Lucie de Lammermoor

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Bergamo, Teatro Sociale, 18 novembre 2023

Una Lucia a metà per ricordare le vittime di femminicidio

A poche ore dal ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchetti, ennesimo femminicidio in Italia quest’anno, va in scena un’altra vicenda di violenza su una donna e Francesco Micheli, direttore del Festival Donizetti Opera, prima che il sipario si alzi su Lucie di Lammermoor, la versione francese del capolavoro donizettiano, sente il dovere di dedicare la rappresentazione a tutte le Giulie e le Lucie vittime della violenza maschile. Contemporaneamente però annuncia che l’interprete principale andrà in scena anche se indisposta. Purtroppo un altro annuncio alla ripresa della seconda parte conferma quello che si temeva: l’interprete prevista non è in grado di continuare e la sua voce viene sostituita da quella di un’altra cantante resasi disponibile nel frattempo.

Così funestata è dunque la ripresa di questa curiosità, non inedita peraltro in quanto nel 2002 aveva fatto epoca l’edizione dell’Opéra de Lyon diretta da Evelino Pidò di cui esistono fortunatamente ben tre diverse registrazioni: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

Anche se Donizetti negli anni ’30 collezionava successi in patria, si apprestava a giocare la carta francese perché solo Parigi poteva ufficializzare il successo a livello internazionale. Sono di quegli anni dei soggetti che hanno qualche elemento transalpino: Parisina (1833), L’assedio di Calais (1836), Gianni di Parigi (1839). Anna Bolena era stata un successo al Théâtre-Italien nel 1831 e in questo teatro nel 1837 Lucia di Lammermoor era stata accolta con grande favore. Ma un’altra sala stava emergendo, il Théâtre de la Renaissance, che si era aggiunto agli altri tre grand théâtres della capitale – l’Opéra, l’Opéra-comique, il Théâtre-Italien appunto. Qui veniva messa in scena l’opéra de genre, una soluzione che non desse fastidio alle altre sale: non un grand-opéra dunque, non un opéra-comique con i suoi dialoghi parlati, ma nemmeno un’opera in lingua italiana, appannaggio del Théâtre-Italien. In questo sistema rigorosamente strutturato c’era spazio per un’opera italiana in traduzione francese, con i dialoghi cantati e un allestimento non troppo grandioso. 

Con il libretto affidato ad Alphonse Royer e Gustave Vaëz, Lucie de Lammermoor debutta al Théâtre de la Renaissance il 6 agosto 1839 con grande clamore. Una dimostrazione indiretta del favore riscosso dall’opera e della sua successiva popolarità è quella fornita da Gustave Flaubert nel capitolo XV della seconda parte della sua Madame Bovary dove narra del marito che accompagna Emma al teatro di Rouen per una recita della Lucie. Che si tratti proprio della versione francese ce lo rivelano alcuni particolari della recita vista con gli occhi della donna, moglie in crisi che si immedesima con il personaggio del titolo, tanto che «La voix de la chanteuse ne lui semblait être que le retentissement de sa conscience, et cette illusion qui la charmait quelque chose même de sa vie» (La voce della cantante le sembrava nient’altro che l’eco della sua coscienza, e l’illusione che la incantava qualcosa della sua stessa vita).

Rispetto alla versione originale, quella francese ha molte differenze, le principali essendo la soppressione del personaggio di Alisa assorbito da quello di Gilbert, che assimila anche la parte di Normanno, e il maggior ruolo di Sir Arthur. Manca qui l’assolo di arpa all’entrata della protagonista che invece di «Regnava nel silenzio» e «Quando rapito in estasi» canta le arie di Rosmonda d’Inghilterra diventate qui «Que n’avons nous des ailes» e «Toi par qui mon coeur rayonne». Viene soppressa anche la scena tra Lucia e Raimondo nel secondo atto e il terzo è rielaborato per ridurre il numero di cambi di scena. Donizetti non compone pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor: quella che viene fuori è una versione «simplifiée» dell’originale italiano, un modo per rendere l’opera eseguibile con bassi costi d’allestimento e con una piccola compagnia. 

La soppressione di Alisa, l’unico altro personaggio femminile, ha il risultato di isolare ancor più il personaggio di Lucie in questo mondo tutto al maschile, tema su cui si è sviluppata la lettura del regista Jacopo Spirei. Fin dalla prima scena i cacciatori sono trasformati in “cacciatori di femmine”: quattro ragazze diventano le prede senza ritegno di un branco di maschi la cui brutalità segnerà tutto il corso dell’opera, fino al finale con un mucchio di cadaveri femminili e ambientato in un cimitero di automobili, non proprio le «tombes de mes aïeux, d’une famille éteinte»… La scena unica di Mario Tinti, una foresta dipinta, vale anche per gl’interni previsti dal libretto, mentre i costumi di Agnese Rabatti ci immergono nella contemporaneità. Poco è fatto dal regista per migliorare la presenza scenica dei cantanti e del coro, quello bravissimo dell’Accademia della Scala istruito da Salvo Sgrò, e alterna è la resa della direzione di Pierre Dumoussaud, con tempi lenti fin troppo allargati, e quelli veloci piuttosto disordinati. Incerta è l’intonazione dei corni dell’Orchestra Gli Originali, 47 elementi che nell’insieme danno un suono poco corposo e povero di colori.

Caterina Sala si è molto impegnata per questo debutto, ma un’indisposizione, che si sperava si risolvesse, non ha invece permesso al giovane soprano di terminare la sua performance: dopo la prima parte, portata avanti con evidente fatica, la cantante ha dovuto dare forfait e dopo l’intervallo è rimasta in scena per “mimare” la sua parte mentre veniva doppiata al leggio da Vittoriana De Amicis, che in così breve lasso di tempo ha generosamente permesso che anche la seconda parte dello spettacolo andasse in porto. La sostituzione ha fatto scoprire le buone qualità vocali di De Amicis che ha reso più che apprezzabile la resa della scena della pazzia, in questa versione accorciata rispetto all’originale, ma comunque irta di difficoltà affrontate e risolte con disinvoltura. Peccato solo che proprio nell’ultimo acuto ci sia stata un’imperfezione che ha così frenato il pubblico dall’esplodere in un’ovazione.

Se il soprano ha avuto dei problemi, non molto meglio è stato per il tenore: l’Edgard Ravenswood di Patrick Kabongo si è rivelato subito di voce sottile, poco proiettata e l’indubbia tecnica e l’ottima dizione non hanno salvato un’interpretazione deludente. Vocalmente non ha deluso invece Vito Priante, autorevole Henri Ashton, personaggio qui ancora meno accettabile anche se non si abbassa alle nefandezze dei suoi accoliti. Una piacevole sorpresa è l’Arthur Buckhaw di Julien Henric, tenore lionese dal timbro limpidissimo, bel fraseggio ed eleganza scenica, già apprezzato a Ginevra dove è stato membro dell’ensemble giovani del Grand Théâtre. Con lui si ha uno dei pochi casi in cui si rimpiange la repentina uscita di scena di Arthur! Eccellenti sono anche il personalissimo Gilbert doppiogiochista di David Astorga e il possente Raimond di Roberto Lorenzi. Non ci si può certo lamentare che manchino le belle voci maschili oggi.