzanti di grandi figure storiche sospinte da un indefinibile mondo soprannaturale nelle remote brume di un paese lontano in un’epoca lontanissima».

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Durante la lettura della lettera fatta da una voce maschile fuori scena, Google Earth ci porta nella villa dei coniugi: scendiamo dall’alto, la costruzione assume tridimensionalità, ruota su sé stessa ed entriamo dalla finestra. Qui la camera, spoglia ma col camino acceso, ha una spessa cornice ed è come sospesa nell’immenso palcoscenico dell’Opéra Bastille. Tutta la vicenda si alternerà tra questa stanza e la piazza.

La folla, minacciosa nel suo anonimato e nella sua indifferenza – c’è chi mastica chewing gum, chi mangia un panino, chi fuma – si beffa dell’uomo, si sentono spesso delle risate. Poi tutti rientrano nelle loro casette e li vedremo poi alle finestre al primo piano osservare impassibili lo scontro tra Macbeth e la moglie. Tra quella stessa folla avviene l’omicidio di Banco: appena riesce a far fuggire il figlio, viene inglobato nel passaggio degli estranei e quando questi lasciano la piazza, per terra rimane il cadavere dell’uomo, solo. La folla è però anche quella delle vittime della guerra (la città vista dall’alto mostra i segni dei bombardamenti), ognuno con un oggetto salvato da casa e il «Patria oppressa», qui un momento più sconvolgente che mai, porta a una scena ancora più toccante, con Macduff che canta «Ah, la paterna mano» dal lettino del figlio.

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La maggior parte del coro è fuori scena e noi vediamo degli attori in azione. Anche alcuni uomini muovono la bocca sulle parole cantate dalle donne e c’è un piccato recensore francese che si è scandalizzato di questo particolare: gli si può rispondere che non è certo intenzione del regista fare del realismo, ma di sottolineare la “stranità” della situazione – oltre che forse ammiccare ironicamente all’ambiguità voluta dal libretto: «Dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba».

La cura attoriale di Černjakov è a dir poco stupefacente. Bisogna vedere il rapporto fra i due coniugi, i mille particolari rivelatori della loro sofferta intesa prima del fatto e della complicità dopo. La Lady rimane sempre quella che era: una donna che accoglie il Re, una specie di Berlusconi, in uno sformato maglione, gli occhiali cerchiati di nero e i capelli spettinati e che per la festa che segue l’incoronazione mette su un vestitino sberluccicoso di pizzo nero e si esibisce in infantili giochi di prestigio con un logoro cappello a cilindro. Il neo-re in quell’occasione ha un frac un po’ fuori misura che veste male e con il papillon di traverso. Da antologia le espressioni degli invitati, come da antologia sono quelle individuali della folla della piazza.

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Nella scena del sonnambulismo la Lady ripete i gesti che aveva fatto col marito la notte del regicidio, entra ed esce dalla stanza, cincischia col cappello a cilindro, mette e toglie la tovaglia sul tavolo su cui nell’ultima scena Macbeth solo e in mutande si rannicchia in posizione fetale. Non c’è grandezza né reale né malvagia nel personaggio, solo una nuda dolente umanità. Qui viene inserito nella versione 1865 il finale 1847, con Macbeth che intona «Mal per me che m’affidai» al cui termine attacca la giubilante marcia dei vincitori, qui con un colore sinistro mentre i muri della stanza vengono demoliti a picconate dall’esterno.

La lettura di Černjakov trova un’opportuna sponda in orchestra: Teodor Currentzis esalta i momenti drammatici di questo giovane capolavoro verdiano senza mai strafare e con un’attenzione spasmodica al colore strumentale. Ogni particolare orchestrale vive con la narrazione e la esalta. Una prova magistrale per il giovane direttore greco con formazione russa.

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Vocalmente non superlativo, ma efficacissimo il Macbeth di Dimitris Tiliakos, la sua è un performance del tutto funzionale alla lettura del regista, come rileva ancora il Giudici: «Un Macbeth la cui pericolosità è diretta e proporzionale conseguenza del suo essere un omarino piccino, insicuro, ma che cionondimeno – trovandosi nel posto giusto al momento giusto – la folla può scambiare per uomo della provvidenza al punto da credersi tale lui stesso, salvo andare a pezzi con altrettanta facilità nell’una come nell’altra direzione sprovvisto della minima di grandezza, Ma non per questo meno patetico, forse addirittura commovente. È un Macbeth di oggi, quando non pare esserci più posto per il carisma del grande uomo di stato, sia esso politico o militare: Černjakov ne fa l’emblema della nuova Russia, che sfortunatamente pare però estendibile su scala planetaria, e comunque è senz’altro persona ben più comune e periodicamente risorgente».

Non nuova al personaggio della Lady, Violeta Urmana conferma le sue capacità vocali qui giudiziosamente calibrate – non fa infatti la puntatura al re♭– ma si dimostra attrice perfetta e infonde nel fraseggio e nei colori della sua parte il coinvolgimento col personaggio come l’ha voluto Černjakov. Come Macduff Stefano Secco brilla nella sua unica bellissima aria espressa con grande sensibilità mentre Ferruccio Furlanetto (Banco) supplisce con l’accento a una linea vocale non più molto fresca. Ottimi i comprimari e strabiliante il coro rimpolpato con attori. La magia delle luci è affidata al solito Gleb Filshtinsky mentre l’impeccabile video grafica è di Leonid Zalessky della Ninja Films. Andy Sommer si occupa della splendida regia video.

