Mese: settembre 2021

Norma

Vincenzo Bellini, Norma

★★★☆☆

Catania, Teatro Bellini, 23 settembre 2021

(diretta streaming)

La Norma torna al Sol con una magnifica Rebeka

Nel teatro della città natale di Vincenzo Bellini va in scena la sua Norma, ed è «come fare Wagner a Bayreuth» dice scherzando, ma non troppo, Davide Livermore, il regista che ne cura la messa in scena. Il 23 settembre è anche il giorno in cui il compositore catanese morì prima ancora di compiere 34 anni, un altro motivo per fare di questa una produzione particolare in un teatro che ha vissuto alcune traversie negli ultimi tempi. Ci si augura che questo sia il segno di una ripresa della sala catanese.

Nella lettura di Livermore Norma è vista attraverso gli occhi di una sua grande interprete, Giuditta Pasta, che ricorda la notte di Santo Stefano del 26 dicembre 1831, giorno in cui il lavoro di Bellini inaugurò la stagione de La Scala ma dove non tutto andò bene come si sperava per la cantante. «Siamo negli ultimi momenti della sua vita e lei rivive quella serata al teatro nel suo salotto. Le mura borghesi svaniscono e ci troviamo in Gallia a rivivere il sangue, l’amore, la passione, il dolore, lo strazio, la tragedia di quest’opera». Infatti, nella scenografia di Lorenzo Russo Rainaldi e dello stesso Livermore le tappezzerie si trasformano, grazie alla magia video dei collaudati D-Wok (non citati nella locandina online del teatro), in cupe visioni dell’«orrenda selva», oppure nel cielo stellato, in una enorme Luna, infine nelle fiamme del rogo. Il mobilio del salotto, l’unica cosa non virtuale in scena, proviene in parte dal percorso museale “Giuditta Pasta – La divina” di Villa Gianetti a Saronno, città natale della cantante, e il motivo decorativo dominante è quello della tappezzeria di Villa Pasta a Blevio. Virtuali sono anche i tanti suoi ritratti “appesi” alle pareti.

Il doppio piano scelto da Livermore permette di riflettere il dramma della protagonista in quello dell’interprete colta alla fine dei suoi giorni. Per di più pone in prospettiva la fosca vicenda di Galli e Romani, lasciati con i loro costumi “d’epoca” che si mescolano con quelli ottocenteschi, tutti disegnati da Marianna Fracasso. Il problema è che l’attrice che interpreta la Pasta, Clara Galante, è sempre in scena e il suo repertorio di espressioni si esaurisce abbastanza presto facendola diventare una presenza ingombrante e distraente. La vicenda è comunque fedelmente narrata anche se druidi e Galli si inerpicano con i loro calzari su tavolini e poltroncine mentre “la divina” si contorce in smanie sul sofà o si butta teatralmente a terra.

Ineccepibile, invece, l’elemento musicale, con la direzione di Fabrizio Maria Carminati attento a equilibrare i momenti furiosi e barbarici con quelli più lirici. Orchestra e coro rispondono egregiamente e il cast vanta la presenza, rivelatasi eccezionale, di una Norma di grande levatura quale si è dimostrata quella di Marina Rebeka, una voce che non ha fatto rimpiangere quelle del passato (e si parla di Callas, Caballé, Sutherland…) che si sono cimentate con questo ruolo monstre. L’impegno tecnico e vocale della parte della sacerdotessa druidica è stato affrontato dal soprano lettone con scrupolo e passione e il risultato è stato particolarmente apprezzabile. Il «casta diva» è stato riportato alla tonalità originale di Sol maggiore che il compositore aveva poi dovuto abbassare di un tono per favorire appunto la Pasta – versione più agevole e scelta dalla maggioranza delle interpreti, ma non dalla Rebeka che ne dà una lettura luminosissima e sicura. Non meno felici sono gli altri suoi interventi belcantistici con riprese variate e incisivi recitativi. La parte di Adalgisa, in origine il soprano Giulia Grisi, è qui affidata al mezzosoprano Annalisa Stroppa che, a parte qualche bamboleggiamento di troppo nella recitazione, ha svolto bene il suo ruolo ed è stata efficace nei duetti con la protagonista. Stefan Pop ha delineato un Pollione spavaldo e sicuro mentre Dario Russo si è dimostrato un autorevole anche se un po’ monocorde Oroveso.

Una sola rappresentazione, pubblico ristrettissimo (l’orchestra è in platea) e diretta televisiva, in attesa di tempi migliori.

Das verratene Meer

Hans Werner Henze, Das verratene Meer (Il mare tradito)

Vienna, Staatsoper, 27 settembre 2021

★★★★☆

L’orchestra è potente protagonista nel Peter Grimes di Henze

Il libretto di Hans-Ulrich Treichel di Das verratene Meer, il ventesimo lavoro per il teatro di Hans Werner Henze, è basato su un romanzo del 1963 di Yukio Mishima tradotto in tedesco come Der Seeman, der die See verriet (Il marinaio che tradì il mare) e conosciuto in Italia come Il sapore della gloria e in inglese come The Sailor Who Fell from Grace with the Sea (1). In due atti ripartiti in quattordici scene vi si narra del tredicenne Noboru deluso dal suo eroe e del suo edipico rapporto con la madre.

