Walter Scott

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

Milano, Teatro alla Scala, 13 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

Lisette Oropesa infiamma il pubblico della Scala

Con le trasmissioni video l’opera ha aggiunto la dimensione visiva a quella solo acustica dei dischi, in vinile o CD, a cui è stato confinato per parecchi decenni chi non poteva frequentare i teatri d’opera. Esserci di persona è un’altra cosa, è lapalissiano, ma è comunque già molto poter vedere lo spettacolo sullo schermo. Se poi si dispone di un impianto di riproduzione audio di alto livello la fruizione si avvicina abbastanza alla realtà.

Ahimè, non è il mio caso: il mio apparecchio televisivo denuncia i suoi anni e finché non passo a qualcosa di più sofisticato mi devo accontentare e adattare il mio udito al segnale sonoro che ricevo. Ecco quindi che per quanto riguarda l’ultima trasmissione televisiva offerta dal Teatro alla Scala, la Lucia di Lammermoor che doveva inaugurare la stagione lirica 2020-21 annullata per Covid, le impressioni devono fare i conti con le limitatezze del mezzo: equilibri e volumi sonori non sono quelli che avrei potuto ascoltare dal vivo e i miei altoparlanti evidenziano difetti che probabilmente in realtà non ci sono o al contrario smussano asperità che il pubblico in sala ha invece percepito. Tutto questo per mettere le mani avanti rispetto alla mia impressione sull’esecuzione musicale che mi è entrata in casa.

Meglio va per l’elemento visivo, anche se la regia televisiva talora migliora quello che si è visto dal vero, talora lo peggiora oppure ne fornisce una prospettiva diversa. Tre aspetti sono risultati comunque ben chiari in questa ultima Lucia alla Scala: l’apprezzamento del pubblico per la direzione musicale, il trionfo di almeno due degli interpreti vocali, i dissensi per la messa in scena.

Riccardo Chailly restituisce Lucia «alla purezza e all’identità donizettiana» con il ripristino di 33 battute e delle parti che troppo spesso vengono tagliate, soprattutto per quella di Raimondo che riacquista qui il suo giusto peso drammaturgico. Il Maestro si basa sulla edizione critica di Gabriele Dotto e Roger Parker della partitura utilizzata il 26 settembre 1835 al Teatro di San Carlo di Napoli e pone molta «attenzione alla continuità, cioè al filo armonico e drammatico» che lega le azioni dei personaggi, eseguendo senza interruzione le prime due parti, “La partenza” e “Il contratto nuziale I” prima dell’intervallo cui segue “Il contratto nuziale II”. Oltre all’utilizzo della glasharmonika per la scena della pazzia viene anche eliminata la cadenza del soprano col flauto, composta nel 1889 per Nellie Melba dalla sua maestra di canto, che quindi di Donizetti non ha nulla. 

Fin qui le intenzioni. Per quanto riguarda i risultati della sua lettura della partitura e la sua concertazione, la direzione di Chailly si è fatta ammirare per la incalzante continuità narrativa della fosca vicenda, la varietà delle dinamiche e dei colori, ma nello stesso tempo la cura per i dettagli strumentali. L’orchestra accompagna con partecipazione il duetto d’amore prima, l’inquietudine di Lucia poi, la convulsa scena del contratto di nozze, la tensione del grande concertato del secondo atto. L’atmosfera diventa violenta nella scena della torre dove la furia degli elementi sottolinea quella dei due uomini che si fronteggiano. Non è solo la glasharmonika a dare il tono spettrale alla pazzia di Lucia: i pizzicati degli archi, le volatine del flauto, le lunghe note di oboe e clarinetto, tutto converge a dipingere efficacemente la desolazione della donna e la sua conseguente follia omicida.

Autentiche ovazioni accolgono la performance di Lisette Oropesa. Un risultato sorprendente in un teatro che ha visto nel passato le ingombranti presenze di Maria Callas (1954), Joan Sutherland (1961), Renata Scotto (1967), Beverly Sills (1970), Luciana Serra (1983), Mariella Devia (1992) o June Anderson (1997). Elvio Giudici nel programma di sala analizza il ruolo che a Napoli e a Parigi fu della Fanny Tacchinardi Persiani per poi arrivare alle incisioni con la Pagliughi e Lily Pons, fino alle recenti Rancatore e Netrebko. Ora si inserisce a sorpresa quello appunto del soprano americano di cui si ammirano soprattutto la duttilità vocale e la presenza scenica. Vera interprete belcantista, non gioca solo magistralmente con piani e pianissimi, agilità fluide e leggere, acuti luminosissimi, ma riesce a delineare un personaggio drammaticamente consistente che da subito fa presagire l’instabilità mentale che la porterà alle estreme conseguenze dell’uxoricidio. Sentimenti quali il languore amoroso nei duetti con Edgardo o l’angoscia poi disperata, sono vissuti con grande sensibilità e forse un eccesso di vibrato dalla cantante che però ha dalla sua una bella freschezza vocale.

Secondo per intensità di applausi è il Raimondo di Michele Pertusi, personaggio che come già detto ha riacquistato la sua dimensione drammaturgica dando la possibilità al basso parmense di esibire le sue intatte doti vocali e interpretative sostenute da un’emissione potente ma morbida, da un fraseggio impeccabile, da un’espressione chiara e solenne tale da suscitare empatia verso un personaggio che ha invece i suoi lati ambigui. 

Sempre sul programma di sala Alberto Mattioli discetta del ruolo maschile dell’opera, l’Edgardo creato a Napoli da quel Gilbert-Louis Duprez che quattro anni prima aveva partecipato con scalpore alla inaugurazione a Lucca della prima italiana del Guillaume Tell rossiniano ma che diventerà il tenore preferito da Donizetti, il quale scriverà per lui ben sei opere – oltre alla Lucia, Parisina, Rosmonda d’Inghilterra, Les Martyrs, La favorite e Dom Sébastien. Qui alla Scala Chailly ha voluto Juan Diego Flórez che sconfina un poco in un repertorio non del tutto suo apportandovi però la sua classe. Nella ripresa televisiva non si nota la relativa mancanza di volume che qualcuno ha lamentato dal vivo, anzi. Unica pecca nella sua interpretazione è una presenza scenica poco efficace con una certa gesticolazione di maniera e un’espressività facciale poco fotogenica. Neanche Boris Pinkhasovič è un esempio di grande attorialità, vocalmente però è potente, elegante e il suo Enrico non ricorre a emissioni sforzate per sottolineare la crudeltà del personaggio. Efficace il coro e convincenti gli interpreti dei ruoli minori: Giorgio Misseri (Normanno), Leonardo Cortellazzi (Arturo) e Valentina Plužnikova (Alisa).

Sonori buu hanno salutato l’ingresso del regista Yannis Kokkos ai saluti finali: non è chiaro se perché la sua regia è stata considerata troppo tradizionalista o, all’opposto, perché ha scelto costumi moderni. In effetti gli abiti anni ’20 dei personaggi erano l’unico elemento imprevedibile di una messa in scena che poteva tranquillamente risalire a  cinquant’anni fa. La scenografia è scura e si avvale di pochi elementi didascalici come le statue di levrieri e cervi per la scena della caccia, di una donna velata come il Cristo della cappella Sansevero di Napoli per quella della fontana della Sirena, della Morte con la falce per il cimitero. Elementi scenici obliqui ricordano sia la produzione di Pier’ Alli del 1992 sia la recente Aida di Livermore mentre sulla scalinata ingombra degli invitati alla festa appare la figura di Lucia nella solita veste bianca macchiata, qui con moderazione, di sangue. Quasi totale la mancanza di regia attoriale e se ne esce comunque vincente la Oropesa, Flórez e Pinkhasovič ne risentono. Precisi ma prevedibili i movimenti del coro.