Dopo questo sarà difficile inventarsi un Macbeth altrettanto vero e sconvolgente. Ci proverà, a modo suo, solo Michieletto.

TEATRO STATALE ACCADEMICO D’OPERA E BALLETTO

Teatro Statale Accademico d’Opera e Balletto

Novosibirsk (1945)

1790 posti

Terzo teatro d’opera russo per importanza (dopo Mosca e San Pietroburgo), quello di Novosibirsk è però il più grande nelle dimensioni: quasi 300 mila metri cubi di volume su una superficie di 12 mila metri quadrati tanto da farlo definire “il Colosseo della Siberia”. La cupola alta 35 metri e con un diametro di 60 è il degno coronamento di un edificio imponente. Un ambizioso progetto del 1925 lo faceva parte di un complesso molto più ampio di otto edifici chiamato “La casa della scienza e della cultura” e prevedeva un anfiteatro multifunzionale di tre mila posti. Di questo piano fu realizzato solo il teatro su disegno modernista di V. Birkenberg i cui lavori furono portati avanti durante la guerra e terminati il 12 maggio 1945. La cupola che copre la sala principale è un miracolo di ingegneria essendo sottile solo 8 centimetri ed è l’unico elemento rimasto del progetto iniziale.

Negli anni ’80 del Novecento divenne improrogabile una ristrutturazione che ebbe termine nel 2004. Ora l’edificio vanta una decorazione rinnovata pur nello stile originale e impianti tecnologici all’avanguardia. È stato possibile anche ricavare una seconda sala di  333 posti, l’auditorium Isidor Zak, inaugurata nel 2017.

Lulu

Alban Berg, Lulu

★★★☆☆

Salisburgo, Felsenreitschule, 8 agosto 2010

(registrazione video)

Patricia Petibon è Lulu

Evento del Festival di Salisburgo dell’agosto 2010, questa Lulu di Alban Berg, nella versione completata da Friederich Cerha, ha per la parte visiva il contributo di Daniel Richter a cui il Museum der Moderne Salzburg dedica un’esposizione in contemporanea. Il pittore tedesco dipinge i ritratti di Lulu di cui parla il libretto e altre figure dai colori lividi e in stile neo-espressionista che fanno da sfondo allo sterminato palcoscenico della Felsenreitschule. Solo le luci di Manfred Voss danno un minimo di spazialità a questo intervento che altrimenti risulta piatto e statico. Tutto ruota sulla messa in scena di Vera Nemirova che fa agire gli interpreti in proscenio, ma nella scena parigina con cui inizia il terzo atto li porta in mezzo al pubblico con le loro coppe di champagne a discutere di azioni e di soldi, mescolandoli agli spettatori che hanno gli stessi abiti da sera e che ne sembrano molto divertiti.

Partricia Petibon pochi mesi dopo il debutto nel ruolo a Ginevra con la regia di Olivier Py indossa per la seconda volta i panni di Lulu e ne fa cosa propria: la tessitura acuta è pane per i suoi denti e la presenza scenica impressionante. Gran merito va al costumista Klaus Noack che disegna per lei degli outfit intriganti e con gran profusione di piume per sottolineare il ruolo di animale in gabbia della protagonista. Accanto a lei formano un cast eccellente: Michael Volle (Dr. Schön e Jack lo squartatore), Thomas Johannes Mayer (Domatore e Rodrigo), Pavol Breslik (Pittore e Negro), Thomas Piffka (Alwa), Tanja Ariane Baumgartner (Geschwitz), Franz Grundheber (Schigolch).

Marc Albrecht sul podio lotta contro l’acustica infelice del teatro salisburghese ma riesce a dare una lettura che sottolinea nell’opera la naturale eredità del lussureggiante linguaggio musicale della Vienna fine secolo.

Dialogues des Carmélites

Francis Poulenc, Dialogues des Carmélites

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 8 aprile 2010

(registrazione video)

La Corte d’Appello di Parigi e la minaccia alla libertà di espressione 

Nell’ottobre 2015 la Corte d’Appello di Parigi ha condannato la casa editrice BelAir a cessare la vendita del blu-ray e la trasmissione in rete dello spettacolo Dialogues des Carmélites perché gli eredi di Bernanos non hanno apprezzato la messa in scena del regista Dmitrij Černjakov.

È un fatto di una gravità inaudita poiché per la prima volta in Francia si mette in discussione la creatività artistica e la libertà di espressione. Autore ed eredi hanno sì la facoltà di beneficiare dei diritti economici derivanti da un’opera, ma un lavoro dell’intelletto non è gelosa proprietà dei capricciosi discendenti, bensì patrimonio dell’umanità e come tale deve “subire” la legittima interpretazione che ne viene data nel tempo. Spiace poi che ne sia vittima un regista che ha dimostrato grande intelligenza e senso del teatro in spettacoli memorabili come La sposa dello zar appena uscito in disco, La leggenda della città invisibileIl Principe Igor del MET o Chovanščina, per citarne solo alcuni.

Gongoleranno le vestali della tradizione mummificata nostrana, ma questa è una pagina molto triste per la cultura e per la libertà di espressione artistica. La produzione era andata in scena nel 2010 alla Bayerische Staatsoper di Monaco con la direzione musicale di Kent Nagano.