Parte prima, estate. Scena I. Dalla morte di suo padre Noboru ha formato un’unità quasi inseparabile con sua madre Fusako Kuroda, proprietaria di un negozio. Da tempo la donna chiude a chiave il figlio Noboru nella sua stanza ogni sera in modo da evitargli di incontrare i suoi amici di notte. Il sogno di Noboru. Scena II. Fusako visita una grande nave mercantile assieme a Noboru, che è ossessionato dalla vita di mare. Madre e figlio sono entrambi affascinati dalla loro guida, il secondo ufficiale Ryuij Tsukazaki. Fusako lo invita a cena in un ristorante. Il sogno di Ryuij. Scena III. Dopo il ristorante Fusako e Ryuij passeggiano di notte. Il marinaio confessa che non ha trovato il significato della vita che aveva sperato di trovare in mare. Scena IV. La vedova e il marinaio il quale ha avuto soltanto relazioni con prostitute, passano la notte insieme, segretamente spiati da Naboru, Affascinato da quell’esperienza Noboru dichiara il suo diritto su Ryuji: «Il marinaio è mio!». Scena V. Noboru e quattro dei suoi compagni di classe hanno formato una banda giovanile che ha dichiarato guerra alla generazione dei genitori. Invece dei nomi, i membri si chiamano con dei numeri che indicano il loro grado di priorità nella banda. Noboru è il numero tre. Descrive come Ryuji ha avuto un rapporto sessuale con sua madre e predice che il marinaio farà qualcosa di prodigioso. Il suo entusiasmo viene però smorzato dal numero uno, il leader: usando la parola “impossibile”, il marinaio, come tutti gli altri adulti, si priva di ogni possibilità di azione. La banda è decisa a cancellare questa parola. Scena VI. Mentre Ryuji si sta rinfrescando presso una fontana il giorno dopo la sua notte di passione, viene colto di sorpresa da Noboru che arriva dalla riunione segreta con i suoi amici. Il marinaio promette a Noboru che non lo tradirà. Scena VII. Al porto, Fusako e Noboru salutano Ryuji. Mentre Ryuji promette alla preoccupata Fusako che tornerà prima di Capodanno, Noboru spera vivamente che Ryuji prenda il mare e non si faccia più vedere, perché «un marinaio appartiene al mare». Scena VIII. Su incitamento del capo della banda, Noboru uccide un gatto.
Parte seconda, inverno. Scena IX. Ryuji torna a casa e la mattina di Capodanno chiede a Fusako di sposarlo: Lei acconsente: «Questo è il mio giorno più felice!». Scena X. I membri della banda fanno i conti ognuno con il proprio padre. Noboru, orfano di padre, viene interrogato su Ryuji. Messo alle strette, deve ammettere che Ryuji non solo non ha mai compiuto alcun atto di eroismo, ma ha voltato le spalle al mare per lavorare nel negozio di moda con sua madre. Scena XI. Fusako e Ryuji condividono con Noboru la loro intenzione di sposarsi e Ryuji saluta Noboru come suo figlio. Fusako dà a Ryuji l’opportunità di chiedere di non rinchiudere più Noboru durante la notte e consegna a Noboru la chiave della sua stanza. Fusako e Ryuji si ritirano nella loro camera da letto. Noboru riprende il suo posto di osservazione, ma si addormenta con la torcia in mano e viene scoperto dagli adulti. Fusako è furiosa. Tuttavia, contrariamente a quanto Fusako e Noboru si aspettavano, viene perdonato da Ryuji. Scena XII. I reati di Ryuji vengono giudicati dalla banda. Il numero quattro pronuncia il verdetto di colpevolezza: il marinaio ha fallito. Ha tradito il mare. È condannato a una morte straziante. Scena XIII. Fusako crolla dopo aver sperimentato la perdita di controllo su una vita condivisa con Noboru e Ryuji. Scena XIV. Ryuji accetta l’invito di Noboru a raccontare a lui e ai suoi compagni le sue avventure in mare. Ma invece confida loro che il mare lo ha alienato tanto quanto la terra: «Non ho scelto il mare perché lo amo, l’ho scelto perché odio la terra». La strada per una vita con Fusako è bloccata e negata come quella per tornare al mare. Quando Noboru gli offre del tè mescolato a dei sonniferi non rifiuta.

L’opera ha debuttato nel 1990 alla Deutsche Oper di Berlino ed è stata in seguito riveduta più volte. Questa produzione è la prima viennese dell’opera di Henze e si basa sulla versione del 2005, la più coerente e musicalmente interessante, secondo Simone Young qui alla guida della Staatsoper Orchester. Tra le altre cose, Henze ha reso le percussioni, già importanti, ancora più centrali. Per esempio, ha fatto precedere l’inizio della sua opera da alcune battute di impressionante intensità delle percussioni per introdurre l’ascoltatore immediatamente in medias res in termini di atmosfera e contenuto. La prima cosa che l’ascoltatore sente è un triplo forte sullo o-daiko, il grande tamburo tradizionale giapponese. È il segnale: siamo in Giappone e sarà brutale. Ma il più maturo Henze ha anche dedicato molto tempo ai numerosi interludi tra le singole scene – e qui vengono in mente gli analoghi interludi dell’opera marittima di Britten. Soprattutto i passaggi tranquilli e riflessivi, in origine scarsamente orchestrati, hanno ricevuto un significato maggiore, come il preludio strumentale del secondo atto che evoca il freddo dell’inverno in sole nove battute. Alcuni passaggi nella versione originale che Henze ha cancellato in seguito e che, soprattutto dal punto di vista del testo, danno ai personaggi principali dei contorni più netti, sono stati inseriti di nuovo. Si tratta quindi di una versione “2005 plus”. Una “versione viennese”, per così dire, che esalta il fascino molto particolare della tarda versione del 2005: lo scontro dell’Henze maturo, con la sua calma e trasparenza, con le sezioni più selvagge e orchestralmente intense della fine degli anni ’80, che lui stesso ha lasciato invariate dopo l’ultima revisione.

L’incontro di questi due diversi stili di Henze permette venga meglio alla luce il confronto dei tre personaggi centrali. A questi tre ruoli sono state assegnate in modo abbastanza classico le voci di un soprano, un tenore e un baritono. Fusako, l’unica parte femminile dell’opera, richiede un soprano lirico con note estreme (nel secondo atto arriva fino a un re acuto) e Ryuji un baritono drammatico paragonabile al Dr Schön di Lulu o al personaggio del titolo nel Lear di Aribert Reimann. Il fatto che Noboru sia cantato da un tenore, tuttavia, può sorprendere: è un ragazzo di 13 anni da cui ci si aspetta giustamente una voce da ragazzo. Per Henze, tuttavia, questo personaggio era troppo importante e accorciare la lunghezza del ruolo in modo che un ragazzo potesse cantarlo era impensabile per il compositore. Inoltre, poiché Noboru canta ripetutamente insieme a Fusako e Ryuji e deve quindi tenere il passo vocalmente, è pensabile solo una voce maschile adulta, un tenore elegante e lirico con un buon registro alto. Anche gli altri ragazzi della banda giovanile di Noboru sono sempre adulti per ragioni simili: un basso, un baritono alto e uno basso e – colore speciale – un controtenore. In termini di trattamento vocale l’influenza dell’espressionismo è inconfondibile e ci sono scene in cui domina lo sprechgesang.

Per quanto riguarda l’orchestra Henze l’ha dimensionata in modo potente: la sola varietà di percussioni è impressionante, inoltre, ci sono due arpe, un sassofono soprano, un clarinetto contrabbasso, un oboe d’amore e ricche sezioni di ottoni. Tutto questo viene magistralmente dominato da Simone Young la quale riesce a ricreare le più svariate valenze cromatiche e dinamiche, dal quadruplo forte al quadruplo piano, facendo scorgere qua e là passaggi orientati verso il mondo sonoro dell’impressionismo francese oppure di quello mahleriano per simboleggiare in modo udibile l’elemento orientale.