Nulla di particolarmente originale nella lettura di Kokkos dunque, ma neanche di fastidioso o fuorviante. Dalla Scala ci si aspetterebbe però qualcosa di più. Semplicemente quello che si può vedere appena al di là dei confini, come ad esempio la Lucia del Teatro Real di Madrid.

Pubblicità

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

New York, Metropolitan Opera House, 21 maggio 2022

(live streaming)

Al Met una Lucia splatter che piacerebbe a Quentin Tarantino

Il prezioso manoscritto della partitura della Lucia di Lammermoor andata in scena a Napoli nel 1835 e  custodito nella biblioteca Angelo Mai di Bergamo varca l’oceano la prima volta per essere esposto all’Istituto Italiano di Cultura di New York dove il 21 aprile è stata tenuta una tavola rotonda con la partecipazione di Riccardo Frizza che ha diretto al Metropolitan Opera House l’opera nella nuova produzione di Simon Stone, per la prima volta nel teatro americano, l’ultima delle centinaia rappresentazioni di questo titolo particolarmente frequente al Met. L’ultima delle repliche è stata trasmessa live nei cinema aderenti al progetto “The Met Live in HD”, ed è quella a cui si riferisce questa recensione.

Che la vicenda di Walter Scott abbia ultimamente abbandonato le originali brume della Scozia non fa notizia nei teatri che la mettono in scena in Europa, ma il Metropolitan di New York non si è sempre dimostrato molto aperto a una rivisitazione dei classici della lirica, preferendo regie tradizionali. Già i costumi Ottocento del precedente allestimento di Mary Zimmermann avevano fatto arricciare il naso ad alcuni spettatori, ma ora Simon Stone trasporta «Lucia, closeups of a cursed life» (Lucia, primi piani di una vita infelice) come si legge all’inizio, nella attualità di un desolato paese della Rust Belt. Ed ecco le dichiarazioni del regista: «La Lucia originale si svolge nella Scozia del XVIII secolo con la caduta dell’aristocrazia: è molto importante l’idea che la fine di quest’epoca gloriosa dell’aristocrazia scozzese abbia portato con sé ogni tipo di povertà e decadenza, utilizzando le donne per riconquistare un certo tipo di potere. Cerco sempre di ambientare ogni opera che faccio nel Paese in cui la metto in scena perché voglio parlare in qualche modo al pubblico che la guarda e in questo caso ho cercato di trovare un luogo in America che riflettesse un’epoca gloriosa passata e il posto più suggestivo che ci è venuto in mente è stata la Rust Belt», quell’area degli Stati Uniti dove il declino delle industrie ha lasciato spazio a declino economico e decadenza urbana.

La vicenda è dunque giustamente adattata: non è da un «impetuoso toro» che Lucia viene salvata, ma da un tentativo di rapina sventato da Edgardo, come vediamo durante il preludio; il racconto del fantasma della fontana, che è un impianto idroelettrico abbandonato, è l’omicidio di una giovane ragazza di colore; Edgardo, lavorante in un fast food, deve partire soldato; Enrico è un trafficante di droga e prostituzione i cui affari però vanno male; la lotta fra le casate è la lotta fra gruppi mafiosi; le lettere fra i due giovani sono i messaggi sui social; il «simulato foglio» è una fake news sul cellulare; la torre di Wolferang è un pick up parcheggiato davanti al supermercato e al banco dei pegni. E la scena dell’uccisione è in pieno stile splatter con Arturo ammazzato con un estintore. Ma non è niente in confronto a Lucia che sembra uscita da una doccia di sangue: nella gara a chi ne fa più uso, al momento questa la vince su tutte e l’horror confina col grottesco quando un esercito di zombie con le fattezze di Arturo salta fuori prima della cabaletta «Spargi d’amaro pianto». Prima ancora la festa di nozze era finita in una rissa tra gli invitati e a torte in faccia. Tutto ha una sua logica ma qui, più che altre volte, il contrasto fra le parole che ascoltiamo – il registro letterario dei versi di Cammarano – e le immagini di prosaica contemporaneità è insanabile. Ma c’è da dire che questo problema non riguarda gli spettatori americani che non conoscono l’italiano e hanno a disposizione dei sovratitoli con una traduzione molto libera del libretto.

La piattaforma rotante, di cui Stone è sempre stato un fedele utilizzatore e vero marchio di fabbrica degli allestimenti di oggi, è presente anche in questa scenografia di Lizzie Clachan: si passa quindi con continuità nei paesaggi degradati di motel, parcheggi, diner, cinema drive-in, squallidi cortili con le volgari decorazioni delle nozze. Su uno schermo in alto si vedono i primi piani degli interpreti ripresi da una onnipresente steady-cam, un’idea non originale e che funziona male nella trasmissione video in cui il regista insiste sui primi piani dei protagonisti e si perde l’incessante roteare della piattaforma.

Magnifica la concertazione di Riccardo Frizza, sempre rispettosa delle voci, con tempi giusti, con tutti i tagli di tradizione riaperti e l’uso della glasharmonika nella scena della pazzia. Nadine Sierra è una Lucia notevole per potenza vocale, agilità dipanate con maestria, variazioni nelle riprese e puntature fulminanti. Sempre in primo piano nella ripresa televisiva, si dimostra grande attrice ed è bravissima a non uscire dal personaggio durante gli interminabili applausi a scena aperta. Javier Camarena ha voce leggera e timbro chiaro che lo  connotano come l’innocente capitato in un mondo crudele. Inizialmente più Nemorino che Edgardo, prende quota nel corso della rappresentazione e negli acuti la voce esce fuori in tutta la sua potenza e drammaticità. Artur Ruciński è un Enrico trucido e vocalmente brutale, senza sfumature. Pieno di tatuaggi come un criminale o un affiliato della Yakuza, sniffa coca, si attacca alla bottiglia e ha sempre la sigaretta sulle labbra e il coltello in mano. Christian van Horn sostituisce Matthew Rose con grande autorevolezza nella parte di Raimondo. Ottimo come sempre l’apporto del coro.

Numerosi applausi a scena aperta, ovazioni e standing ovation finale ai quattro protagonisti principali. Qui al Met è importante dare al pubblico quello che si aspetta: immagini forti e acuti.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★☆☆☆

Zurigo, Opernhaus, 20 giugno 2021

(video streaming)

La noia del teatro di regia

«L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel Castello di Ravenswood, parte nella rovinata torre di Wolferag. L’epoca rimonta al declinare del secolo XVI». Così indica il libretto del dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano, ma nella messa in scena alla Opernhaus di Zurigo la Scozia è solo nel kilt di alcuni maschi e l’epoca è spostata nei soliti anni ’40 del secolo scorso – non una grande novità inverità.

Zeppo dei soliti clichet del teatro di regia è quello di Tatjana Gürbaca: ralenti, personaggi immobilizzati nei momenti di tensione, figuranti ingombranti, alter-ego infantili dei protagonisti, rapporti sessuali mimati, quantità industriale di sangue e coltellate nella scena dell’omicidio del novello sposo, scena che nel libretto è solo raccontata mentre qui è rappresentata esplicitamente, graphically direbbero gli americani. Nella drammaturgia di Beate Breidenbach vediamo Lucia e il fratello bambini giocare innocentemente, forse a evidenziare i tesi e talora ambigui rapporti da adulti. Fatto sta che qui Enrico alla fine si impicca. Il racconto di quando Lucia viene salvata da «impetuoso toro» dalla freccia di Edgardo, anche lui bambino, qui è visivamente rappresentato come un incubo della ragazza, incubo che ritorna la prima notte delle nozze con lo sfortunato Arturo.