Nella lettura del regista russo la vicenda viene sgombrata da tutte le implicazioni religiose e storiche, magari importanti per Poulenc, ma non per chi la mette in scena. Scelta discutibile, certamente, ma legittima per un artista. Tra i tanti, Picasso ha interpretato a suo modo Velázquez, Stravinskij Pergolesi, Carmelo Bene Shakespeare. Per andare sul sicuro e non incappare nelle ire dei litigiosi eredi bisogna limitarsi allora ad autori scomparsi da almeno cento anni?

Ecco la vicenda secondo Černjakov. Blanche de la Force soffre di attacchi di panico, «une horrible faiblesse» la definisce lei stessa. Non è aiutata dal padre e dal fratello che la trattano come un’incapace. Probabilmente soffre anche di un profondo senso di colpa: la madre è morta nel darla alla luce dopo un burrascoso viaggio in una carrozza assaltata dalla folla in tumulto. Vediamo infatti Blanche all’inizio dell’opera sperduta e strattonata da una folla in frenetico movimento, una folla che, anche se in abiti moderni, è parente di quella «multitude en panique» che di lì a pochi mesi – siamo infatti nell’aprile del 1789 nella pièce di Bernanos – prenderà d’assalto prigioni e conventi. Per trovare il conforto che non trova in famiglia, Blanche si rifugia in un’austera comunità, una setta di donne turbate e al limite della paranoia, che si sono isolate dal resto del mondo. E fin qui siamo perfettamente coerenti col libretto. Al padre che la accusa di cedere ai consigli «d’une dévotion exaltée» e di voler abbandonare il mondo per dispetto, la figlia risponde: «Je ne méprise pas le monde, le monde est seulement pour moi comme un élément où je ne saurais vivre. Oui, mon père, c’est physiquement que je n’en puis supporter le bruit, l’agitation. Qu’on épargne cette épreuve à mes nerfs, et on verra ce dont je suis capable» (Io non disprezzo il mondo, il mondo per me è soltanto un elemento in cui non saprei vivere. Sì, padre mio, non riesco fisicamente a sopportare il rumore, la confusione. Mi si risparmi questa prova di nervi, e si vedrà di cosa sono capace). Nella vecchia priora della comunità Blanche trova la madre che non ha mai avuto, ma quando la priora muore in maniera quasi degradante dopo una grave malattia, Blanche è angosciata e non si sente più così sicura nella comunità. La scelta di una nuova priora è poi motivo di ulteriore incertezza tra le donne. Inutilmente il fratello di Blanche tenta di riportare a casa la sorella: il padre è malato e le cose fuori si mettono male per i nobili. Blanche rifiuta e rimane nel convento, che presto è infatti preso di mira dai rivoluzionari. Il padre confessore viene allontanato e, temendo ormai il peggio, madre Marie invita le consorelle ad accettare il voto del martirio. Le donne devono abbandonare il convento e madre Marie va a cercare Blanche che vive una vita misera tra le rovine del castello di famiglia. Volendo a tutti i costi salvare il loro rifugio che le protegge dal mondo esterno, le donne si sono barricate al suo interno con delle bombole di gas velenoso. All’ultimo momento, mentre la polizia recinta la zona e la folla osserva sgomenta, arriva Blanche che salva una a una le consorelle, ma alla fine perde la vita nell’edificio che esplode.

Claustrofobica e inquietante è la messa in scena di Černjakov e perfettamente coerente con l’interpretazione dei personaggi quali soggetti nevrotici. Dal punto di vista teatrale e drammaturgico l’allestimento è incredibilmente efficace e visivamente magnifico. E per assurdo è proprio la sua lettura a-religiosa a mettere in luce le qualità della scrittura di Bernanos, piena di dubbi e incertezze in pieno contrasto con l’ostentata e tardiva conversione cattolica dello scrittore («Dieu s’est fait lui-même une ombre…» dice la madre superiora poco prima di morire).

La lettura di Černjakov è aiutata in questo anche dalla direzione lucida e analitica di Nagano (probabilmente neanche lui cattolico) e dalla magnifica Staatsorchester bavarese. Eccellente la compagnia di canto, dal Marchese de la Force, un inossidabile Alain Vernhes, a Bernard Richter, ottimo tenore lirico nel ruolo del fratello di Blanche, dalla Blanche stessa di Susan Gritton, alle sorelle tutte di cui sarebbe lungo citare i nomi. Gli iniziali dissensi nel momento in cui il regista sale sul palco per i saluti finali sono presto del tutto sommersi dai fragorosi applausi del pubblico di Monaco.

L’unica risposta possibile a questo episodio intollerabile di repressione artistica del tribunale francese sarebbe la ripresa dello spettacolo da qualche parte in Francia o altrove. Per poterne discutere, liberamente. A questo servono il teatro e la libertà d’espressione.

Aggiornamento: La Cassazione di Francia ha tolto la proibizione alla pubblicazione del DVD che verrà distribuito nuovamente dalla Bel Air da settembre 2017.

Pelléas et Mélisande

foto Toni Suter T+T Fotografie

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

★★★☆☆

Zurigo, Opernhaus, 8 maggio 2016

(video streaming)

Mélisande sul lettino dello psicoterapista

Dmitrij Černjakov a Zurigo decontestualizza Pelléas et Mélisande come farà l’anno successivo con la Carmen a Aix-en-Provence o con Les Troyens a Parigi: niente tetro castello qui, niente fontana, niente grotta marina, niente sotterranei, niente torre e non c’è neanche la capigliatura della enigmatica fanciulla: tutto è nell’immaginazione dei protagonisti – e del pubblico.