Il soprano Vera-Lotte Böcker è l’unica interprete femminile e impressiona con il suo canto lirico e sicuro. Josh Lovell (Noboru) è un tenore dal timbro chiaro e dall’espressione ricca di sfumature. Bo Skovhus non a caso è stato il citato Lear di Reimann ed è a suo agio nel personaggio tormentato di Ryuji. Nella banda giovanile si distingue tra le voci scure quella del controtenore Kangmin Justin Kim.

I registi Jossi Wieler e Sergio Morabito hanno scelto di dare una continuità visiva alla scansione con cesure dell’opera di Henze, così come i suoi interludi aggiunti successivamente hanno dato continuità alla narrazione musicale. Si viene a creare così un cinematografico piano sequenza in cui si avvicendano le quattordici scene ben distinte. La scenografa Anna Viebrock ha creato una specie di molo-magazzino-negozio dove gli elementi che formano la camera da letto, la nave, il ristorante, il lungomare – tutta la gamma di ambientazioni del libretto – scorrono su ruote tra quallide pareti di cemento che intrappolano il furioso adolescente.

La prima dell’opera era avvenuta a dicembre a teatro vuoto e in streamnig. Questa volta il teatro è gremito e il pubblico risponde con calorosi applausi al termine della rappresentazione.

(1) Il romanzo nella fase di progettazione si chiamava Romanzo del marinaio o anche Eroe del mare, ma nella pubblicazione fu intitolato 午後の曳航 (gogo no eikō, letteralmente Il rimorchiatore del pomeriggio). Il titolo si riferisce alla scena che conclude la prima metà del romanzo – un rimorchiatore porta la nave con Ryuji a bordo verso il mare aperto sotto gli sguardi di Fusako e Noboru – ma in secondo luogo eikō, “rimorchiare una nave” ed eikō, “fama”, sono omonimi. Ryuji rinuncia alla fama di marinaio e comincia a lavorare a terra. È, come recita il titolo dell’edizione tedesca, un marinaio che ha tradito il mare. In terzo luogo, l’atto del rimorchiatore nel titolo suggerisce che quando una nave non può navigare con la propria forza deve essere guidata – come Ryuji, che non ha potuto diventare un eroe del mare e viene condotto dai ragazzi nel regno dei morti.


Rappresentatione di Anima, et di Corpo

Emilio de’ Cavalieri, Rappresentatione di Anima, et di Corpo

★★★★★

Vienna, Theater an der Wien, 25 settembre 2021

Carsen rende mirabilmente attuale un’opera di 420 anni fa

Coraggiosa apertura di stagione quella del Theater an der Wien: va in scena la Rappresentatione di Anima, et di Corpo «posta in musica dal Sig. Emilio del Caualliere, per recitar cantando […] in Roma l’Anno del Giubileo MDC».

Siamo nel pieno della Controriforma in Italia, dunque, quando in reazione al protestantesimo segue la rivalutazione, ampiamente propagandata, dei principi fondamentali del cattolicesimo. Il Cavalieri sceglie una forma utilizzata fin dal medioevo, quella dell’oratorio, ma lo rappresenta con musica e costumi in una chiesa, Santa Maria in Vallicella, nel febbraio 1600. Si discute molto se questo si possa considerare il primo melodramma: pochi mesi dopo, il 6 ottobre, Jacopo Peri avrebbe presentato a Palazzo Pitti la sua “favola drammatica” Euridice, primo esempio di testo e musica che si uniscono per un dramma su una storia secolare, mentre due anni prima, sempre a Firenze, questa volta a Palazzo Tornabuoni, lo stesso Peri aveva fatto eseguire da un ridotto ensemble da camera la sua Dafne, testo declamato con accompagnamento musicale. Nel febbraio 1607 poi, a Mantova, il Duca assisterà al primo capolavoro del melodramma, L’Orfeo di Claudio Monteverdi, e da allora l’opera in musica avrà un posto assicurato come nuova forma espressiva d’arte.

Ma come si può rappresentare oggi un lavoro di 420 anni fa? «Guardando il pezzo come se fosse stato scritto oggi» risponde Robert Carsen, che ne cura la messa in scena. Il regista è reduce dalla recente produzione salisburghese de II trionfo del Tempo e del Disinganno di Händel, in cui viene trattato un tema simile 107 anni dopo. In quest’ultimo lavoro ci sono anche due figure identiche, Tempo e Piacere, e una citazione testuale dell’opera di Cavalieri. «Ho trovato queste connessioni incrociate molto eccitanti», continua Carsen nell’intervista rilasciata a Karin Bohnert. «Di che cosa parla questo pezzo? Ci interessa ancora al di là della particolarità di poter vedere rappresentato il primo esempio di teatro musicale dei tempi moderni? O si tratta di una performance piuttosto da museo e per gli appassionati di musica antica?». La risposta sta nel fatto che questo lavoro formula le eterne domande nella vita delle persone, che alla fine sono anche alla base di tutta l’arte. Vi si trattano temi esistenziali che sono diventati improvvisamente ancora più attuali: che cosa è importante nella vita, quali sono i valori essenziali? Soprattutto in un momento così difficile e devastante, con tanto dolore, difficoltà e isolamento come questo della pandemia. Il messaggio dell’opera è certamente molto radicale, basandosi sull’ammonizione della caducità della vita e sulla negazione dei bisogni del corpo e della vita per il piacere, la gioia e il successo, perché solo allora si riceverà una ricompensa in cielo. Ma per noi questo messaggio può essere compreso anche in un modo meno fanaticamente religioso? Soprattutto nel terzo atto, viene presentata un’idea molto formalizzata del paradiso e dell’inferno. Una ragione per rifiutare questa ideologia è che non si dovrebbe fare il bene perché si teme la punizione, il che significherebbe fare il bene per motivi egoistici, ma si vuole fare il bene perché è la cosa giusta da fare. Dopo 420 anni dalla paura e dalla minaccia di punizione, siamo arrivati a una decisione che esalta il nostro libero arbitrio.

Nell’opera di Agostino Manni, l’autore del testo, i personaggi non sono persone in sé, ma allegorie astratte, rappresentate però da esseri umani. Le uniche figure umane sono Anima e Corpo, e sono come una sola persona, perché siamo tutti composti così. Questo assomiglia, secondo Carsen, alla struttura di come si costruisce l’opera: «c’è il libretto, che è concreto e solido, e c’è la musica, che è emotiva, indescrivibile, astratta. Si riuniscono per formare un’opera, mentre Anima e Corpo si riuniscono per formare una persona, ma i due personaggi potrebbero anche essere due persone che si amano, perché quando due si amano, in un certo senso diventano anche una sola persona, si fondono. Così vedo Corpo e Anima più come una sorta di ogni-uomo e ogni-donna, e le altre figure allegoriche corrispondono a persone, circostanze di cui siamo circondati ogni giorno. Dobbiamo affrontare le tentazioni, questi sono gli scogli intorno ai quali dobbiamo navigare la nostra barca ogni giorno nella nostra breve vita».

