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Philip Glass, Akhnaten
★★★★★
New York, Metropolitan Opera House, 23 novembre 2019
(video streaming)
Finalmente un trionfo per Akhnaten al Metropolitan
Trentacinque anni dopo il debutto a Houston, Akhnaten ritorna a New York per la seconda volta, ma se lo spettacolo del 1984 alla New York City Opera fu basico e noioso, ora questo alla Metropolitan Opera House non potrebbe essere più monumentale, diventando uno degli avvenimenti lirici più sorprendenti degli ultimi anni.
Affidato a Phelim McDermott, che nel 2008 aveva qui allestito Satyagraha, l’altro pannello della “trilogia politica” di Philip Glass, questo Akhnaten arriva dalla English National Opera, dopo essere passato a Los Angeles, con qualche minima variante – qui manca il nudo integrale del protagonista nella scena della sua vestizione.
Il regista affronta il problema della mancanza di drammaturgia dell’opera utilizzando dei giocolieri, il che non è una trovata estemporanea: la giocoleria era una pratica diffusa nell’antico Egitto, come dimostrano le pitture parietali della tomba 15 di Beni Hassan (1) dove si vedono figure femminili, una di queste con le braccia incrociate, lanciare in alto e riprendere due o più palle. La presenza di questo gioco secondo gli studiosi si deve alla simbolica forma sferica e alla conseguente correlazione col disco solare o col ciclo della nascita e della morte. Con la sua compagnia di giocolieri, Sean Gandini mima l’astratta geometria della partitura con le sue infinite ripetizioni e variazioni: i giochi di destrezza lasciano con il fiato sospeso tanto quanto la tensione ritmica incessante sprigionata dalla musica di Glass. I movimenti al rallentatore (alla Robert Wilson, si direbbe) dei protagonisti si affiancano alla vivacità delle acrobazie che riempiono gli spazi vuoti di una drammaturgia volutamente assente. Nella scena della costruzione della città di Amarna le palle crescono di numero e vengono lanciate sempre più in alto, mentre nella riforma della religione così come Aten (Aton) rimpiazza il vecchio pantheon egizio così le sfere sono sostituite dalle clave che diventano anche archi e frecce nelle scene di caccia e di guerra.
Quello della giocoleria non è l’unico dettaglio filologico inserito dal regista nello spettacolo: l’opera inizia con la sepoltura di Amenhotep III, il padre di Akhnaten (Amenhotep IV), con i sacerdoti attorno al cadavere del vecchio faraone mentre lo preparano alla mummificazione estraendo gli organi da collocare nei vasi canopi (qui sei invece dei quattro prescritti) mentre il cuore viene pesato su una bilancia identica a quella raffigurata nella pittura egizia. È il rito della psicostasia del Libro dei morti, la “pesatura del cuore” o “pesatura dell’anima”: se il cuore è più leggero di una piuma di struzzo, il defunto è degno di entrare nel regno dei morti.
Altri particolari ancora danno valore a un allestimento che risulta profondamente coinvolgente e spettacolare con le scenografie elegantissime di Tom Pye e l’onirico gioco luci di Bruno Poet. Dello stesso Pye sono i costumi, che raggiungono un livello di magnificenza e fantasia difficilmente eguagliabile. Fantasmagorico quello per l’incoronazione del protagonista compreso di crinolina, facce di bambolotti come decorazioni, gioielli, incrostazioni e ricami in una profusione d’oro e turchese. La regina madre Tye è addobbata come Mary of Teck, la regina consorte di Georgio V e imperatrice dell’India. Aye invece incarna il Baron Samedi, la divinità voodoo, con teschio sul cappello a cilindro, mentre il grande sacerdote di Amon ha un bucranio sulla mitra vescovile. A questo punto non desta quasi stupore che Nefertiti abbia una parrucca blu, lo scriba/Amenhotep III quattro Rolex d’oro ai polsi e Tutankhamon delle sneaker Louboutin, il modello dorato, ovviamente…
Alla testa dell’orchestra del teatro Karen Kamensek, cresciuta con la musica di Glass, dipana con precisione – forse un po’ meccanica – gli arpeggi ripetuti e le minime variazioni della partitura che portano a uno stato di trance l’ascoltatore mentre in scena agisce un cast di eccellenza con la voce asessuata del controtenore Anthony Roth Costanzo che raggiunge l’acme della sua performance nell’ipnotico “Inno al Sole” che conclude il secondo atto con un abile uso delle mezze voci. Il soprano islandese Dísella Lárusdóttir presta il luminoso colore della sua voce per gli interventi nel registro acuto della regina Tye, mentre toni più sensuali sono quelli del mezzosoprano J’Nai Bridges, Nefertiti. Efficace il trio dei ribelli interpretato da Aaron Blake (Grande sacerdote di Amon), Will Liverman (Horemhab) e Richard Bernstein (Aye). Il basso-baritono Zachary James qui ha solo un ruolo parlato, ma la recitazione e la presenza scenica lo rendono memorabile come scriba e spirito di Amenhotep III. Il coro del teatro istruito da Donald Palumbo si dimostra anche questa volta al di sopra delle aspettative dovendo cantare in lingue sconosciute.
(1) Questo e altri dettagli filologici mi sono stati rivelati da Elisabetta Valtz che ancora una volta ha messo a disposizione le sue preziose competenze sull’antico mondo egizio.

⸪