La scenografia di Klaus Grünberg, che cura anche le luci, consiste in una struttura rotante che mostra praticamente sempre la stessa stanza, con tristi pannellature. Un letto perde nel corso della serata il materasso e nel finale diventa la tomba della protagonista. Le pareti col tempo si coprono di vegetazione per poi ridursi alla sola struttura. L’andirivieni dei personaggi da una all’altra si rivela incoerente e privo di necessità drammaturgica, così come la presenza del fantasma della madre (?) che suona un’arpa o il personaggio maschile a torso nudo e il minaccioso bucranio. Il tutto pare uno svogliato inserimento di psicologismo a buon mercato in una produzione di livello piuttosto mediocre.

Per di più le misure adattate dal teatro per la pandemia, ossia orchestra e coro a distanza (misure che hanno mirabilmente caratterizzato il Boris Godunov di Kosky), qui non funzionano: la direzione di Speranza Scappucci alla guida della Philharmonia Zürich è spesso frettolosa, con i tagli di cattiva tradizione e variazioni rispetto alla partitura – la scena della pazzia è trasposta in mi bemolle invece dell’originale Fa maggiore, il duetto maschile del secondo atto è abbassato di un tono rispetto all’originale La, altri aggiustamenti sono disseminati qua e là. L’intesa coi cantanti talora è precaria, così come gli interventi del coro, che rimane sonoramente distante, qui supplito da una folla di figuranti.

Nella parte del titolo Irina Lungu sostituisce la prevista Lisette Oropesa, che ha cancellato il suo impegno e la cui presenza sembra rimandata per la ripresa della produzione l’anno prossimo. Il soprano russo arriva stanco alla fine della scena della pazzia e l’acuto finale è un grido un po’ scomposto. Le agilità non sono sempre fluide e il vibrato piuttosto largo, ma il temperamento compensa una performance sostanzialmente accettabile – il che è però un po’ poco per un ruolo monstre come questo e per una produzione tanto attesa. Al suo fianco c’è Piotr Beczała, il più festeggiato dai pochi spettatori ammessi (sono pochi, ma non risparmiano i buu alla regia). Il tenore polacco, che ha cantato la parte innumerevoli volte, spiega un canto vocalmente generoso, ma sarà interessante sentire invece Benjamin Bernheim che prenderà il suo posto come Edgardo nella ripresa di primavera. Piuttosto rozzo e dal vibrato traballante è l’Enrico Ashton di Massimo Cavalletti, mentre quasi imbarazzante il Raimondo Bidebent di Oleg Tsibulko, un basso senza le note basse – e neanche le alte. Meglio i personaggi secondari di Alisa (Roswitha Christina Müller), Normanno (Iain Milne) e Andrew Owens (Arturo Bucklaw).

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Amburgo, Staatsoper, 20 marzo 2021

(video streaming)

L’incubo maschilista di Lucia

Non è la prima regia femminile per Lucia di Lammermoor: la tragica vicenda della disgraziata giovane, vittima dell’universo maschile che la circonda, ha già destato l’interesse, tra le altre, di Katie Mitchell. Ora Amélie Niermeyer, che a Vienna aveva urtato il pubblico con la sua Leonore, a Berlino non rinuncia a una lettura femminista del lavoro donizettiano.

La Lucia della Niermeyer non è una romantica eroina ottocentesca, è una ragazza di oggi, ben decisa, che non sviene – «Ella sta fra morte e vita!…» dice il libretto, ma qui invece sfida apertamente il fratello che le impone il matrimonio gettando per terra il manichino con l’abito da sposa – e non muore per amore: nella drammaturgia di Rainer Karlitschek scopriamo (spoiler alert!) che alla fine è viva ma è tenuta prigioniera nella sua camera e che il suo funerale è una messa in scena per far crollare il detestato Edgardo di Ravenswood. Prima e durante lo spettacolo (talora poco opportunamente) vengono proiettate le immagini di un gruppo di femministe che danzano per strada, o meglio eseguono dei gesti che anche Lucia ripete cantando

La scenografia di Christian Schmidt mostra un interno diviso in quattro ambienti su due piani distinti da colori e luci differenti montati su un piano scorrevole che può aumentare o diminuire l’ampiezza degli ambienti fino a nascondere alla nostra vista gli ambienti di destra, tra cui la camera di Lucia al primo piano. E infatti nel finale, mentre vediamo il finto funerale e il suicidio di Edgardo a sinistra, piano piano ci viene mostrata Lucia imbavagliata e legata al letto con un suggestivo effetto cinematografico. Molte belle ed efficaci sono le luci di Bernd Purkrabek, ma la regia è anche attenta alla musica, come durante le battute introduttive alla stretta «La pietade in suo favore», momento spesso imbarazzante in cui il baritono non sa che fare in attesa della sua battuta, e qui Enrico è alla ricerca di un accendino per la sua sigaretta. Subito dopo l’introduzione con arpa, che permetterebbe il cambiamento di scena, qui accompagna solo la transizione luminosa che suggerisce l’imbrunire nel parco e la “fonte” è un pianoforte verticale su cui suona la confidente/carceriera Alisa. Più psicologicamente intenzionali sono alcuni momenti come quello di «Verranno a te sull’aure», con i due giovani già irrimediabilmente separati. La puntatura finale del duetto sembra suggellare l’incolmabile distanza invece che esaltare il loro sentimento.

Alla guida dell’orchestra del teatro, talora manchevole soprattutto nei fiati, Giampaolo Bisanti dà una lettura drammatica e chiaroscurale e per la scena della pazzia di Lucia reintroduce il suono sidereo della glasharmonica, qui dei veri e proprio bicchieri di vetro suonati da un virtuoso, credo Sascha Reckert, ma il suo nome non viene citato nei credits.

Purtroppo i recitativi sono spesso accorciati ed è tagliata, secondo una infausta consuetudine dura a morire, la scena Edgardo-Enrico (seconda e terza de “Il contratto nuziale II”). È ripristinata invece la scena Lucia-Raimondo (terza de “Il contratto nuziale I”) che ridà importanza drammaturgica al personaggio del confidente con il quale si completa il ritratto degli uomini che opprimono la ragazza – lui con la scusa della religione, «Al ben de’ tuoi qual vittima | offri Lucia, te stessa; | e tanto sacrifizio | scritto nel ciel sarà». Il problema del distanziamento per i coristi è risolto anche qui con il coro fuori scena e con figuranti e mimi mascherati sul palcoscenico, soluzione riuscita dal punto di vista teatrale, un po’ meno da quello dell’equilibrio sonoro.

Ritorna nella parte che aveva portato a Monaco tre anni fa il soprano russo Venera Gimadieva, cantante non esaltante dal punto di vista espressivo, da un buon registro acuto facilitato però da un abbassamento di tono in questa versione. Ma non c’è alcun feeling con il suo Edgardo, qui un Francesco Demuro che non fa molto per corrisponderle: stentoreo e testosteronico il tenore italiano neanche cerca di interpretare, ma si accontenta di porgere le note, e non sempre in modo ineccepibile. Altra classe è quella di Christoph Pohl, un Enrico Ashton combattuto tra l’amore per la sorella e quello che significa un suo matrimonio per la salvezza del casato. La scelta però è quella implacabile del sacrifico della ragazza e il finale a sorpresa lo rende ancora più crudele. Alexander Roslavets è efficace nella ipocrisia di Raimondo che la regista fa incongruamente esultare quando lui riesce a ottenere dalla ragazza un primo assenso alle nozze. Ancora più viscido del solito è il personaggio di Normanno affidato qui a Daniel Kluge. Beomjin Kim è lo sventurato Arturo Bucklaw.