La regia di Carsen fa il miracolo di fornire una drammaturgia convincente a un testo che ne è essenzialmente privo, con mezzi di intensa teatralità. Il prologo, in cui i “giovanetti” Avveduto e Prudenzio discutono della vita («questa miserabil vita altro non è che una pompa funebre di corpi vivi: un velocissimo corso alla morte: ed un nobile apparato, che si fa a’ vermi»), viene totalmente riscritto da Carsen e da Ian Burton in termini moderni e recitato in una allegra confusione babelica di lingue differenti da tutta la compagnia – solisti, coro, danzatori – sul palcoscenico vuoto e in abiti da viaggiatori, borse e trolley. Tutti  pronti a intraprendere quel viaggio che è la vita prima di venire ammoniti dal Tempo stesso: «Il tempo fugge, la vita si distrugge; e già mi par sentire l’ultima tromba, e dire: uscite da la fossa ceneri sparse ed ossa. […] faccia dunque ognun prova, mentre il tempo le giova, lasciar quant’è nel mondo, quantunque in sé giocondo; ed opri con la mano, opri col core, perché del ben oprar frutto è l’onore».

Nei costumi di Luis Carvalho i colori giocano un ruolo essenziale: dal rosso del Piacere all’oro della Vita Mondana, dal nero dei funerei vescovi Intelletto e Consiglio al bianco della “multitudine” che nel finale inneggia alla vita: «qua giù la terra ancora, mentre lieta il seno infiora, con il canto e con il riso corrisponda al paradiso».

Una piattaforma girevole e un fondale con una porta costituiscono la minimalistica scenografia disegnata da Carsen stesso e da Luis Carvalho. Sono le luci le vere protagoniste come sempre negli spettacoli di Carsen, ideate dallo stesso regista e dal fido Peter van Praet. Grande coup de théâtre l’ascesa al cielo delle anime beate che si trasformano subito dopo nelle anime dannate che precipitano nell’inferno, ma molti sono i momenti di grande emozione in uno spettacolo intensamente concepito ed estremamente curato.

In questa produzione viennese i sessanta minuti di musica originale vengono portati a quasi novanta con l’introduzione di musiche di Giovanni de Maque, di un anonimo e di Giovanni Gabrieli per il primo intermezzo tra primo e secondo atto, di Giovan Pietro del Buono e di Dario Castello per il secondo intermezzo. Sono suoni di compositori coevi molto diversi, spesso dalle ardite dissonanze. Giovanni Antonini alla guida de Il giardino armonico riesce a trasformare in un drammatico flusso musicale le fragili ed eleganti forme musicali di Cavalieri che accompagnano il recitativo declamato, quasi assente di fioriture, dei cantanti. Tedesco il soprano Anett Frisch (Anima) e austriaco il baritono Daniel Schmutzhard (Corpo) che danno voce alla Lei e al Lui in cerca di domande, soprattutto Lei, essendo Lui attratto da cose più terra-terra. Otre alle indubbie doti vocali, i due cantanti dimostrano buone doti attoriali, così come il Consiglio di Florian Boesch, baritono di esperienza e presenza scenica. La voce di Georg Nigl, nelle tre parti di Tempo, Mondo e Anima Dannata, ha grande proiezione e intensa caratterizzazione mentre l’haute-contre Cyril Auvity affronta e supera agevolmente la difficile tessitura di Intelletto, un ruolo da contralto. In un’opera come questa, dove le parole hanno importanza pari a quella della musica, una dizione perfetta è determinante e con interpreti italiani la si ottiene più agevolmente, come dimostrano il contralto Margherita Sala (Piacere) e il mezzosoprano Giuseppina Bridelli (Vita Mondana e Anima Beata), cantanti efficaci e sensibili. Fin da quando entra dal fondo della platea, l’Angelo Custode del controtenore Carlo Vistoli si impone per eleganza della linea musicale, volume sonoro e cura del fraseggio e il suo personaggio diventa da quel momento determinante nella vicenda. Vistoli sarà anche il più acclamato alla fine. Il coro Schoenberg si dimostra una volta di più un duttile strumento sia a livello vocale che attoriale e non si può non invidiare il teatro viennese che se lo è accaparrato. Bene anche i danzatori che hanno dinamizzato la scena mescolati al coro.

L’entusiasmo incontenibile del pubblico dimostra la sorpresa di venire per un pezzo da museo e scoprire invece di avere passato una serata di grande coinvolgimento estetico e poetico.

 

Transverse Orientation

Dimitris Papaioannou, Transverse Orientation

Moncalieri, Fonderie Limone, 23 settembre 2021

Cercare la luce per trovare la strada

Nella lunghissima tournée internazionale con cui Dimitris Papaioannou presenta la sua ultima creazione non poteva mancare la tappa di TorinoDanza. Transverse Orientation è forse lo spettacolo più atteso della rassegna.

Per il titolo non ci aiuta il suo creatore: «Il titolo dei miei pezzi li sceglie sempre un mio amico geniale, Angelo Mendis, e mi fido di lui», aveva risposto alla domanda di Sergio Trombetta in una sua intervista su “La Stampa” del 31 agosto scorso. Più illuminante la definizione di wikipedia: «orientamento trasversale:  mantenere un angolo fisso su una fonte di luce lontana per l’orientamento», come fanno alcuni insetti quali le falene.

E la fonte di luce che per tutto lo spettacolo sarà lì col suo sfarfallio a incantarci è un tubo fluorescente in alto su una parete bianca in cui si apre anche una porta. In scena le immagini a cui l’artista greco ci ha abituato, che richiamano un’iconografia sterminata – dalle pitture micenee ai preraffaelliti a Picasso – o sono talmente evocative che nella mente di ognuno di noi spettatori sorgono inediti rimandi, come a un certo momento i letti di contenzione dipinti da Carol Rama, che probabilmente Papaioannou neanche conosce…

Su una rarefatta colonna sonora di musiche di Vivaldi, in scena sei ragazzi e una ragazza dipingono coi propri magnifici corpi le fasi della vita, dalla nascita (un neonato immerso in un liquido biancastro che cola a terra), alla morte, qui incarnata da un toro nero a grandezza reale, in cui però prevale l’aspetto sensuale (dalla figura nuda sul dorso del “Ratto di Europa” al torero nudo che offre da bere alla bestia), passando per la fatica di Sisifo del vivere (i massi spostati da un punto all’altro) e l’invecchiamento (il corpo non più giovane di una donna che attraversa nuda tutta la scena lentamente e su tacchi altissimi).