Mentre in Carmen l’idea forte sarà quella di far vivere la vicenda come un gioco di ruolo terapeutico a un uomo in crisi, qui in crisi è Mélisande, giovane traumatizzata da qualche misteriosa esperienza del suo passato, che si rifugia in un autismo rabbioso fino a che il dottore/Golaud, nell’intento di farle superare il trauma, se la porta a casa per inserirla in un’atmosfera famigliare, non meno pericolosa però.

Sarà che Carmen è un’altra cosa, con la sua alternanza di parlato e di cantato; sarà che la sfacciata musica di Bizet ha un impatto ben diverso dell’estenuato declamato di Debussy; sarà che la protagonista, seppur brava, deve rimanere inquadrata in una fissa espressione spaventata e imbronciata per tutta la durata dell’opera, ma questa volta la lettura del regista russo non convince pienamente nonostante la profondità dell’idea di fondo – si tratta pur sempre di Černjakov, uno dei più intriganti metteur en scène di oggi. Se nulla è certo nelle parole del dramma di Maeterlinck, qui non solo le parole perdono significato, anche i personaggi non sono più quelli: lo psicoterapeuta a un certo punto si comporta come uno psicopatico brutalizzando moglie e figlio – ma non uccide il fratello che semplicemente se ne va via di casa – mentre il vecchio libidinoso Arkel cerca di baciare la giovane Mélisande e il bambino Yniold non è così innocente, quasi un doppio della matrigna con i suoi astratti furori.

E poi c’è lei, Mélisande, che agisce da elemento perturbatore di una famiglia di oggi insopportabilmente borghese che si attacca a gesti rituali (come bere in continuazione dell’acqua – ecco dov’è l’acqua che manca nella scenografia e che viene citata ben venti volte nel libretto!) – in un silenzio teso che sottolinea l’incomunicabilità dei personaggi.

Le quindici scene del dramma si susseguono inesorabili, separate da istanti di buio totale. L’atmosfera brumosa del dramma simbolista di Maeterlinckm tradotta nel lirismo fluttuante di Debussy, diventa qui il nitido interno di una villa modernista con i suoi grandi spazi, un’enorme vetrata che dà su un bosco di alti alberi scossi eternamente dal vento – unica concessione a una natura che spaventa – e mobili di design. Nella scenografia disegnata dallo stesso Černjakov vediamo un alto ambiente in diagonale: una grande porta a soffietto a sinistra e uno schermo al plasma sulla parete; la parete destra è inclinata e tagliata da due finestre, per terra due chaise longue per il riposo; al centro in fondo la zona pranzo schermata da una leggera tenda azionata elettricamente. Le pareti e il pavimento sono grigi e tutti gli elementi d’arredo bianchi. Solo il legno chiaro della porta immette un elemento naturale in questo interno asettico abilmente illuminato dal design luci di Gleb Filshtinsky.

Sullo schermo televisivo compaiono alcune clip del comportamento turbato della giovane in ospedale prima della decisione del dottore che l’ha in cura di portarla a casa sua per continuare il trattamento – ma anche perché se ne è innamorato. E qui la giovane incontra un altrettanto inquieto e introverso Pelléas, con cui riesce finalmente a comunicare. Ma l’erotismo è completamente assente tra di loro: più che un’illecita relazione, la loro sembra l’unione di due giovani spaesati che si trovano ma non sanno cosa fare delle loro vite, ancor meno dei loro corpi. E se togli l’elemento sensuale da un Pelléas visivamente decontestualizzato come questo, che cosa rimane?

Lo understatement della regia di Černjakov non sembra condiviso dalla direzione di Alain Altinoglou, che offre una lettura drammatica della partitura ben lontana da una visione art nouveau: ci sono momenti nella sua esecuzione musicale di grande crudezza e modernità, quasi espressionistici. Lo sostengono interpreti di vaglia, tutti dalla perfetta dizione francese, sì anche il sudafricano Jacques Imbrailo, che ritorna nella parte di Pelléas con perfetta adesione e bel colore della voce. L’autorevole Kyle Ketelsen fa di Golaud il personaggio principale della vicenda mentre Corinne Winters è una Mélisande tormentata: dimentichiamo la misteriosa principessa dai veli fluttuanti, qui è in felpa con cappuccio e anfibi ai piedi, capigliatura corvina da homeless che non vede un pettine da tempo memorabile e uno sguardo che perfora e ti fa sentire in colpa senza sapere il perché.

Satyagraha

Philip Glass, Satyagraha

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 19 novembre 2011

(video streaming)

Ritorna al MET lo spettacolo coprodotto con l’ENO

Arduo compito quello di mettere in scena un’opera senza una vera e propria narrazione e cantata in sanscrito!

Queste sono le sfide che Philip Glass lancia a chi vuole affrontare Satyagraha, la parte centrale della sua “trilogia dei ritratti” degli anni 1976-1983. Il Metropolitan Opera House ripropone nel suo cartellone la produzione di Phelim McDermott che era nata nel 2007 all’English National Opera di Londra per festeggiare i 60 anni di indipendenza dell’India e che si era poi vista a New York nel 2008. Con lo scenografo Julian Crouch, il costumista Kevin Pollard e la lighting designer Paula Constable, Phelim McDermot mette in piedi uno spettacolo di grande forza visiva ed emotiva.