La dame blanche

François-Adrien Boieldieu, La dame blanche

★★☆☆☆

Rennes, Opéra, 11 dicembre 2020

(live streaming)

La dame à plumes

Un direttore d’orchestra che si presenta vestito da Papageno mette già sull’avviso: quella a cui stiamo per assistere non è una rappresentazione come le altre, nemmeno in tempo di pandemia. Ma non si rivelerà il singolare “progetto filmico” che viene preannunciato, quanto piuttosto un modesto allestimento che sembra quasi un saggio accademico. Ma andiamo per ordine.

La dame blanche è un’opera che ebbe un enorme successo nell’Ottocento per poi venire completamente dimenticata nel secolo successivo: fu creata il 10 dicembre 1825 e nei primi nove anni fu rappresentata mille volte, altre 637 fino al 1900, poi quasi nulla. Da poco si riprende timidamente la scena a partire dal suo ritorno all’Opéra-Comique nel 1997 dopo una lunga assenza. Nel febbraio 2020 vi è ritornata un’altra volta e in attesa della produzione nizzarda il mese prossimo, ora è l’Opéra de Rennes che mette in scena una produzione senza pubblico che viene prontamente registrata e diffusa in streaming.

François-Adrien Boieldieu (1775-1834) è una figura importante dell’opera francese. Il suo primo successo lo ebbe a 18 anni con La fille coupable rappresentata nel teatro della sua città natale, Rouen. Trasferito a Parigi il compositore trionfò con Zoraïme et Zulnar (1798) e Le Calife de Bagdad (1800). Dopo aver passato otto anni alla corte russa di San Pietroburgo ritornò nella capitale francese per La dame blanche, penultima delle quasi quaranta opere da lui scritte. I tre atti di quest’opéra-comique sono su libretto di Eugène Scribe basato su Guy Mannering (1815) e da The Monastery (1820), romanzi di Walter Scott. Dal primo è tratta la trama essenziale, dal secondo il personaggio del fantasma, figura alla moda nel romanzo gotico che The Monk di Matthew Gregory Lewis aveva lanciato alla fine del XVIII secolo e che i librettisti francesi presto adottarono.

Antefatto. L’azione si svolge in Scozia nelle terre dei conti di Avenel che hanno cresciuto un figlio, Julien, misteriosamente scomparso durante la sua infanzia, così come una giovane orfana, Anna. Dopo essere andati in esilio per motivi politici, il conte e la contessa hanno lasciato la loro proprietà nelle mani di un maggiordomo, Gaveston, che ha intenzione di riscattarla e diventarne il padrone. Anna è stata lasciata sola nel castello con la vecchia zitella Marguerite e Gaveston, che le fanno da tutori.
Atto primo. Il contadino Dickson e sua moglie Jenny ricevono la visita di George Brown, un giovane ufficiale inglese che chiede loro ospitalità. George ricorda vagamente di aver avuto un’infanzia felice, soprattutto innamorato della ragazza che una volta si prese cura di lui mentre era ferito. I contadini spiegano a George la situazione in cui si trovano le tenute dei Conti d’Avenel: il vecchio castello, in rovina e infestato, dicono, da una misteriosa Dama Bianca, sarà presto messo in vendita e sarà probabilmente acquistato da Gaveston. Dickson è stato incaricato dagli agricoltori locali di acquistare e partecipare alla prossima asta. Viene recaptato al contadino un messaggio misterioso: arriva dalla Dama Bianca, che gli dà appuntamento al castello. Terrorizzato, Dickson è sollevato nel vedere che George Brown è pronto a prendere il suo posto.
Atto secondo. Il misterioso fantasma del castello non è altri che Anna, l’orfana una volta accolta dal Conte e dalla Contessa. Travestita da Dama Bianca dà il benvenuto a George Brown e lo riconosce immediatamente come il giovane di cui si prendeva cura. Chiede al giovane ufficiale di partecipare all’asta del castello. Giorgio obbedisce, si aggiudica la vendita … ma non è in grado di onorare il pagamento!
Atto terzo. Gaveston scopre che George è Julien e questo potrebbe ostacolare i suoi piani, poiché il giovane è l’erede legale della tenuta di Avenel, ma Julien sembra ancora affetto da amnesia e Gaveston non è preoccupato. Il ricordo, però, sembra a poco a poco tornare al giovane, in particolare quando sente i contadini cantare una vecchia melodia scozzese. Durante questo periodo, la serva Marguerite e Anna cercano di trovare la statua della Dama Bianca nascosta da qualche parte nel castello. È da questa statua che poteva venire la soluzione a tutti i loro problemi: la contessa aveva infatti spiegato una volta ad Anna che lì era nascosto il tesoro di famiglia. Marguerite finisce per scoprire la statua. Anna, ancora travestita da Dama Bianca, porta i soldi per l’acquisto del castello e rivela a tutti l’identità di Julien/George Brown. Furioso, Gaveston strappa il velo della Dama Bianca: l’inganno viene smascherato, Julien riconosce Anna e le chiede la mano.

Mozart e Rossini sono le influenze più evidenti nella musica de La dame blanche. Del secondo, collega al Théâtre-Italien, si riconosce il crescendo nella vivace ouverture, scritta in collaborazione con Adolphe Adam e Théodore Labarre, che dà subito il tono della festa con cui inizia la vicenda. Del primo sono i grandi finali d’atto delle opere buffe con i complessi concertati. Ma un altro nome viene in mente all’ascolto, il futuro Donizetti: sia nelle parole sia nelle note la prima aria di George Brown «Ah, quel plaisir d’être soldat» richiama il Tonio de La fille du régiment e succede la stessa cosa anche dopo con «Observons, écoutons et puis attendons», questa volta i couplets di Marie «Voyons, écoutons! Écoutons, et jugeons!». Per di più Boieldieu riesce nell’impresa di musicare una vendita all’asta centoventi anni prima dello stravinskiano Rake’s Progress! I temi scozzesi hanno un ruolo importante nella partitura, non ultimo quello che serve a riportare la memoria al giovane affetto da amnesia.

Con l’ingenua messa in scena di Louise Vignaud e le scenografie minimaliste di Irène Vignaud, la produzione è firmata dalla co[opéra]tive, un’équipe di 40 persone (14 cantanti, 19 strumentisti, regista e 6 aiuti) che porta in giro i suoi spettacoli con una smilza compagine orchestrale, l’Orchestre Les Siècles, su strumenti del 1830 e formata da 5 violini, una viola, un violoncello, 2 contrabbassi, un flauto, un oboe, un clarinetto, un fagotto, 2 corni, un trombone, percussioni e arpa. Diretta da Nicolas Simon vuole ricreare il suono di uno dei tanti teatrini in cui si mettevano in scena queste ingenue storie con cantanti magari non eccelsi. Il problema però è che a tratti pare di ascoltare una delle orchestrine di Piazza San Marco e per quanto riguarda i cantanti i ruoli sono tutt’altro che semplici e quello di George/Jules ha le stesse difficoltà di certi ruoli rossiniani. Volenteroso il cast formato da giovani promesse, ancora acerbe al momento. Sahy Ratia è appunto George/Jules che se la deve vedere con quella cavatina «Viens, gentille dame» appannaggio dei più eccelsi belcantisti, e bisogna dire che non ne esce troppo male. Caroline Jestaedt è un’Anna dalla voce esilissima che si teme si spezzi da un momento all’altro, Yannis François un Gaveston un po’ più solido, Sandrine Buendia Jenny, Fabien Hyon Dikson. Smilzo come l’orchestra il coro Le Cortège d’Orphée impegnato in molte pagine.