Spettacolo di grande suggestione, ma forse di faticosa gestazione: il lungo tempo della chiusura dei teatri sembra averne in qualche modo svigorito l’invenzione e qui è sembrato che mancasse la magia e la sorpresa che ci avevano così colpiti nella precedente trilogia (Primal Matter, Still Life, The Great Tamer) o nell’intimo INK visto al Teatro Carignano un anno fa.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★☆☆☆

Zurigo, Opernhaus, 20 giugno 2021

(video streaming)

La noia del teatro di regia

«L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel Castello di Ravenswood, parte nella rovinata torre di Wolferag. L’epoca rimonta al declinare del secolo XVI». Così indica il libretto del dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano, ma nella messa in scena alla Opernhaus di Zurigo la Scozia è solo nel kilt di alcuni maschi e l’epoca è spostata nei soliti anni ’40 del secolo scorso – non una grande novità inverità.

Zeppo dei soliti clichet del teatro di regia è quello di Tatjana Gürbaca: ralenti, personaggi immobilizzati nei momenti di tensione, figuranti ingombranti, alter-ego infantili dei protagonisti, rapporti sessuali mimati, quantità industriale di sangue e coltellate nella scena dell’omicidio del novello sposo, scena che nel libretto è solo raccontata mentre qui è rappresentata esplicitamente, graphically direbbero gli americani. Nella drammaturgia di Beate Breidenbach vediamo Lucia e il fratello bambini giocare innocentemente, forse a evidenziare i tesi e talora ambigui rapporti da adulti. Fatto sta che qui Enrico alla fine si impicca. Il racconto di quando Lucia viene salvata da «impetuoso toro» dalla freccia di Edgardo, anche lui bambino, qui è visivamente rappresentato come un incubo della ragazza, incubo che ritorna la prima notte delle nozze con lo sfortunato Arturo.

La scenografia di Klaus Grünberg, che cura anche le luci, consiste in una struttura rotante che mostra praticamente sempre la stessa stanza, con tristi pannellature. Un letto perde nel corso della serata il materasso e nel finale diventa la tomba della protagonista. Le pareti col tempo si coprono di vegetazione per poi ridursi alla sola struttura. L’andirivieni dei personaggi da una all’altra si rivela incoerente e privo di necessità drammaturgica, così come la presenza del fantasma della madre (?) che suona un’arpa o il personaggio maschile a torso nudo e il minaccioso bucranio. Il tutto pare uno svogliato inserimento di psicologismo a buon mercato in una produzione di livello piuttosto mediocre.

Per di più le misure adattate dal teatro per la pandemia, ossia orchestra e coro a distanza (misure che hanno mirabilmente caratterizzato il Boris Godunov di Kosky), qui non funzionano: la direzione di Speranza Scappucci alla guida della Philharmonia Zürich è spesso frettolosa, con i tagli di cattiva tradizione e variazioni rispetto alla partitura – la scena della pazzia è trasposta in mi bemolle invece dell’originale Fa maggiore, il duetto maschile del secondo atto è abbassato di un tono rispetto all’originale La, altri aggiustamenti sono disseminati qua e là. L’intesa coi cantanti talora è precaria, così come gli interventi del coro, che rimane sonoramente distante, qui supplito da una folla di figuranti.

Nella parte del titolo Irina Lungu sostituisce la prevista Lisette Oropesa, che ha cancellato il suo impegno e la cui presenza sembra rimandata per la ripresa della produzione l’anno prossimo. Il soprano russo arriva stanco alla fine della scena della pazzia e l’acuto finale è un grido un po’ scomposto. Le agilità non sono sempre fluide e il vibrato piuttosto largo, ma il temperamento compensa una performance sostanzialmente accettabile – il che è però un po’ poco per un ruolo monstre come questo e per una produzione tanto attesa. Al suo fianco c’è Piotr Beczała, il più festeggiato dai pochi spettatori ammessi (sono pochi, ma non risparmiano i buu alla regia). Il tenore polacco, che ha cantato la parte innumerevoli volte, spiega un canto vocalmente generoso, ma sarà interessante sentire invece Benjamin Bernheim che prenderà il suo posto come Edgardo nella ripresa di primavera. Piuttosto rozzo e dal vibrato traballante è l’Enrico Ashton di Massimo Cavalletti, mentre quasi imbarazzante il Raimondo Bidebent di Oleg Tsibulko, un basso senza le note basse – e neanche le alte. Meglio i personaggi secondari di Alisa (Roswitha Christina Müller), Normanno (Iain Milne) e Andrew Owens (Arturo Bucklaw).

Guerra e pace

Sergej Prokofiev, Guerre et paix

★★★★★

Genève, Grand Théâtre, 13 septembre 2021

 Qui la versione italiana

Calixto Bieito transforme l’opéra épique de Prokofiev en un cauchemar surréaliste et angoissant

Ouverture de saison grandiose à l’Opéra de Genève : l’une des œuvres les plus monumentales du XXe siècle y est montée avec des moyns on ne peut plus importants. « Une inauguration plus grande que nature », déclare Christopher Park, Rédacteur/Médiateur culturel au GTG. Qu’il s’agisse de la direction d’orchestre, de la mise en scène ou de la distribution, le théâtre du lac Léman réunit une équipe offrant une représentation mémorable – et c’est la première fois que l’opéra de Prokofiev est joué en Suisse.

« Paix et guerre » : c’est plutôt ainsi que cette version du chef-d’œuvre de Tolstoï aurait dû être intitulée ! Dans le livret, écrit par le compositeur lui-même et son épouse Mira Mendelson-Prokofieva, la première partie est consacrée aux événements de la paix, avec l’histoire d’amour contrastée du prince Andrei Bolkonsky pour la jeune Nataša Rostova, âgée de 15 ans, tandis que la seconde nous plonge dans la bataille de Borodino, au cours de laquelle s’affrontent l’armée française dirigée par Napoléon Bonaparte et l’armée impériale russe commandée par le général Kutusov…

la suite sur premiereloge-opera.com

Guerra e pace

Sergej Prokof’ev, Guerra e pace

Ginevra, Grand Théâtre, 13 settembre 2021

★★★★★

bandiera francese.jpg Ici la version française

L’epica opera di Prokof’ev diventa un angoscioso incubo surrealista con Calixto Bieito

Grandiosa apertura di stagione quella del teatro dell’opera di Ginevra: uno dei lavori più monumentali del Novecento viene prodotto senza lesinare sui mezzi. «Une inauguration plus grande que nature» afferma Christopher Park, Rédacteur/Médiateur culturel del GTG: sia che si tratti della direzione d’orchestra, della messa in scena, oppure del cast, il teatro sul lago Lemano mette in campo una squadra che conduce a uno spettacolo memorabile – ed è la prima volta che l’opera di Prokof’ev viene rappresentata in Svizzera.