La vicenda degli anni passati in Sud Africa da Mohandas K. Gandhi, dal 1893 al 1914, si sviluppa tematicamente piuttosto che cronologicamente nel lavoro di Glass e il regista costruisce dei quadri visivamente imponenti partendo da una scenografia povera, uno sfondo curvo di lamiera ondulata arrugginita che ricorda le shanty town dei neri, in cui si aprono varchi e finestre per le apparizioni degli “spiriti guida” o l’ingresso della masse finalmente dotate di coscienza politica da esprimere con l’opzione della non violenza secondo la filosofia del satyāgraha, “la perseveranza della verità”. Il mezzo principale scelto da McDermott è quello di grandi burattini che raccontano la storia non presente nel libretto, che è un insieme di massime tratte dal Bhagavadgītā (Canto del Divino), il poema al centro dell’epica Mahābhārata e testo fondamentale della religione Hindu.

Musicalmente Glass in Satyagraha perfeziona il suo metodo compositivo in cui piccole unità sonore costruiscono a poco a poco degli schemi identificabili (pattern) che variano in tono e volume mentre si allungano, si accorciano, si ripetono, formano cicli e muoiono. L’idea è semplice: Glass col suono fa ciò che i bambini fanno con i blocchi di legno: inizia con una piccola serie di suoni, da quattro a nove, ma ripetendo quell’unità costruisce un pattern, generalmente di quattro o otto battute. Variandolo leggermente, crea un’unità diversa e ora può usare le due unità per costruire pattern diversi. Le unità si ripetono all’interno dei pattern, che si ripetono in ciò che Glass chiama “cicli”. Non ci vuole molto perché l’originale serie di suoni diventi un’intricata linea musicale. Glass potrebbe cambiare il numero di ripetizioni all’interno di un pattern o il numero di ripetizioni del pattern e questi cambiamenti hanno grandi conseguenze: si increspano, trasformano il pezzo musicale. La piccola serie di note è diventata musica ricca e inaspettata. Le cose diventano ancora più intricate quando viene suonata una seconda linea di musica – basata su un’unità completamente diversa, ripetuta di nuovo in serie contemporaneamente alla prima. Emergono così armonie ricche e ritmi sorprendenti. Di tutto ciò è ben conscio Dante Anzolini, esperto della musica di Glass, a cui è affidata la direzione musicale. Alla guida dell’orchestra del teatro il maestro restituisce la complessa partitura in tutta la sua forza ipnotica.

Lo affiancano in scena interpreti di grande livello come Richard Croft (Gandhi) che col suo timbro luminoso e la sua intensa espressività mette in luce le intenzioni del personaggio nonostante il testo spersonalizzato e incomprensibile. Se gli si può fare un appunto è proprio questa ricerca eccessiva di intenzioni, neanche si trattasse di Lied, che rende un po’ manierata la sua performance. Più freddamente contenuta la parte di Rachelle Durkin (Miss Schlesen) tutta espressa in un registro stratosferico che il soprano coloratura australiano gestisce senza fatica. Kim Josephson (Mr. Kallenbach) e Alfred Walker (Parsi Rustomji) sono gli altri efficaci interpreti principali. È poi al coro, vero protagonista dell’opera e quasi sempre presente in scena, che vanno le lodi per aver cantato in una lingua del tutto sconosciuta una parte estremamente difficile.

Orlando

Olga Neuwirth, Orlando

★★★☆☆

Vienna, Staatsoper, 8 dicembre 2019

(video streaming)

La prima opera gender-bending

La Staatsoper di Vienna non è certo conosciuta per l’audacia della sua programmazione: è uno dei teatri europei di stampo più conservatore sia nella scelta dei titoli sia nella loro messa in scena. Ma questa volta ha fatto un’eccezione per una compositrice austriaca come Olga Neuwirth, cinquantaduenne musicista non nuova al teatro musicale nelle sue forme più libere: teatro musicale (Bählamms Fest, 1998), installazione musicale (The Outcast da Melville, 2011) o adattamenti e nuove interpretazioni di opere come la Lulu di Alban Berg (American Lulu, 2011) o di film (Lost Highway da David Lynch, 2003).

Orlando, su un verboso libretto della stessa Neuwirth e di Catherine Filloux, è ovviamente basato sull’omonima “biografia” di Virginia Woolf, ma la cavalcata attraverso i tempi del protagonista, che necessariamente terminava nel 1928, data di pubblicazione del libro, nell’opera arriva fino ai giorni nostri.