Quello che rimane nel ricordo di questo spettacolo sono i costumi di Cindy Lombardi: la pittoresca tribù degli scozzesi con corna e pellicce, gli abitanti del castello trasformati in insetti (coleottero Gaveston, ragno Marguerite) e la Dame Blanche/Anna candida civetta. Per tutti grande profusione di piume – anche per il direttore d’orchestra, come s’è detto. È mia convinzione che bisogna sempre diffidare di costumi troppo ricchi: spesso nascondono la mancanza di idee registiche. Come in questo caso.

Lucie de Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

direzione di Evelino Pidò

regia di Patrice Caurier e Moshe Leiser

gennaio 2002, Opéra Nouvel, Lione

È disponibile in rete il video tramesso a suo tempo dalla televisione satellitare francese della produzione di Lione del dramma di Donizetti. Si tratta di una ghiotta occasione per conoscere la versione francese data a Parigi nel 1839 al Théâtre de la Renaissance, due anni dopo la presentazione dell’edizione italiana al Théâtre-Italien in cui si erano esibiti la Fanny Tacchinardi Persiani (del debutto italiano) e Giovanni Battista Rubini. Nel 1846 Lucie de Lammermoor ritornerà, ma questa volta all’Opéra con Maria Dolores Nau e Gilbert-Louis Duprez, colui che aveva creato il ruolo di Edgardo a Napoli il 26 settembre 1835.

Nelle parole dell’Ashbrook ecco le differenze nella bella e concisa versione francese di Alphonse Rouer e Gustave Vaëz: «La partitura venne considerevolmente modificata, principalmente per adeguarla alle limitate risorse finanziarie, nonché artistiche, della compagnia del Renaissance. La prima scena spiega gli antefatti della vicenda in modo piú chiaro rispetto alla versione italiana; i recitativi che inquadrano il Larghetto di Henri sono riscritti e Arthur entra finita la cabaletta di Henri mentre viene ripetuto il coro iniziale, dopo di che tutti partono per la caccia. Non vi è cambiamento di scena prima della comparsa di Lucia, manca l'”a solo” di arpa e la protagonista fa la sua entrata con le arie di Rosmonda d’Inghilterra ora diventate “Que n’avons nous des ailes” e “Toi par qui mon coeur rayonne”. Il personaggio di Alisa è soppresso e la sua parte nel sestetto è assunta da un nuovo personaggio, Gilbert, il quale si presenta come un miscuglio di Normanno e Alisa. Egli esce di scena prima delle arie di Lucia, le quali non hanno tempo di mezzo, dopo che essa gli ha consegnato un borsellino in cambio della promessa di vigilare su di lei. Non vi sono altri cambiamenti importanti nel primo atto. Il recitativo che precede il duetto Lucie-Henri è nuovo e rivela la falsità di Gilbert. La scena fra Lucia e Raimondo è soppressa. Subito prima del sestetto, alcune delle esclamazioni generali sono adattate a voci singole e la stretta conclusiva è molto scorciata. Il terzo atto è alquanto rielaborato al fine di ridurre il numero delle scene richieste. Comincia con il coro nuziale, seguito dall’arrivo di Edgard in casa di Ashton al quale lancia la sfida. Il duetto tenore-baritono è seguito da una ripetizione del coro nuziale, ma quando sopraggiunge Raimond con la terribile notizia, questa è annunziata non piú in un’aria ma in un recitativo di otto battute. Il raccordo fra la reazione del coro alle notizie di Raimond e il recitativo prima della scena della follia (qui nella tonalità originale di Fa) è modificato: due frasi di Raimond, senza commento, del coro. Il recitativo iniziale della scena della follia è lievemente abbreviato, ma le arie sono le stesse, il cambiamento principale consiste nell’eliminazione durante il tempo di mezzo (qui in Mi) dei commenti degli altri personaggi mentre canta Lucia e in un cospicuo taglio prima della cabaletta. Dopo quest’ultima viene eliminato il recitativo di Raimond e Normanno. Durante la scena del sepolcro, tutto resta uguale fino al momento in cui Edgard si pugnala; qui figurano tre nuove battute mentre sopraggiunge Henri per battersi in duello. La seconda esposizione della cabaletta corrisponde a quella della partitura italiana. L’ultima diversità riguarda una parte per Henri aggiunta nel corpo del Più allegro conclusivo. Se si eccettuano i brani di recitativo, Donizetti non compose pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor, falcidiando invece l’originale italiano in modo da rendere l’opera eseguibile da parte di una piccola compagnia. Salvo per quanto riguarda la più chiara esposizione della vicenda, Lucie non può essere considerata come una soddisfacente alternativa alla versione originale in italiano».

Io non sono del tutto d’accordo con lo studioso americano e non lo è neppure Elvio Giudici per il quale nel lavoro dei due librettisti c’è una «migliore modellatura della vicenda, che acquista parecchio sia in comprensione sia in logica di sviluppo pur sfumando parecchie fisionomie la cui sgradevolezza sarebbe invece importante snodo drammaturgico. L’abbastanza repellente figura di Raimondo, classico leccapiedi del potente pronto a ogni riscatto morale pur di favorirne i disegni, perde rilievo circoscrivendo la sua presenza». Diverso il discorso per la parte titolare: l’eliminazione dell’aria “Regnava nel silenzio” sostituita dalla traduzione di “Perché non ho nel vento” della Rosmonda, porta alla perdita del “fantasma” (di cui si è fatto eccessivo uso nelle regie più recenti) e a una minore definizione del personaggio di Lucie – se in scena non ci fosse però Natalie Dessay… Geniale è invece aver eliminato il personaggio di Alisa: Lucie rimane l’unico personaggio femminile in questo universo dominato dal testosterone maschile. Nell’allestimento di Patrice Caurier e Moshe Leiser anche il coro della festa è rappresentato tutto al maschile, le scenografie sono essenziali e tutto è lasciato in ombra affinché risalti la psicologia dei personaggi evidenziati da intensi primi piani dalla regia video. Costumi d’epoca di grande eleganza e luci radenti formano uno spettacolo intrigante.

Non è solo per ragioni di marketing che Sebastian Na è sostituito da Roberto Alagna nell’edizione discografica. Al tenore coreano, di cui si è persa traccia, non è che manchi lo squillo richiesto dalla parte di Edgard Ravenswood, ma a parte la dizione, il tono è generalmente lamentoso. La scintilla fra i due cantanti non scatta mai, nonostante la trascinante direzione di Pidò. Natalie Dessay è una sublime Lucie che fa star male dall’emozione che suscita, purtroppo furono solo due le recite in cui fu presente prima di essere sostituita da Patrizia Ciofi. Un po’ ingessato come il suo solito Ludovic Tézier, l’inesorabile fratello Henri Ashton, ma così risalta meglio il personaggio. Marc Laho è un giustamente fatuo Arthur, Nicolas Cavallier è Raymond (ruolo molto ridimensionato come s’è detto rispetto all’originale Raimondo) e Yves Saelens un incisivo Gilbert, il perfido personaggio nuovo.

Per riassumere, tre sono le edizioni disponibili di questo spettacolo di Lione: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

Il castello di Kenilworth

fotografie © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Il castello di Kenilworth

★★★★☆

Bergamo, Teatro Sociale, 24 novembre 2018

Donizetti & Liz. Part I.

