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Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor
★★☆☆☆
Zurigo, Opernhaus, 20 giugno 2021
(video streaming)
La noia del teatro di regia
«L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel Castello di Ravenswood, parte nella rovinata torre di Wolferag. L’epoca rimonta al declinare del secolo XVI». Così indica il libretto del dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano, ma nella messa in scena alla Opernhaus di Zurigo la Scozia è solo nel kilt di alcuni maschi e l’epoca è spostata nei soliti anni ’40 del secolo scorso – non una grande novità inverità.
Zeppo dei soliti clichet del teatro di regia è quello di Tatjana Gürbaca: ralenti, personaggi immobilizzati nei momenti di tensione, figuranti ingombranti, alter-ego infantili dei protagonisti, rapporti sessuali mimati, quantità industriale di sangue e coltellate nella scena dell’omicidio del novello sposo, scena che nel libretto è solo raccontata mentre qui è rappresentata esplicitamente, graphically direbbero gli americani. Nella drammaturgia di Beate Breidenbach vediamo Lucia e il fratello bambini giocare innocentemente, forse a evidenziare i tesi e talora ambigui rapporti da adulti. Fatto sta che qui Enrico alla fine si impicca. Il racconto di quando Lucia viene salvata da «impetuoso toro» dalla freccia di Edgardo, anche lui bambino, qui è visivamente rappresentato come un incubo della ragazza, incubo che ritorna la prima notte delle nozze con lo sfortunato Arturo.
La scenografia di Klaus Grünberg, che cura anche le luci, consiste in una struttura rotante che mostra praticamente sempre la stessa stanza, con tristi pannellature. Un letto perde nel corso della serata il materasso e nel finale diventa la tomba della protagonista. Le pareti col tempo si coprono di vegetazione per poi ridursi alla sola struttura. L’andirivieni dei personaggi da una all’altra si rivela incoerente e privo di necessità drammaturgica, così come la presenza del fantasma della madre (?) che suona un’arpa o il personaggio maschile a torso nudo e il minaccioso bucranio. Il tutto pare uno svogliato inserimento di psicologismo a buon mercato in una produzione di livello piuttosto mediocre.
Per di più le misure adattate dal teatro per la pandemia, ossia orchestra e coro a distanza (misure che hanno mirabilmente caratterizzato il Boris Godunov di Kosky), qui non funzionano: la direzione di Speranza Scappucci alla guida della Philharmonia Zürich è spesso frettolosa, con i tagli di cattiva tradizione e variazioni rispetto alla partitura – la scena della pazzia è trasposta in mi bemolle invece dell’originale Fa maggiore, il duetto maschile del secondo atto è abbassato di un tono rispetto all’originale La, altri aggiustamenti sono disseminati qua e là. L’intesa coi cantanti talora è precaria, così come gli interventi del coro, che rimane sonoramente distante, qui supplito da una folla di figuranti.
Nella parte del titolo Irina Lungu sostituisce la prevista Lisette Oropesa, che ha cancellato il suo impegno e la cui presenza sembra rimandata per la ripresa della produzione l’anno prossimo. Il soprano russo arriva stanco alla fine della scena della pazzia e l’acuto finale è un grido un po’ scomposto. Le agilità non sono sempre fluide e il vibrato piuttosto largo, ma il temperamento compensa una performance sostanzialmente accettabile – il che è però un po’ poco per un ruolo monstre come questo e per una produzione tanto attesa. Al suo fianco c’è Piotr Beczała, il più festeggiato dai pochi spettatori ammessi (sono pochi, ma non risparmiano i buu alla regia). Il tenore polacco, che ha cantato la parte innumerevoli volte, spiega un canto vocalmente generoso, ma sarà interessante sentire invece Benjamin Bernheim che prenderà il suo posto come Edgardo nella ripresa di primavera. Piuttosto rozzo e dal vibrato traballante è l’Enrico Ashton di Massimo Cavalletti, mentre quasi imbarazzante il Raimondo Bidebent di Oleg Tsibulko, un basso senza le note basse – e neanche le alte. Meglio i personaggi secondari di Alisa (Roswitha Christina Müller), Normanno (Iain Milne) e Andrew Owens (Arturo Bucklaw).
⸪