Parte I. Nel 1598, il giovane aristocratico inglese Orlando viene cresciuto per una carriera militare. Il suo angelo custode lo osserva da lontano. Lui scopre la poesia. Arriva quasi troppo tardi per l’arrivo della regina Elisabetta I, si avvicina a lei timidamente, ma nota subito la discrepanza tra potere e fragilità, mentre la regina è incantata dalla sua giovinezza e lo colma di onorificenze prima di morire. Durante il rigido inverno del 1610, i festeggiamenti si svolgono sul Tamigi ghiacciato. Sebbene fidanzato, Orlando si innamora appassionatamente dell’affascinante Sasha, che però preferisce divertirsi con un marinaio russo. Sascha scompare e il gelo si scioglie. Orlando è profondamente ferito e si ritira in solitudine nella sua tenuta. Cade in un sonno mortale, dal quale le pratiche mediche arcane non possono svegliarlo. Quando si sveglia, torna a essere un poeta; la sua opera porterà il titolo “La quercia”. Tuttavia, ricomincia a desiderare la compagnia, ma il suo collega poeta Greene è vanitoso e non interessato alla poesia di Orlando, ma solo ai suoi soldi. Deluso dalla vita e dall’arte, Orlando decide di voltare le spalle all’Inghilterra e si fa distaccare come ambasciatore in una terra lontana. La guerra e la crudeltà abbondano e Orlando cade di nuovo in trance. La Purezza, la Modestia e la Castità visitano il poeta addormentato, ma vengono allontanate dal canto del coro e da una musica di ottoni. Orlando si sveglia come una donna! Ispirata dal desiderio di scrivere poesie, ora si rende conto che la attende una vita difficile come donna. È percepita nient’altro che come un corpo – un marinaio quasi cade dall’albero quando intravede la sua caviglia. Ma solo il suo corpo è cambiato, sotto tutti gli altri aspetti rimane la stessa persona. Di ritorno in Inghilterra, invita i suoi colleghi poeti Pope, Addison, Dryden e Duke a prendere il tè. Loro accettano, ma non prestano attenzione al suo lavoro. Quando rifiuta la proposta di matrimonio di Duke, questi la minaccia di farle perdere la casa e prevede che finirà la sua vita nella miseria come prostituta. Orlando donna vive l’atmosfera sociale opprimente dell’età vittoriana; dietro un’ipocrita facciata borghese, l’inettitudine degli individui rende facile per il potere trarne vantaggio sotto ogni aspetto. Le donne e i bambini sono le prime vittime: lo sfruttamento dei bambini ha raggiunto un massimo in questo momento storico. Il putto esprime speranza.
Parte II. La Prima Guerra Mondiale. Mentre fugge su terreni accidentati, Orlando si rompe la caviglia, ma viene portata in salvo dal fotografo di guerra Shelmerdine che conosce il suo lavoro “La quercia” e le chiede di sposarlo e diventare la madre di suo figlio. Orlando e Shelmerdine si sposano, ma non c’è fine alla miseria della guerra. Shelmerdine diventa corrispondente di guerra e dei suoi orrori. La generazione del 1968, incluso Orlando, vuole porre fine alla grande delusione. Orlando continua a scrivere. Negli anni ’80, Orlando ha una ragazza e entra in scena il computer. Orlando è arrogantemente ammonita da un gentiluomo: secondo lui sta imbrattando la purezza della letteratura. Dovrebbe smettere di scrivere e sposarsi. Anche Greene è sopravvissuto ai secoli ed è ora un editore di successo. Anche lui le dice che tipo di letteratura dovrebbe scrivere se vuole avere successo: deve mantenere tutto semplice, altrimenti non può pubblicare le sue opere, meno che mai come e-book. Anche se ha perso la casa (proprio come aveva predetto Duke), non si lascerà manipolare, ma preferisce aderire alla massima di Virginia Woolf: «Le parole odiano fare soldi…». Shelmerdine viene ucciso nella guerra in Iraq e Orlando piange la sua perdita. Il figlio genderqueer di Orlando è convinto che ci debba essere una via d’uscita dalla miseria, ci si deve solo avere il coraggio di essere quello che si è e non adattarsi. Orlando ha fornito questa possibilità a suo figlio. Nel frattempo, tuttavia, un altro movimento ha messo radici: “Prima noi! Prima noi!” grida la gente. Orlando vuole contrastare questo movimento con i suoi scritti. I “bambini sradicati” temono per il loro futuro, mentre per Orlando i tempi e le esperienze si stabiliscono saldamente nella sua memoria in modo che non dimenticherà. Il narratore sostiene che le differenze sono irrilevanti, solo l’umanità è un obbligo. Il passato, il presente e il futuro si dissolvono. Orlando continuerà a scrivere, perché: «Nessuno ha il diritto di obbedire». Il putto è convinto che troveremo la nostra libertà, i cori ci ammoniscono di stare all’erta e il narratore ha l’ironica ultima parola.

Come sono molti gli oltre quattro secoli in cui si sviluppa la vicenda, così sembrano molte le tre ore interminabili di uno spettacolo che si sviluppa in un prologo e diciannove scene. L’ambizioso messaggio politico prende la mano alle autrici del testo e della musica e non c’è argomento che non venga affrontato: solo negli ultimi trenta minuti si passa dai sovranismi all’ecologia, dal razzismo all’ideologia queer, dal consumismo all’incertezza di futuro per i giovani. La musica della Neuwirth è di impianto atonale, ma quando si aggrega in qualcosa di tonale subito l’intonazione devia così da creare una specie di musica “stonale” con i secondi violini volutamente accordati a un diapason minore. Nella sua eclettica partitura, diretta da Mattias Pintscher, entra di tutto, dall’aria barocca a Bella ciao ai riff della chitarra elettrica, così da ricreare quello che in pittura erano i manifesti strappati di Mimmo Rotella, con immagini differenti che appaiono in punti diversi del quadro. Il procedimento però ben presto stanca in mancanza di una linea musicale che capti in qualche modo l’attenzione dell’ascoltatore. Anche quanto si vede in scena, con la regia di Polly Graham e il set design di Roy Spahn, che utilizza in abbondanza il mezzo visivo (spezzoni di documentari storici e i video di Will Duke proiettati su pannelli mobili) affascina senza coinvolgere. Si ha un unico momento di emozione nella scena della Seconda Guerra mondiale: sullo sfondo compaiono i nomi di quanti hanno perso la vita nei campi di concentramento nazisti, nomi che lentamente sbiadiscono fino a scomparire sulle note del Concerto per due violini di Bach, che si spengono sull’immagine del fungo atomico e delle rovine della guerra.