Donizetti affronta per la prima volta il personaggio di Elisabetta I nel 1829Al San Carlo di Napoli va infatti in scena il 6 luglio Elisabetta al castello di Kenilworth, così recita il titolo originale, melodramma «composto dal Sig. Andrea Leone Tottola, poeta drammatico de’ Reali Teatri di Napoli». Un altro castello, quello di Windsor, sarà teatro delle vicende di Enrico VIII e Anna Bolena; quello di Fotheringhay vedrà la regina d’Inghilterra confrontarsi con la rivale Maria Stuarda; quello di Westminster il suo ultimo amore per un altro conte, Roberto Devereux.

La storia, tratta dal Kenilworth di Walter Scott, era già stata oggetto di una commedia di Gaetano Barbieri rappresentata nel 1823, anno in cui a Parigi aveva debuttato invece l’opéra-comique di Auber Leicester ou Le château de Kenilworth su libretto di Scribe e Mélesville. A Napoli la vicenda si dimostrava adeguata all’occasione celebrativa del genetliaco di Maria-Isabella di Borbone, aggiustata com’era con quel lieto fine in cui la regina Elisabetta magnanimamente perdona il tradimento del conte di Leicester e il suo gesto di clemenza ne sottolinea la grandezza di sovrana: «Brittannia avventurata, | se il cielo a te destina | il don di una eroina, | che ogni alma sa bear!» canta il coro a chiusura dell’opera.

Atto I. Elisabetta I è in visita al Castello di Kenilworth, dimora del conte di Leicester, segretamente sposato con Amelia, diviso tra l’amore per la moglie e le attenzioni che la regina gli riserva. Essere il favorito della regina gli aprirebbe la via per salire al trono, idea che stimola in lui una grande ambizione. Amelia deve quindi essere nascosta alla vista di Elisabetta, compito di cui si dovrebbe occupare Lambourne, servitore dello scudiero Warney, che in segreto la desidera e cerca di conquistarla con l’inganno. Giunta la regina, Leicester chiede a Warney se ha portato a termine il suo compito, quindi accompagna la regina e tutta la corte all’interno del castello.
Atto II. Leicester non tarda a provare rimorsi né Amelia a provare gelosia per Elisabetta, e le rassicurazioni e le dichiarazioni d’amore di lui non placano l’agitazione di lei. Warney, rifiutato dalla donna, congiura per ucciderla e consegna a Lambourne un pugnale per compiere il delitto. Amelia intanto, fuggita dalla prigione e finita nei giardini del castello, incontra la regina, le palesa il suo matrimonio con Leicester e la manda su tutte le furie. Leicester e Warney rientrano da una battuta di caccia, ma a quel punto l’unica preda è Amelia, catturata dalle guardie della regina.
Atto III. Warney avanza nuovamente pretese sulla donna, mentre la regina finge di credere che Amelia sia moglie di Warney e che la fedeltà di Leicester sia intatta, spiando le reazioni del conte. Leicester ribadisce di non voler rinunciare ad Amelia, per la quale sarebbe disposto ad accettare anche la morte pur di non abbandonarla. Elisabetta sfoga nel furore la sua sete di vendetta. Visto il suo stato di depressione, Warney e Lambourne giungono con una coppa in mano. È veleno, e Fanny grida ad Amelia di non bere. Sopraggiungono Leicester ed Elisabetta, che ha riacquisito il controllo che si conviene alla sua dignità reale. Amelia viene liberata dalla prigione, Leicester viene perdonato, Warney viene allontanato ed Elisabetta viene acclamata per la sua clemenza..

Il giovane Donizetti si muove nell’ambito del modello allora in voga, quello rossiniano. Il castello di Kenilworth è un susseguirsi esaltante di cabalette trascinanti sulle note puntate degli archi e dei legni, ma ancora più evidente il marchio del pesarese è nei concertati, come quello che conclude il secondo atto con ognuno dei quattro personaggi principali che reagisce a suo modo con largo uso di punti esclamativi: Leicester, che vede  fallire il piano di nascondere la moglie alla vista della regina («Dessa! Amelia! E alla regina | chi l’addusse? Oimè ! Qual gelo»); Elisabetta, che ha scoperto una rivale nella moglie del suo amante («Freme! Ondeggia irresoluto! | La sua fronte è sbalordita!»); Amelia, che scopre invece il tradimento del marito («Ah! Che seppi! Qual cimento! | Mi tradì quel cor crudele»); Warney, agitato tra l’amore per Amelia e la voglia di vendetta («Come! Amelia a me rapita! | Oh funesto avvenimento!»). È la miglior pagina della partitura secondo l’Ashbrook, che definisce l’opera «lavoro tutt’altro che trascurabile […] benché si debba ammettere che è svantaggiato da un intreccio melodrammatico senza chiare motivazioni e che gli abbellimenti vocali delle melodie di Elisabetta […] sono, specialmente nell’aria finale, più estroversi e formali che pervasi di reale emozione».

Nel Kenilworth Donizetti utilizza, sei anni prima della Lucia di Lammermoor (un’altra vicenda ambientata in castelli immersi nelle brume dell’Inghilterra), la glasharmonika: Amelia desolata pensa al passato («Par, che mi dica ancora… | “Io ti amerò costante!” | quanto quest’alma amante | era felice allor!») nella grande scena e aria che precede il finale terzo, e i suoni sognanti dell’arpa e dei bicchieri di cristallo (sfiorati dalle dita di Sascha Reckert) accompagnano il dolente monologo della sventurata donna. La partitura offre molti altri momenti felici esaltati dalla bacchetta di Riccardo Frizza che restituisce magistralmente i colori e gli accenti di questo Donizetti ormai maturo.

Elisabetta è una regale Jessica Pratt, perfettamente a suo agio nel ruolo, con un registro centrale ricco e sonoro e acuti abbaglianti. Sulla vocalità dell’immancabile Carmela Remiglio, intensa Amelia, continuo ad avere le mie riserve e non ne ripeto qui le ragioni. Xabier Anduaga affronta la parte di Leicester con piglio sostenuto, il timbro è luminosissimo, gli acuti precisi e la dizione esemplare. Parimenti eccellente Stefan Pop, il cattivo, suo malgrado, della situazione. Qui Warney è ancora un tenore: nella revisione del 1836 diventerà un baritono. Efficaci si sono dimostrati gli interpreti secondari e il coro.

L’allestimento scenico è stato affidato a María Pilar Pérez Aspa, attrice spagnola alla sua prima esperienza di regia lirica, senza particolari intendimenti e con qualche ingenuità, soprattutto per il personaggio di Elisabetta di cui viene sottolineata l’innocenza giovanile (all’inizio viene presentata bendata ed eccitata come una ragazzina per gli abiti nuovi che scendono dall’alto), la regista si riscatta però con un efficace coup de théâtre nel finale: il reticolo della pedana inclinata, unico elemento previsto nell’impianto scenografico di Angelo Sala oltre alla gabbia semovente in cui viene rinchiusa Amelia, si solleva e diventa una grata che separa Elisabetta dagli altri. La regina abdica agli affetti e si rinchiude in una prigione dorata cui è destinata dal suo ruolo di sovrana. Disegnati con eleganza i costumi d’epoca di Ursula Patzak, soprattutto quello di Warney, un nero abito vescovile con croce dorata appesa al collo che cela un pugnale.

Entusiasmo alle stelle del pubblico del Sociale nei confronti del maestro Frizza, degli interpreti e dei creatori della messa in scena.