Pace e guerra, così dovrebbe più propriamente intitolarsi questa versione del capolavoro di Lev Tolstoj: nel libretto, steso dal compositore stesso e dalla moglie Mira Mendel’son-Prokof’eva, si ha una prima parte dedicata alle vicende di pace con la contrastata storia d’amore del principe Andrej Bolkonskij per la quindicenne Nataša Rostova, mentre la seconda ci immerge nella battaglia di Borodino, in cui si scontrano l’esercito francese condotto da Napoleone Bonaparte e quello imperiale russo comandato dal generale Kutusov.

L’ardua impresa di trasformare il complesso romanzo, in cui le vicende private della nobiltà russa e le vicende belliche sono strettamente intrecciate, viene risolta dal compositore delineando tredici quadri separati da nette cesure. Nei primi sette, che formano la prima parte, nella musica abbondano i momenti melodici e i richiami di danze. La seconda vede il coro entrare massicciamente per dare un tono epico a una vicenda, quella della campagna di Napoleone del 1812 che viene rivissuta da Prof’ev come la scampata invasione nazista del 1941. Questa è anche la parte più rimaneggiata dal compositore per le interferenze politiche che imponevano una maggiore enfasi sulla partecipazione russa, soprattutto sul personaggio di Kutusov che doveva diventare un chiaro omaggio a Stalin.

L’aspetto smaccatamente ideologico dell’opera viene messo in discussione dalla lettura di Calixto Bieito, che con la drammaturgia di Beate Breidenbach e la scenografia di Rebecca Ringst cita, nella prima parte, l’atmosfera surreale di El ángel exterminador, il film del 1962 di Luis Buñuel in cui gli invitati a una serata di dopo teatro non riescono a lasciare la casa dei loro ospiti. Qui i nobili di San Pietroburgo, invitati al ballo alla vigilia del capodanno del 1810, negli eleganti abiti contemporanei di Ingo Krügler hanno un nemico invisibile, sconosciuto, incerto. Dopo Napoleone e Hitler qual è la minaccia di oggi? Forse sono loro stessi l’abisso di cui aver paura, devono temere l’enigma della loro umanità.

Nell’allestimento di Bieito – il regista è per la prima volta nel teatro ginevrino – la scena riprende fedelmente il boudoir di Maria Aleksandrovna, nata Maria d’Assia-Darmstadt, moglie dell’imperatore Alessandro II con gli stucchi dorati, le poltrone e i sofà in velluto rosso, le cariatidi dai seni opimi, il grande specchio ovale sulla parete di fondo, che qui è uno schermo su cui vengono proiettate le immagini video di Sarah Derendinger e successivamente diventa uno squarcio sull’esterno fumante di rovine. Come nel film di Buñuel i nobili passano il tempo in futili conversazioni, ignari del mondo là fuori su cui incombe una cupa minaccia, ed è quasi solo un caso che i mobili accatastati per le dispute che mettono i personaggi uno contro l’altro si trasformino in barricate all’annuncio del colonnello Denisov alla fine del settimo quadro: «Un corriere da Vilno: Napoleone ha schierato le truppe alla frontiera. Sembra che sia guerra».

Fino a quel momento le schermaglie si erano limitate a duelli minacciati, a progetti di rapimento, a tentativi di suicidio, a screzi famigliari. Nell’ambiente ancora ordinato su cui si era aperto il sipario i personaggi erano inglobati ai mobili sotto un telo traslucido, protetti dalla polvere della storia ma non da loro stessi. Nataša è la sola a vagare in questo spettrale paesaggio e la sua puerile innocenza contrasta col doloroso risveglio dei vari ospiti del ballo. Come nel film anche qui succedono cose strane, che Bieito trasforma in azioni squisitamente teatrali, come le scatole delle pizze i cui interni metallizzati diventano specchi prima e poi pezzi di armature scintillanti.

Nella seconda parte non c’è più spazio per il sarcasmo: il soffitto dell’elegante salone si squarcia, le pareti pendono minacciosamente, gli abiti eleganti si coprono di bende insanguinate, un modellino del teatro Bol’šoj con la sua quadriga di bronzo verdastro viene prima composto e poi distrutto, i suoi pezzi utilizzati come armi. Gli schermi video su cui era passato un orso – simbolo della Russia, ma anche animale presente sia nel romanzo che nel film di Buñuel – ora si tingono di rosso e sull’encomiastico coro finale «Gloria alla Patria, alla santa Patria, gloria all’esercito patrio! Gloria al maresciallo Kutuzov! Urrà!», le folle osannanti hanno un cinico parallelo negli insetti brulicanti sugli schermi in una vana attività. L’incubo surrealista inscenato da Bieito tocca il fondo di una visione pessimistica che gli adattamenti imposti alla musica di Prokof’ev non sono riusciti a intaccare. Guerra e pace, il penultimo lavoro per il teatro di Sergej Prokof’ev, assume qui un colore diverso da quello epico, encomiastico e patriottico che era stato richiesto al compositore. E diventa un lavoro molto più vicino al nostro disincanto.

La lettura di Bieito si avvale del valido sostegno musicale di Alejo Pérez, il giovane direttore argentino che non è nuovo alla musica russa: oltre a L’angelo di fuoco romano del 2019 e a L’amore delle tre melarance (2018) dello stesso Prokof’ev, si ricordano l’Evgenij Onegin (2017) di Čajkovskij, Il naso (2013) e la Lady Macbeth (2010) di Šostakovič. La sfida di concertare un’opera immane – Pérez opta per l’ultima versione a cui apporta tagli che riducono lo spettacolo sotto le quattro ore compreso un intervallo – con 28 parti solistiche, 75 coristi e un massiccio organico orchestrale, è vinta onorevolmente. Il diverso colore orchestrale delle due parti è giustamente messo in evidenza e il peso sonoro non è mai soverchiante sui cantanti. Le oasi melodiche e i nostalgici valzer della prima parte si contrappongono ai massicci interventi strumentali e corali, quasi clusters sonori dalle livide e metalliche risonanze, della seconda. Qui come nel Boris di Musorgskij il coro è uno dei protagonisti come popolo russo (da brivido il momento con cui inizia la seconda parte, «Le forze di dodici lingue d’Europa si sono gettate sulla Russia»), volontari, soldati russi, soldati francesi, cosacchi, moscoviti, ex-prigionieri. Istruito da Alan Woodbridge il coro del teatro ha offerto una prova maiuscola per compattezza, intonazione, musicalità e, per quanto possa aver capito, correttezza di dizione.