Per il ’68 entrano in scena una batteria e una chitarra basso che si aggiungono all’orchestra per riprendere frammenti di successi rock del periodo fino ad arrivare al punk degli anni ’80. Presto si unirà un altro personaggio, il figlio di Orlando, qui impersonato dall’artista transgender Justin Vivian Bond, che canta la libertà di non essere o uomo o donna, mentre il coro inneggia alle lodi dei membri sessuali maschili e femminili.

Lunghi brani di testo sono recitati da un “narratore”, Anna Clementi, che dovrebbe avere le fattezze della Woolf, ma come per tutti gli altri personaggi, sono eccessivi e strampalati, in una parola brutti, i costumi firmati Comme les Garçons, così come esageratamente stravaganti sono le parrucche.

Non sono molte le cantanti che hanno la vocalità necessaria, la personalità e la stamina di affrontare una parte come questa di Orlando. Vengono in mente i nomi di Barbara Hannigan e di Kate Lindsey, ed è infatti a quest’ultima che tocca attraversare i secoli del libretto, ma diversamente dalla Elina dell’Affare Makropulos, qui cambia sesso e lotta per i suoi diritti. Il mezzosoprano americano è il giusto animale da palcoscenico e l’impervia parte vocale non è un problema per lei che deve usare un registro basso quando è uomo, e uno più acuto e varie fioriture quando diventa donna. Innegabile l’impegno anche degli altri interpreti tra cui Eric Jurenas (angelo custode un po’ inquietante) e Leigh Melrose (Shelmerdine e la maschera di Greene).

Come scrive il quotidiano viennese “Die Presse” all’indomani della prima: «Orlando è un ibrido sotto tutti gli aspetti, tra dramma teatrale e opera, tra epico e drammatico, tra postmoderno e avanguardia, tra i più diversi stili vocali e musicali. L’opera stessa, come il suo protagonista, sfida ogni definizione o incasellamento in una categoria consolidata, mettendo in pratica la sua stranezza a tutti i livelli e Neuwirth è straordinariamente coerente in questo senso. Se l’opera segnerà o meno una nuova pietra miliare, solo il futuro lo dirà. Ma la Staatsoper è sicuramente cresciuta da questo sforzo collettivo».

Olga Neuwirth è la prima donna a presentare una sua opera nel prestigioso teatro nei suoi 150 anni di esistenza.

Aida

Giuseppe Verdi, Aida

★★★★☆

Busseto, Teatro Verdi, 27 gennaio 2001

(registrazione video)

L’Aida da camera di Zeffirelli

Chi continua a ribadire, giustamente, che Aida è un’opera intimista questa volta è accontentato: dall’Arena di Verona (14.000 posti, 47 metri di palcoscenico) l’opera si trasferisce al Verdi di Busseto (300 posti, palcoscenico di 7 metri) con lo stesso regista, Franco Zeffirelli, che nel 2001, anno del centenario verdiano, riprende una delle sue tante produzioni per adattarla al minuscolo ambiente del teatro della città natale del compositore.

La tentazione di fare di questa Aida in sedicesimo una caricatura del kolossal che conosciamo è subito fugata da Zeffirelli che prende del tutto seriamente la vicenda e utilizza astuti stratagemmi scenografici per ingannare la vista degli spettatori. L’esiguità degli spazi stimola il regista a concentrare il lavoro sulla recitazione dei cantanti, che rispondono con eccellente professionalità. Non guasta l’avvenenza e la giovane età degli interpreti.

Anche l’orchestra qui è ridotta, tale da dare un tono quasi cameristico all’opera, ma la mano sicura di Massimiliano Stefanelli riesce a ricreare i colori della partitura e a mantenere sempre viva la tensione drammaturgica e a dipanare con intensità i tanti momenti lirici. Le trombe ci sono, anche se la parata in scena non ci sta: se ne sente la musica fuori, con lo sfondo di una piramide inondata dal sole, e la vediamo come Aida da dietro le spalle della folla che inneggia ai vincitori. Di conseguenza la scena è drasticamente accorciata. Una soluzione geniale e necessaria ma certo non del tutto convincente. Precedentemente le danze nel tempio erano state affidate a una sola ballerina, la 65enne Carla Fracci. Suggestive ed efficaci le luci di Vinicio Cheli.

Bella e brava l’Aida di Adina Aaron dal giusto accento drammatico che con la sua non perfetta dizione esalta il carattere esotico della schiava etiope. Il Radamès di Scott Piper è eccellente per timbro e a suo agio negli acuti, ma termina giustamente in piano la sua prima aria ed è perfetto nell’ultimo atto. Con lui si sente l’assistenza ai giovani cantanti fornita da Carlo Bergonzi. Una Amneris un po’ fuori parte è quella di Kate Aldrich, seppure come sempre vocalmente sicura. Potente l’Amonasro di Giuseppe Garra e non esageratamente trucido come spesso viene dipinto. Magnifico il Ramfis di Enrico Giuseppe Iori.

Magnifica la ripresa video di Fausto dall’Olio con primi piani di volti e sguardi intensi.