4weybPPA.jpeg

LluhtBLQ.jpeg

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★★★

Madrid, Teatro Real, 7 luglio 2018

(video streaming)

Se fosse un film, la fotografia sarebbe da premio Oscar

Nel teatro a forma di cassa da morto di fronte al Palazzo Reale di Madrid, va in scena l’opera di Donizetti. Annunciata come la Lucia integrale – in quanto i tagli sono stati eliminati, ripristinate riprese, cadenze e le pagine spesso omesse – la sua durata arriva quasi alle tre ore, compresi i lunghi applausi a scena aperta, il bis del concertato del matrimonio richiesto insistentemente da un pubblico in delirio e i dieci minuti di ovazioni finali.

«La promessa sposa di Lammermoor, istorico romanzo dell’Ariosto scozzese, mi parve subbietto più che altro acconcio per le scene: però non deggio tacere, che nel dargli la forma drammatica, sotto di cui oso presentarlo, mi si opposero non pochi ostacoli, per superare i quali fu mestieri allontanarmi più che non pensava dalle tracce di Walter Scott. Spero quindi, che l’aver tolto dal novero de’ miei personaggi taluno di quelli che pur sono fra i principali del romanzo, e la morte del Sere di Ravenswood diversamente da me condotta (per tacere di altre men rilevanti modificazioni) spero che tutto questo non mi venga imputato come a stolta temerità; avendomi soltanto a ciò indotto i limiti troppo angusti delle severe leggi drammatiche». Così avverte il librettista Salvadore Cammarano a prefazione del suo dramma tragico in due parti. David Alden non pecca di “stolta temerità” e per una volta la sua lettura del lavoro donizettiano non si scosta molto dal dettato tradizionale, se non per l’ambientazione più tarda: dalla Scozia del secolo XVI siamo passati a quella vittoriana, epoca in cui il destino delle donne non è poi cambiato di molto.

Le lugubri note iniziali ci introducono nella severa ma malmessa dimora dei Ravenswood nella magnifica scenografia disegnata da Charles Edwards. Il coro iniziale rimane fuori della grande stanza col lettino di ferro su cui si agita Lucia mentre il fratello riguarda i ritratti fotografici della sua “prosapia”. È ancora con uno di questi in mano che Enrico rimane davanti al sipario che si è abbassato alla fine della scena terza. Il preludiare dell’arpa è qui riferito non alle zampillanti gocce della “fontana della Sirena”, «altra volta coperta da un bell’edifizio, ornato di tutti i fregi della gotica architettura, al presente dai rottami di quest’edifizio sol cinta», ma ai pensieri foschi di Enrico. Non ci sono esterni in questa visione claustrofobica: Lucia è una reclusa, siede sul davanzale interno di quello che sembra un boccascena chiuso da un pesante cortinaggio da cui uscirà Edgardo. Alisa striscia lungo il muro, terrorizzata dall’«orribile periglio» e il racconto della ragazza aumenta ancora di più il suo sgomento: l’atmosfera e l’ambientazione potrebbero essere quelle di un racconto di fantasmi di Henry James. Efficacissimo a questo scopo il gioco di luci – e ombre – di Adam Silverman. Il coro gioioso «Per te d’immenso giubilo» non potrebbe essere più lugubre con quei vestiti e quei visi che gareggiano in tetraggine con i vecchi dagherrotipi appesi alle pareti. L’ormai imprenscindibile glasharmonica qui risulta ancora più spettrale e solo quando Lucia mostra l’altra metà del corpo vediamo il sangue di cui è macchiata. Durante il suo delirio la tenda si apre per rivelare il corpo insanguinato di Arturo con la mano chiusa nel rigor mortis alla sottoveste di Lucia. Un film dell’orrore. Il tutto è visto come una recita («Ditemi: vera è l’atroce scena?» chiede Enrico), una sanguinosa messinscena applaudita al rallentatore dagli invitati, qui morbosi spettatori. Negli interminabili applausi che salutano il termine della scena della pazzia, Lucia rimane in una posa da crocefissa vittima dei maschi: un fratello che usa il suo corpo per ripianare i debiti, un confessore che la raggira, un amante impetuoso che l’abbandona, uno sposo detestato.

La messa in scena di Alden, nata nel 2008 per la English National Opera, punta a una forte definizione dei personaggi: l’Enrico e gli scagnozzi ubriachi nella scena della torre (qui tutt’altro che discussione tra gentlemen), l’Edgardo un po’ truzzo in kilt, la fragilità infantile di Lucia, con le sue bambole e i suoi orsacchiotti, il che rende ancora più sconvolgente il suo atto di sangue.

Peccato per gli applausi che spezzano la tensione drammatica di questa tesa e coinvolgente lettura, ma il pubblico madrileno non riesce a contenere il suo entusiasmo per un cast difficilmente uguagliabile. Lucia è Lisette Oropesa dal timbro affascinante e dal gradevole vibrato. Perfettamente in sintonia con la lettura del regista, il soprano lirico americano emoziona con la sua intensa presenza scenica, l’espressività delle frasi e una performance vocale sorprendente fatta di filati e legati impeccabili, acuti luminosi, lunghi fiati e mezze voci purissime. Debuttante nel ruolo, ma sicuro e con puntature prodigiose, è l’Edgardo di Javier Camarena, timbro chiaro e ben proiettato, mezzi vocali ben padroneggiati, declamati scolpiti nella parola, incantevoli mezze voci, slanci lirici appassionati e una dizione perfetta. Per una volta gli interpreti stranieri non sono da meno, riguardo alla corretta pronuncia, nei confronti dell’unico italiano del cast, l’autorevole Roberto Tagliavini, elegante e signorile Raimondo. Artur Ruciński è un Enrico che ha un rapporto autoritario ma anche morboso con la sorella. Il baritono polacco dimostra anche qui il suo grande temperamento e la sicura vocalità. Pur nella sua perfetta tecnica vocale Yijie Shi non fa molto per rendere più consistente la figura di Lord Arturo da vivo.

Assieme al magnifico coro, la direzione di Daniel Oren svela particolari quasi inediti di una partitura restituita con colori e dinamiche sempre cangianti. Il direttore non frena i cantanti che con le loro puntature galvanizzano il pubblico. Difficile restare insensibili dopo il sopracuto lanciato nel finale di una cabaletta: è fisiologico, un riflesso condizionato a cui non si sfugge. Ma l’opera, soprattutto quella dell’Ottocento, è anche questo.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Losanna, Opéra, 4 ottobre 2017

(video streaming)

La Lucia splatter di Poda

Questa produzione dell’Opéra de Lausanne del capolavoro romantico di Donizetti si avvale della visionarietà di Stefano Poda. Come al solito il regista si occupa anche di scene, luci e costumi: un mondo astratto e stilizzato tutto al maschile, nero, opprimente quando non brutale. Strutture geometriche che salgono e scendono, il castello degli Ashton è una scaffalatura di tubi che pullula di minacciose figure maschili in lunghe palandrane nere, altre strutture geometriche scenderanno e saliranno: una cubica a ingabbiare Lucia nella scena del parco dell’atto primo. Nella stessa gabbia Edgardo canterà «Tombe degli avi miei».

L’attualizzazione dell’ambientazione è ormai di prammatica di questi tempi, né sfuggono a questo neoconformismo i costumi, tutti rigorosamente in nero. Sola macchia di colore è quello di Lucia prima in rosso e poi in bianco come lo sposo, un bianco però presto insozzato di sangue. La freddezza della lettura di Poda nella scena della pazzia incontra lo splatter con una profusione di liquido rosso sul corpo nudo di Arturo assassinato su cui si adagia la donna scambiandolo per Edgardo. Nel finale Edgardo li raggiunge tagliandosi la gola e aggiungendo altro sangue a quello già presente.