Molti i cantanti di lingua madre russa nel cast, tra cui i bassi Alekseij Tikhomirov (principe Nikolaj Bolkonski) e Dmitrij Ul’ianov (Generale Koutouzov), i baritoni Alekseij Šišliaev (Dolokhov) ed Alekseij Lavrov (Napoleone Bonaparte). Il baritono tedesco Björn Bürger, ammiratissimo Papageno a Parigi e a Glyndebourne, qui veste i panni del romantico principe Andrej Bolkonski al quale offre il suo duttilissimo strumento vocale e la magnetica presenza scenica. La sua parabola da giovane innamorato che per la gioia si arrampica, letteralmente, sulle pareti a morente combattente che alla fine rivede la, ahimè, disillusa amata, è convincente ed emozionante. Così come lo è quella della Nataša di Ruzan Mantashyan, soprano armeno di grande personalità e potenza espressiva che ha ottenuto gli applausi più copiosi da parte del pubblico.

Nel reparto femminile si sono distinte le voci mezzosopranili di Lena Belkina (Sonia) ed Elena Maximova (Contessa Helena Besoukhova ). Anche il basso Eric Halfvarson come conte Ilia Rostov ha incontrato il particolare favore del pubblico mentre la chiara vocalità del tenore Alexander Kravets ha dato corpo a Platon Karataev, la figura dell’innocente cara alla letteratura russa. Opposti nella personalità il triste Pierre Bezuchov e il bell’Anatol’ Kuragin: il primo «libera i contadini e fonda ospedali», il secondo è «un mascalzone, un delinquente». Daniel Johansson come conte Besoukhov ha pagine di una distesa liricità che sarebbero piaciute a Puccini e che il tenore svedese realizza con grande eleganza e facilità. Aleš Briscein dà invece al personaggio di Kuragin la giusta sfrontatezza con il suo particolare e penetrante timbro tenorile. In sostanza tutti i personaggi sono caratterizzati dalle voci giuste in questa produzione che ha acceso l’entusiasmo incondizionato del pubblico.

Triptych


Gabriela Carrizo e Franck Chartier, Triptych

Compagnia Peeping Tom

Moncalieri, Teatro Fonderie Limone, 12 settembre 2021

Affondare in un oceano di lacrime

Come in un trittico di Francis Bacon, lo spettacolo della compagnia belga Peeping Tom ci mostra interni dove i sentimenti forti sono di casa, anche le violenze. Unione e riadattamento di tre distinti spettacoli creati nel tempo – The Missing Door (2013), The Lost Room (2015), The Hidden Floor (2017) – lo spettacolo è ora in scena per TorinoDanza.

In The missing door dimensioni parallele intrecciano fantasia e realtà. Su una nave in mare, siamo testimoni degli ultimi minuti di vita di un uomo che cerca ansiosamente di trovare una via attraverso l’intricato labirinto dei suoi pensieri. Mentre paesaggi sonori di rumori quotidiani si trasformano in ritmi perduti, l’uomo compie una battaglia solitaria con il tempo, lo spazio e coloro che sono assenti. The lost room racconta diverse storie simultaneamente dove i personaggi sembrano esistere in ogni tempo e in ogni luogo e i ricordi non sono una riproduzione letterale del passato, ma si basano su processi costruttivi soggetti a errori e distorsioni. L‘acqua è protagonista nel terzo episodio, The Hidden Floor: generata dalle lacrime nella seconda parte, ora invade la scena di un transatlantico che affonda inesorabilmente nell’oceano con i  suoi occupanti che cercano inutilmente di sopravvivere.

I cambi scena a vista sono parte integrante di uno spettacolo che sfida la razionalità affidandosi alla dimensione onirica con le sue surrealistiche azioni non prive di ironia. I corpi degli otto performer sono manichini snodati e le loro acrobatiche movenze sfidano le leggi della fisica e dell’anatomia richiamando quelle dei fumetti o delle graphic novel. L’ipnotica colonna sonora va da Bach agli scricchiolii della nave che affonda, pochissime le parole pronunciate: la drammaturgia si affida alle bellissime immagini di uno spettacolo che suscita il caldo applauso di una sala esaurita in tutti i posti ammessi dal distanziamento ancora assurdamente in vigore nei teatri italiani.

 

For Rent/À louer


Gabriela Carrizo e Franck Chartier, For Rent/À louer

Compagnia Peeping Tom

Torino, Teatro Astra, 15 luglio 2012

Il guardone belga

Un affascinante viaggio attraverso pensieri, ricordi, visioni del futuro, sogni e incubi è quello proposto dalla compagnia belga Peeping Tom.

Il nome della compagnia è ispirato al personaggio della leggenda di Lady Godiva, in cui il giovane Tom la guardò e rimase talmente impressionato da diventare cieco, guardone punito e costretto a vivere tutta l’esistenza nel ricordo del suo attimo più bello e al contempo più tragico. Peeping Tom è anche un film cult del 1960 di Michael Powell su un serial killer che cattura l’ultimo sguardo delle sue vittime su pellicola prima di ucciderle.

For Rent/À louer affronta il tema della transitorietà: una diva dell’opera di talento ma in declino si aggira in un interno opprimente e lotta con le aspettative di un ambiente borghese. Niente è certo o permanente (compreso l’arredamento), tranne le sue stesse paure ricorrenti. Suoni spaventosi sottolineano l’insignificanza dei personaggi. «Nello spettacolo non c’è un tempo lineare, ma piuttosto un focus su quel momento di noia in cui i nostri pensieri improvvisamente scappano e si rifugiano in un mondo parallelo. È questo filo che attraversa tutta la realtà. È un universo di ricordi, di intenzioni future, di paure, sogni o incubi, costantemente viziato dalla realtà. È anche una passeggiata sul bordo di un precipizio, la danza di un funambolo su questo filo rosso tra la sensazione di possedere qualcosa e di perderla immediatamente, la sensazione di equilibrio prima di cadere nel vuoto. Tutto è effimero perché tutto può essere portato via da un giorno all’altro: un appartamento, i nostri oggetti personali, un lavoro, una persona o addirittura una vita. Tutto è in affitto».