Akhnaten

Philip Glass, Akhnaten

★★★★★

New York, Metropolitan Opera House, 23 novembre 2019

(video streaming)

Finalmente un trionfo per Akhnaten al Metropolitan

Trentacinque anni dopo il debutto a Houston, Akhnaten ritorna a New York per la seconda volta, ma se lo spettacolo del 1984 alla New York City Opera fu basico e noioso, ora questo alla Metropolitan Opera House non potrebbe essere più monumentale, diventando uno degli avvenimenti lirici più sorprendenti degli ultimi anni.

Affidato a Phelim McDermott, che nel 2008 aveva qui allestito Satyagraha, l’altro pannello della “trilogia politica” di Philip Glass, questo Akhnaten arriva dalla English National Opera, dopo essere passato a Los Angeles, con qualche minima variante – qui manca il nudo integrale del protagonista nella scena della sua vestizione.

Il regista affronta il problema della mancanza di drammaturgia dell’opera utilizzando dei giocolieri, il che non è una trovata estemporanea: la giocoleria era una pratica diffusa nell’antico Egitto, come dimostrano le pitture parietali della tomba 15 di Beni Hassan (1) dove si vedono figure femminili, una di queste con le braccia incrociate, lanciare in alto e riprendere due o più palle. La presenza di questo gioco secondo gli studiosi si deve alla simbolica forma sferica e alla conseguente correlazione col disco solare o col ciclo della nascita e della morte. Con la sua compagnia di giocolieri, Sean Gandini mima l’astratta geometria della partitura con le sue infinite ripetizioni e variazioni: i giochi di destrezza lasciano con il fiato sospeso tanto quanto la tensione ritmica incessante sprigionata dalla musica di Glass. I movimenti al rallentatore (alla Robert Wilson, si direbbe) dei protagonisti si affiancano alla vivacità delle acrobazie che riempiono gli spazi vuoti di una drammaturgia volutamente assente. Nella scena della costruzione della città di Amarna le palle crescono di numero e vengono lanciate sempre più in alto, mentre nella riforma della religione così come Aten (Aton) rimpiazza il vecchio pantheon egizio così le sfere sono sostituite dalle clave che diventano anche archi e frecce nelle scene di caccia e di guerra.

Quello della giocoleria non è l’unico dettaglio filologico inserito dal regista nello spettacolo: l’opera inizia con la sepoltura di Amenhotep III, il padre di Akhnaten (Amenhotep IV), con i sacerdoti attorno al cadavere del vecchio faraone mentre lo preparano alla mummificazione estraendo gli organi da collocare nei vasi canopi (qui sei invece dei quattro prescritti) mentre il cuore viene pesato su una bilancia identica a quella raffigurata nella pittura egizia. È il rito della psicostasia del Libro dei morti, la “pesatura del cuore” o “pesatura dell’anima”: se il cuore è più leggero di una piuma di struzzo, il defunto è degno di entrare nel regno dei morti.

Altri particolari ancora danno valore a un allestimento che risulta profondamente coinvolgente e spettacolare con le scenografie elegantissime di Tom Pye e l’onirico gioco luci di Bruno Poet. Dello stesso Pye sono i costumi, che raggiungono un livello di magnificenza e fantasia difficilmente eguagliabile. Fantasmagorico quello per l’incoronazione del protagonista compreso di crinolina, facce di bambolotti come decorazioni, gioielli, incrostazioni e ricami in una profusione d’oro e turchese. La regina madre Tye è addobbata come Mary of Teck, la regina consorte di Georgio V e imperatrice dell’India. Aye invece incarna il Baron Samedi, la divinità voodoo, con teschio sul cappello a cilindro, mentre il grande sacerdote di Amon ha un bucranio sulla mitra vescovile. A questo punto non desta quasi stupore che Nefertiti abbia una parrucca blu, lo scriba/Amenhotep III quattro Rolex d’oro ai polsi e Tutankhamon delle sneaker Louboutin, il modello dorato, ovviamente…

Alla testa dell’orchestra del teatro Karen Kamensek, cresciuta con la musica di Glass, dipana con precisione – forse un po’ meccanica – gli arpeggi ripetuti e le minime variazioni della partitura che portano a uno stato di trance l’ascoltatore mentre in scena agisce un cast di eccellenza con la voce asessuata del controtenore Anthony Roth Costanzo che raggiunge l’acme della sua performance nell’ipnotico “Inno al Sole” che conclude il secondo atto con un abile uso delle mezze voci. Il soprano islandese Dísella Lárusdóttir presta il luminoso colore della sua voce per gli interventi nel registro acuto della regina Tye, mentre toni più sensuali sono quelli del mezzosoprano J’Nai Bridges, Nefertiti. Efficace il trio dei ribelli interpretato da Aaron Blake (Grande sacerdote di Amon), Will Liverman (Horemhab) e Richard Bernstein (Aye). Il basso-baritono Zachary James qui ha solo un ruolo parlato, ma la recitazione e la presenza scenica lo rendono memorabile come scriba e spirito di Amenhotep III. Il coro del teatro istruito da Donald Palumbo si dimostra anche questa volta al di sopra delle aspettative dovendo cantare in lingue sconosciute.

(1) Questo e altri dettagli filologici mi sono stati rivelati da Elisabetta Valtz che ancora una volta ha messo a disposizione le sue preziose competenze sull’antico mondo egizio.