Come sempre totale è l’assenza di regia attoriale e gli interpreti ci mettono del loro, ma continuano a vagare per la scena come il resto del coro deambulante al rallentatore. Momenti efficaci come quando Lucia denuda il petto quale vittima sacrificale allorché cede alle pressioni del fratello a sposarsi, si alternano ad altri più lambiccati o al limite del ridicolo come nell’“assunzione” finale quando i due salgono “in cielo” e per terra rimane il cadavere insanguinato di Arturo.

L’accompagnamento della glasharmonica è ormai, giustamente, di rigore e in questo allestimento il suono irreale dello strumento si riflette nella miriade di coppe di cristallo sulla tavola degli invitati che, pure loro chini sui bicchieri, passano il dito sull’orlo con sguardo stralunato.

I due protagonisti sono entrambi debuttanti nel ruolo e ciò rende ancora più pregevoli le loro performance. Lucia è Lenneke Ruiten, che supera le difficoltà della parte con una tecnica ragguardevole e un bel volume di voce. Se risulta un po’ fredda all’inizio nel cantabile «Regnava nel silenzio», nella seconda parte della scena della pazzia in «Spargi d’amaro pianto» le agilità sono grida di dolore e il soprano olandese raggiunge un’intensità stupefacente appena incrinata da due acuti un po’ troppo gridati. Airam Hernández è un Edgardo giovanile e squillante che però offre il meglio nel finale con colori e toni molto ben sfumati. Grossolano e stentoreo l’Enrico di Ángel Ódena che non conosce mezze tinte. Sarebbe meglio il Raimondo di Patrick Bolleire se non fosse per una voce ingolata e una improponibile dizione impastata in cui poche sono le parole non storpiate. Eppure siamo a pochi chilometri dal confine italiano! Non molto meglio sono Normanno e Arturo. Eccellente, invece, pur nella parte esigua, l’Alisa di Cristina Segura.

La direzione musicale di Jesús López-Cobos è intensa e teatrale ma se la deve vedere con un coro piuttosto impreciso che mette spesso in sfasamento il palcoscenico con la buca. Il maestro apre giustamente tutti i tagli di tradizione, compresa la scena della torre di Wolferag, dando però così più spazio al ruolo di Enrico, purtroppo.

Stefano-Poda-Lucia-di-Lammermoor-2017-c-Alan-Humerose-10.jpg

Lucia13__c__Alan_Humerose_.jpg

Lucia19__c__Alan_Humerose_.jpg

Stefano-Poda-Lucia-di-Lammermoor-2017-c-Alan-Humerose-24.jpg

Lucia di Lammermoor

Senza titolo.jpg

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 13 e 14 maggio 2016

Il fantasma col secchio

Non ancora ripresi dallo choc della produzione londinese della Katie Mitchell di tre settimane fa vista in live streaming, i melomani torinesi affrontano un’altra Lucia senza tartan né romantiche rovine. Non solo non siamo tra le brughiere della Scozia di Sir Walter Scott e della sua Bride of Lammermoor, ma neanche «al declinare del secolo XVI», come indica Salvadore Cammarano, il librettista della quarantacinquesima opera di Gaetano Donizetti (1835).

Proveniente da Zurigo e Barcellona, l’allestimento di Damiano Michieletto si avvale della fedele collaborazione dello scenografo Paolo Fantin per costruire una scena unica minimalista costituita da una struttura sventrata e sbilenca in acciaio e cristallo («L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel castello di Ravenswood, parte nella rovinata Torre di Wolferag»), simbolo onnipresente della decadenza della casata. Questa volta però il regista veneziano non apporta nessuna sostanziale novità alla lettura del capolavoro donizettiano, tuttavia lo scarno allestimento ha il merito di mettere bene in luce lo straordinario taglio narrativo della vicenda: dal prolisso romanzo il librettista ha saputo ricavare sapientemente una serie di scene dal taglio quasi cinematografico in cui tutto è essenziale e non c’è nulla di ridondante.

Come ormai è invalso nelle produzioni degli ultimi anni anche qui abbiamo il fantasma della donna uccisa che vaga per il palcoscenico con cappellino e guanti bianchi (siamo negli anni ’50 secondo i costumi di Carla Teti), una “signorina grandi firme” che incede come su una passerella di moda portando un secchio d’acqua (!), sineddoche della fontana in cui è annegata, oppure una rosa che si infilza rumorosamente sul palcoscenico. Ed è lei che spingerà Lucia al suicidio dalla predetta torre.

Lo spettacolo non era iniziato male, con quella caccia a Edgardo che si rifugia nella torre braccato da uomini in divisa con torce elettriche che fendono il buio e con un cane lupo, poco interessato in verità a seguire le tracce del fuggitivo. L’arrivo di Enrico, testa pelata da gerarca fascista e cappottone di pelle, è anche efficace, ma poi la direzione attoriale si perde in trovate infelici come i calci nella pancia di Enrico nella scena del matrimonio, il twist degli invitati nella torre, l’arroganza di Arturo.

Jessica Pratt ha fatto di Lucia il suo ruolo di predilezione. Con un’emissione continua e omogenea nei registri, acuti luminosi e timbro di grande dolcezza, il soprano australiano mette in evidenza la liricità del ruolo piuttosto che l’agilità, anche se la sua coloratura è sempre perfetta pur con un che di dosato e cauto. Non nel primo duetto con Edgardo però, in cui invece del sib previsto in partitura ha sparato un sorprendente fa sopracuto.

Nella scena della pazzia ormai è imprescindibile l’utilizzo della glasharmonica originariamente prevista dal compositore e qui un esperto dello strumento, formato da coppe di cristallo, ha accompagnato in maniera mirabile il canto spettrale della Pratt che ha incantato il pubblico con le sue note tenute e di una purezza altrettanto cristallina.

Piero Pretti è un Edgardo corretto, ma non emoziona e la scintilla col soprano non scocca mai. Decisamente più efficace l’Enrico di Gabriele Viviani, mentre successo personale è stato quello di Aleksandr Vinogradov, un Raimondo dalla voce grave e potente, anche troppo: più che un «educatore e confidente» sembrava un pope uscito da un’opera russa. Per non parlare della dizione.

Secondo cast di pari livello, se non superiore. Il soprano rumeno Elena Moșuc ha da tempo al suo attivo il ruolo di Lucia. Linea vocale forse meno pura della Pratt, ma con più temperamento e presenza scenica e neanche lei rinuncia alle puntature nel primo duetto, più riuscite di quelle della collega. Superiore è anche l’altro Edgardo, quello di Giorgio Berrugi, che oltre a cantare le note scolpisce e dà significato ad ogni parola e rende credibile il suo rapporto con il soprano e, finalmente, emoziona. Simone del Savio ha un po’ meno presenza fisica come Enrico, per cui supplisce con effetti vocali talora meno controllati. Con Mirco Palazzi, infine, abbiamo il Raimondo ideale con il timbro di voce giusto e la dizione perfetta.

La direzione di Noseda è talora un po’ sostenuta, ma rende comunque con efficacia i momenti di lirismo o di rarefatta sospensione della partitura.

Platea con ampie defezioni in entrambe le recite di fine settimana. Se neanche un titolo di repertorio come questo riesce a riempire un teatro di 1582 posti (ricordiamo che il vecchio Regio aveva 3000 posti quando Torino non arrivava a trecentomila abitanti) allora la Ditta Vergnano & C. deve incominciare a preoccuparsi.

IMG_3587

La glasharmonica di Sascha Reckert