È un teatro performativo il loro dove i gesti, i movimenti acrobatici, la colonna sonora, le azioni oniriche e la scenografia tra iperrealismo e surrealismo  (quel pavimento a scacchiera…) sembrano poter fare a meno della parola per raccontare con intensità e una drammaturgia personalissima che non non ha riscontri nel teatro europeo di oggi.

Aroldo

Giuseppe Verdi, Aroldo

★★★★☆

Rimini, Teatro Amintore Galli, 27 agosto 2021

(video streaming)

Aroldo inaugura per la seconda volta il teatro di Rimini

«Sono un po’ stanco di questi crociati. Qualche cosa di più moderno e di più piccante» richiede Verdi al librettista Piave che gli sta rimaneggiando lo Stiffelio di sei anni prima per riproporlo come Aroldo.

Prendono in parola il compositore gli artefici della nuova messa in scena dell’Aroldo al Teatro Amintore Galli di Rimini: la vicenda è spostata dalla Scozia dei tempi delle Crociate (!) all’Italia fascista degli anni ’30; il crociato Aroldo appena arrivato dalla Terra Santa diventa il prode legionario Aroldo di ritorno dalla conquista dell’Africa Orientale; la Palestina e la Siria del libretto diventano l’Abissinia; Briano, il «pio solitario», è un ascaro copto; il servo Jorg è un camerata e la tempesta del quarto atto diventa la tempesta di bombe su Rimini di quella notte del ’43 quando la sala del teatro fu ridotta in macerie.

Un forte legame è quello tra l’Aroldo e il Galli: qui l’opera aveva debuttato il 16 agosto 1857 per inaugurarlo come Teatro Nuovo (così si chiamava allora), e qui ritorna dopo 164 anni a celebrare la rinascita dell’edificio. È infatti la prima vera produzione lirica pensata per questo teatro dopo la Cenerentola semiscenica – madrina d’eccezione Cecilia Bartoli – con cui era stato riaperto tre anni fa.

Artefici dell’operazione attuale sono il direttore Manlio Benzi e i registi Emilio Sala ed Edoardo Sanchi, i quali pongono la storia del teatro stesso al centro della drammaturgia dell’Aroldo. Il loro diventa un allestimento site specific, dove la scenografa Giulia Bruschi si limita a impiegare le scritte di regime a caratteri cubitali in un palcoscenico praticamente vuoto: esposto nella sua nudità e con le maestranze tecniche in vista il teatro diventa uno dei protagonisti. I costumi di Raffaella Girardi ed Elisa Serpilli, che trasformano Mina in una vamp dei telefoni bianchi, Aroldo in immacolata divisa un giovane Duca D’Aosta e il padre un podestà in orbace, e il montaggio video di Matteo Castiglioni creano uno spettacolo di grande forza espressiva nonostante le oscurità e le luci di Nevio Cavina che rendono difficile la visione su schermo. La definizione dell’immagine trasmessa non è poi delle migliori, tanto che certe azioni bisogna immaginarle, e ci sono pure due salti nella registrazione nel terzo e nel quarto atto.

Prima dell’opera arriva sul palcoscenico con la sua bicicletta l’attore Ivano Maroschetti a raccontare la vicenda del teatro ora Amintore Galli e del suo sipario che vediamo annerito di fumo e polvere. Poi inizia la musica. Siamo dunque nel 1935 e i volantini che piovono dall’alto – richiamo non peregrino al film Senso di Visconti… – riportano le parole, tutte in maiuscolo, di Dio, patria, famiglia, dovere, onore, sacrificio, i temi su cui si fondava l’ideologia fascista, ma parole che hanno anche un dirompente significato per la vicenda del fuggevole adulterio il cui esito stiamo per vedere. Sullo sfondo passano immagini di propaganda del Ventennio e ascoltiamo anche il frammento di un discorso del Duce alla folla osannante. Prima del quarto atto il classico calendario che si sfoglia ci porta al 28 dicembre 1943: Mina e il padre vagano tra le macerie dei bombardamenti, si vedono anche quelle del teatro. I valori che avevano dominato per tutta l’opera nel finale “evaporano” in una apoteosi di riconciliazione: «Oh istante sublime! | Oh gioia insperata! | Trionfi la legge divina d’amor!». I personaggi si tolgono i costumi e si presentano in abiti contemporanei, mentre dall’alto scende il sipario storico dipinto dal Coghetti finalmente restaurato e il teatro viene restituito al nostro oggi con la sua sala sfavillante di luci.

Destini opposti quelli delle due opere verdiane: Stiffelio non ebbe successo ai suoi tempi ma è fatto segno di attento recupero ai nostri; Aroldo ebbe un successo memorabile al suo apparire per poi venire quasi dimenticato dopo essere stato considerato la brutta copia dell’originale, un suo succedaneo a prova della censura dello Stato Pontificio dell’epoca. Non così la pensa Manlio Benzi alla testa dell’Orchestra Luigi Cherubini che occupa tutta la platea mentre l’esiguo pubblico occupa i palchi. Il direttore affronta con vigore questa partitura verdiana che forse non è al passo coi suoi tempi – tra Stiffelio e Aroldo ci sono state le opere della trilogia popolare, I vespri siciliani e il Simon Boccanegra – ma ha superato la rigida struttura recitativo-aria-cavatina-duetto per organizzarsi in grandi blocchi drammatici, e la direzione di Benzi mette bene in evidenza questa svolta della maturità verdiana. Complimenti anche alla sua abilità nel governare strumentisiti molto distanti fra loro causa il distanziamento da Covid-19.

Il soprano russo Lidia Fridman si conferma interprete di grande presenza scenica, dal timbro particolare e penetrante. Mina è l’unico personaggio femminile ed è lei il carattere principale, la forza drammaturgica, la protagonista che porta a un’ipotesi di catarsi finale fondata sul perdono. Nell’Aroldo Antonio Corianò mette in campo una vocalità tenorile sostenuta da una voce di grande proiezione di cui non abusa: mezze tinte e piani preparano la “conversione” del marito colpito nell’onore e votato al perdono nel finale. In Egberto Michele Govi esibisce uno strumento potente ed espressivo, peccato che la dizione non sempre sia chiara e le parole talora siano mezze mangiate. Il Briano del basso Adriano Gramigni è efficace nel suo ruolo di deus ex machina risolutore. Con il Godvino di Cristiano Olivieri si capisce l’improvvisa decisione di Mina di lasciare l’amante alla sua sorte per tornare tra le braccia del marito legittimo: non c’è confronto tra l’aitante Corianò e il meno giovane e vocalmente appannato Olivieri.

Coprodotto con Modena e Reggio Emilia, lo spettacolo è offerto da Opera Streaming ed è al momento disponibile su YouTube.